BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Il Novellino

ca. 1290

 

Il Novellino

 

41 – 50

Argomentazioni corette e argomentazioni capziose

 

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XLI

Una novella di messer

Polo Traversaro.

 

Messer Polo Traversaro fu di Romagna, e fu lo più nobile uomo di tutta Romagna, e quasi tutta Romagna signoreggiava a cheto.

Aveavi tre cavalieri molto leggiadri, e non parea loro che in Romagna avesse nessuno uomo che potesse sedere con loro in quarto. E però, là ov'elli teneano corte, aveano fatta una panca da tre, e più non ve ne capevano: e niuno era ardito che su vi sedesse, temendo la loro leggiadria; e, tuttoché messere Polo fosse loro maggiore – et ellino nell'altre cose l'ubbidiano –, ma pure in quello luogo leggiadro non ardia sedere, tutto ancora che confessavano bene ch'elli era lo migliore uomo di Romagna e 'l più presso da dover essere il quarto che niuno altro.

Che fecero i tre cavalieri? Vedendo che messer Polo li seguitava troppo, rimuraro mezzo l'uscio d'un loro palagio perché non vi entrasse. L'uomo era molto grosso di persona: non potendovi entrare, spogliossi ed entrovi in camisa. Quelli, quando il sentiro, entraro nelle letta e fecersi coprire come ' malati. Messere Polo giunse che li credeva trovare a tavola: trovolli nelle letta. Confortolli e domandolli di loro malavoglia, e avedeasine ben; e chiese commiato, e partissi da loro.

Que' cavalieri dissero:

«Questo non è giuoco»:

andarne a una villa dell'uno (quivi avea bello castelletto con bello fosso e bel ponte levatoio): posersi in cuore di fare quivi il verno.

Un die messere Polo v'andò con bella compagnia. Quando volle entrare dentro, que' levaro il ponte. Assai poté dire, che non v'entrò; e ritornossi indietro.

Passato il verno, ritornaro i tre cavalieri alla città. Messere Polo, quand'elli tornaro, non si levò; e que' ristettero, e l'uno disse:

«O messere, per mala ventura! che cortesie sono le vostre? Quando i forestieri giungono a città, voi non vi levate per loro?».

E messere Polo rispuose:

«Perdonatemi, messere: ch'io non mi levo se non per lo ponte che si levò per me».

Allora li cavalieri ne fecero grande festa.

Morìo l'uno de' cavalieri; e quelli segaro la sua terza parte della panca ove sedeano, quando il terzo fu morto, però che non trovaro in tutta Romagna neuno che fosse degno di sedere in suo luogo.

 

 

XLII

Qui apresso conta una bellissima novella di Guiglielmo di Berghedan di Proenza.

 

Guiglielmo di Berghedan fue nobile cavaliere di Proenza al tempo del conte Raymondo Berlinghieri. Un giorno avenne che ' cavalieri si vantavano, e Guiglielmo si vantò che non avea niuno nobile uomo in Proenza che non gli avesse fatto votare la sella e giaciuto con sua mogliera: e questo disse in aldienza del conte. E 'l conte rispuose:

«Or mee?».

Guiglielmo disse:

«Voi, signor, il vi dirai».

Fece venire un suo destrier sellato e cinghiato bene; li sproni in piedi, mise il piè nella streva, prese l'arcione e, quando fu così ammanato, parlò al conte e disse:

«Voi, signor, né metto né traggo»; e monta in sul destriere e sprona e va via.

Il conte s'adiroe molto. Que' non veniva a corte. Un giorno si ragunaro donne a uno nobile convito: mandaro per Guiglielmo – e la contessa vi fu –, e dissero:

«Or ci di', Guiglielmo: perché hai tu così unite le nobili donne di Proenza? Cara la comperai!».

Catuna avea uno mattero sotto. Quella che li parlava li disse:

«Pensa, Guiglielmo, che per la tua follia e' ti conviene morire».

E Guiglielmo, vedendo che così era sorpreso, parlò e disse:

«D'una cosa vi prego, donne, per amore della cosa che voi più amate: che inanzi ch'io muoia voi mi facciate un dono».

Le donne risposero:

«Volentieri: domanda, salvo che tu non dimandi tua scampa».

Allora Guiglielmo parlò e disse:

«Donne, io vi priego per amore che quale di voi è la più putta, quella mi dea in prima».

Allora l'una riguarda l'altra: non si trovò chi prima li volesse dare, e così scampò aquella volta.

 

 

XLIII

Qui conta di messer Giacopino Rangoni

com'elli fece a un giullare.

 

Messere Jacopino Rangoni, nobile cavaliere di Lombardia, stando uno giorno a una tavola, avea due ingaistare di finissimo vino innanzi, bianco e vermiglio. Un giucolare stava a quella tavola, e non s'ardiva di chiedere di quel vino. Avendone grandissima voglia, levossi suso e prese uno muiuolo e lavollo smisuratamente bene e davantaggio e, poi che l'ebbe così lavato e sciacquato molto, girò la mano e disse:

«Messere, io lavato l'hoe».

E messere Jacopino diè della mano nelle guastade e disse:

«E tu il pettinerai altrove che non qui».

Il giullare si rimase così, e non ebbe del vino.

 

 

XLIV

D'una quistione che fu posta

ad un uomo di corte.

 

Marco Lombardo fue nobile uomo di corte e fue molto savio. Fue a uno Natale a una cittade dove si donavano molte robe, e non n'ebbe niuna. Trovò un altro di corte, lo qual era nesciente persona appo lui, e avea avute robe. Di questo nacque una bella sentenza, ché quello giullaro disse a Marco:

«Che è ciò, Marco, ch'io ho avute sette robe e tu non niuna? E sì se' tu troppo migliore uomo e più savio di me! Quale è la ragione?».

E Marco rispuose:

«Non è per altro, se non che tu trovasti più de' tuoi ch'io de' miei».

 

 

XLV

Come Lancialotto si combatté

uno giorno a una fontana.

 

Messere Lancialotto si combattea un giorno a piè d'una fontana con uno cavaliere di Sansogna, lo quale avea nome A.: e combattevansi aspramente alle spade, dismontati de' loro cavalli. E, quando presero alena, si domandò l'uno del nome dell'altro. Allora messere Lancialotto li rispuose e disse:

«Da poi che tu disideri mio nome, or sappi ch'i' ho nome Lancialotto».

Allora si ricominciò la meslea intra ' due cavalieri, e 'l cavalier parlò a Lancialotto e disse:

«Più mi nuoce tuo nome che non fa la tua prodezza»: però che, saputo ch'egli era Lancialotto, si cominciò il cavaliere a dottare la bontà sua.

 

 

XLVI

Qui conta come Narcis s'innamorò

dell'ombra sua.

 

Narcis fue molto bellissimo. Un giorno avenne ch'e' si riposava sopra una bella fontana. Guardò nell'acqua: vide l'ombra sua ch'iera molto bellissima. Incominciò a riguardarla e rallegrarsi sopra la fonte, e l'ombra sua facea il simigliante; e così credette che quella fosse persona che avesse vita, che istesse nell'acqua, e non si acorgea che fosse l'ombra sua. Cominciò ad amare, e inamoronne sì forte, che la volle pigliare; e l'acqua si turbò e l'ombra sparìo, ond'elli incominciò a piangere sopra la fonte; e, l'acqua schiarando, vide l'ombra che piangea in sembiante sì com'egli. Allora Narcis si lasciò cadere nella fonte, di guisa che vi morìo e annegò.

Il tempo era di primavera; donne si veniano a diportare alla fonte; videro il bello Narcis anegato. Con grandissimo pianto lo trassero della fonte, e così ritto l'appoggiaro alle sponde, onde dinanzi dallo dio d'Amore andò la novella: onde lo dio d'Amore ne fece un nobilissimo mandorlo, molto verde e molto bene stante: e fue il primaio albero, che prima fa fiorita e rinnovella amore.

 

 

XLVII

Qui conta come uno cavaliere richiese

un giorno una donna d'amore.

 

Uno cavaliere pregava un giorno una donna d'amore e diceale intra l'altre parole com'elli era gentile e ricco e bello a dismisura, «e 'l vostro marito è così laido come voi sapete»; e quel cotal marito era dopo la parete della camera. Parlò e disse:

«Eh, messer, per cortesia: acconciate li fatti vostri e non isconciate li altrui».

Messer Lizio di Valbona fu il laido, e l'altro fue messer Rinieri da Calvoli.

 

 

XLVIII

Qui conta del re Currado, del

padre di Curradino.

 

Leggesi del re Currado, del padre di Curradino, che, quando era garzone, sì avea in compagnia dodici garzoni di sua etade, che li faceano compagnia. Quando lo re Currado fallava in neuna cosa, e ' maestri che·lli erano dati a guardia non lo battevano, ma battevano questi garzoni suoi compagni per lui. E que' dicea:

«Perché battete voi costoro?»

Rispondeano li maestri:

«Per li falli tuoi».

E que' dicea:

«Perché non battete voi me, ch'è mia la colpa?»

Li maestri rispondeano:

«Perché tu se' nostro signore; ma noi battiamo costoro per te. Onde assai ti de' dolere, se tu hai gentil cuore, ch'altri porti pena delle tue colpe».

E per ciò si dice che lo re Currado si guardava di fallire per la pietà di coloro.

 

 

XLIX

Qui conta d'uno medico di Tolosa come tolse per

moglieuna nepote dell'arcivescovo di Tolosa.

 

Uno medico di Tolosa tolse per mogliera una gentile donna di Tolosa, nepote dell'arcivescovo. Menolla. In due mesi fece una fanciulla. Il medico non ne mostrò nullo cruccio, anzi consolava la donna e mostravale ragioni secondo fisica, che ben poteva essere sua di ragione: e con quelle parole e con belli sembianti fece sì che nel parto la donna non la poteo traviare. Molto onoroe la donna nel parto; dopo il parto sì l'ebbe e dissele:

«Madonna, io v'ho onorata quant'i' ho potuto; priegovi per amore di me che voi ritorniate omai a casa del vostro padre. La vostra figliuola io terrò a grande onore».

Tanto andaro le cose innanzi, che l'arcivescovo sentì che 'l medico avea dato commiato alla nepote. Mandò per lui e, acciò ch'era grande uomo, parlò sopra a lui molto grandi parole, mischiate con superbia e con minacce. Quand'ebbe assai parlato, e 'l medico rispuose e disse così:

«Messer, io tolsi vostra nepote per moglie credendomi della mia ricchezza potere fornire e pascere mia famiglia; e fu mia intençio d'avere di lei uno figliuolo l'anno e non più, onde la donna ha cominciato a fare figliuoli in due mesi: per la qual cosa io non sono sì agiato, se 'l fatto dee così andare, ch'io li potesse notricare; e voi non sarebbe onore che vostro lignaggio andasse a povertade: perch'io vi cheggio mercede che voi la diate a uno più ricco omo ch'io non sono, che possa notricare i suoi figliuoli sì che a voi non sia disinore».

 

 

L

Qui conta di maestro Francesco, figliuolo

di maestro Accorso, da Bologna.

 

Maestro Francesco, figliuolo di maestro Accorso, della città di Bologna, quando ritornò d'Inghilterra, dove era stato lungamente, fece una così fatta proposta dinanzi al Comune di Bologna e disse:

«Un padre d'una famiglia si partì di suo paese per povertade e lasciò i suoi figliuoli e andonne in lontana provincia. Stando uno tempo, et elli vide uomini di sua terra. L'amore de' figliuoli lo strinse a domandare di loro, e que li rispuosero:

«Messere, vostri figliuoli hanno guadagnato e sono molto ricchi».

Allora, udendo così, si propuose di ritornare. Tornò in sua terra; trovoe li figliuoli ricchi. Adomandoe a' suoi figliuoli che 'l rimettessero in sulle possessioni sì come padre e signore. I figliuoli negaro, dicendo così:

«Padre, noi il ci avemo guadagnato: non ci hai che fare!»: sì che ne nacque piato, onde la legge volle che 'l padre fosse al postutto signore di ciò che aveano guadagnato i figliuoli.

E così andomando io al Comune di Bologna che le possessioni de' miei figliuoli siano a mia signoria: cioè de' miei scolari, li quali sono grandi maestri divenuti, et hanno molto guadagnato poi ch'io mi parti' da·lloro. Piaccia al Comune di Bologna, poi ch'io sono tornato, ch'io sia signore e padre, sì come comanda la legge che parla del padre della famiglia».