BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Il Novellino

ca. 1290

 

Il Novellino

 

11 – 20

Virtù sociali ed educazione atta a farle acquisire

 

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XI

Qui divisa dell'onore che Aminadab fece

al re David, suo naturale signore.

 

Aminadab, conduttore e mariscalco del re Davit, andò con grandissimo exercito di gente, per comandamento del re Davit, a una città de' Filistei.

Udendo Aminadab che·lla città non si potea più tenere e che s'avrebbe di corto, mandò al re Davit che li piacesse di venire all'oste con moltitudine di gente perché dottava del campo. Il re Davit si mosse incontanente et andò nel campo.

Ad Aminadab suo mariscalco domandoe:

«Perché mi ci ha' fatto venire?».

Aminadab rispuose:

«Messere, perché la città non si può più tenere, et io volea che la vostra persona avesse il pregio di così bella vittoria, anzi che l'avessi io».

Combatteo la città e vinsela; e lo pregio e l'onore n'ebbe lo re Davit.

 

 

XII

Qui conta come Antigono, mariscalco d'Alexandro,il riprese perch'elli facea sonare una cetera per suo diletto.

 

Antigono, conducitore d'Alexandro, facendo Alexandro un giorno per suo diletto sonare – e 'l sonare era d'una cetera –, Antigono prese la cetera e ruppela e gittolla nel fango, e disse ad Alexandro cotali parole:

«Al tuo tempo et etade si conviene regnare, e non ceterare».

E così si può dire: il corpo dell'uomo si è regno; vil cosa è la luxuria e quasi ha guisa di cetera. Vergognisi dunque chi de' regnare in virtude e diletta in luxuria.

Re Poro, il quale combattè con Alexandro, a un mangiare fece tagliare le corde della cetera a un ceteratore e disse queste parole:

«Meglio è tagliare che sviare: ché per dolcezza di suoni si perdono virtudi».

 

 

XIII

Come uno re fece nodrire un suo figliuolo anni dieci in tenebrose spilonche, e come le donzelle li piacquero sopra l'altre cose.

 

A uno re nacque uno figliuolo; i savi strolagi providero che, s'elli non stesse anni dieci che non vedesse il sole, che perderebbe il vedere.

Allora il re il fece guardare in tenebrose spelonche il tempo detto, poi lo fece fuori trarre e dinanzi lui mettere molte gioie e cose belle e di belle donzelle, nominandole a lui tutte per nome; e, dettoli le donzelle essere dimoni, poi lui domandaro qual d'esse più li fosse graziosa.

Rispuose: «I domoni».

Allora lo re di ciò si maravigliò molto, dicente:

«Che cos'a tirannia è bellore di donna!»

 

 

XIV

Come uno rettore d'una terra, per osservare giustizia e misericordia, fece cavare un occhio a sé et uno al figliuolo.

 

Valerio Maximo, i·llibro sexto, narra che Calenzino, essendo rettore d'una terra, ordinò che chi andasse a moglie altrui dovesse perdere li occhi.

Poco tempo passante, vi cadde uno suo figliuolo.

Lo popolo tutto li gridava misericordia; et elli, pensando che misericordia era buona cosa et utile, e pensando che la giustizia non vuole perire – e l'amore de' suo' cittadini che li gridavano mercé lo stringea –, providesi d'osservare l'uno e l'altro, cioè giustizia e misericordia. Giudicò e sentenziò c'al figliuolo fosse cavato l'uno occhio, e a·ssé medesimo l'altro.

 

 

XV

Qui parla della gran misericordia

che fece san Paulino vescovo.

 

Beato Paulino vescovo fu tanto misericordioso che, cheggendoli una povera femina misericordia per uno suo figliuolo ch'era in pregione, e Beato Paulino rispuose:

«Femmina, non ho di che ti sovenire d'altro, ma fa' così: menami alla carcere ov'è 'l tuo figliuolo».

Menòlvi, ed elli si mise in pregione, in mano de' tortori, e disse:

«Rendete lo figliuolo a questa buona femina, e me ritenete per lui».

 

 

XVI

Della grande limoxina che fece

uno tavoliere per Dio.

 

Piero tavoliere fu grande uomo d'avere; e venne tanto misericordioso, che 'mprima tutto l'avere dispese a' poveri per Dio e poi, quando tutto ebbe dato, et elli si fece vendere, e il prezzo diede a' poveri tutto.

 

 

XVII

Della vendetta che Dio fece d'uno

barone di Carlo Magno.

 

(A)

Carlo Magno essendo ad oste sopra ' Saracini, venne l'ora della morte. Fece suo testamento. Intra l'altre cose, giudicò suo cavallo e sue arme a' poveri, e lasciò a un suo barone che·lle vendesse e desse a' poveri. Quelli le si tenne, e non ubbidìo. Carlo tornò a lui e disseli così:

«Otto generazioni di pene m'hai fatte sofferire in Purgatorio per die, per lo cavallo e l'arme che ritenesti. Ma, grazia del Signore mio, io ne vo purgato in cielo; e tu la comperai amaramente»: che, udento centomilia genti, venne un truono da cielo; et andonne con lui in abisso.

 

(B)

Essendo Carlo Magno ad oste sopra li Saracini, ad uno suo cavaliere venne l'ora della morte. Fece suo testamento. Tra l'altre cose, giudicò il suo cavallo e sue armi alli poveri, e lassò a uno suo parente che le. vendesse, e dispensasse li danari a' poveri.

Lo cavaliere morìo. Quelli vendette l'arme e cavallo; li danari si ritenne. Ma, perciò che la vengianza dello verace Iustiziatore è prossimana al malfaccente, si aparve il difunto a colui in capo de trenta die e dissegli:

«Perciò che lo mio racomandai a dispensare i·llimosina pro anima mia, sappi che Dio m'ha diliberato da tutti li miei peccati; e, perciò che mia limosina ritenesti, trenta giorni m'hai fatto istare in pena. Sì ti dico che, in questo luogo ove io sono istato, interai tue domane; et io mi ne voe salvo in Paradiso».

Quelli si svegliò tutto ismarito: la matina contò per l'oste ciò ch'elli avea udito.

Sì come elli parlava tra·lloro di sì grande maraviglia, et ecco venire subbitamente uno gridare in ê·ll'aria, sopra lui, sì come mughiamento di leone e di lupo e d'orso: in quella ora fue rapito di tra loro, tutto vivo, nell'aria.

Quattro giorni lo cerconno cavalieri e sergenti per monti e per valli, ma trovare non pottono.

Dodici giorni apresso di ciò andò l'oste di Carlo Magno per la terra di Navarra, et i·Navarra lo ritrovarono, lo corpo tutto freddo, in uno pietreto, presso a tre leghe del mare et a quattro giornate di Baiona: qui ne aviano li diavoli gittata la carogna, e l'anima nello inferno portata.

Per questo exemplo sappiamo, quelli che le limosine delli defunti ritegnono, quelli si dannan perpetualemente.

 

 

XVIII

Qui parla della grande liberalità

e cortesia del re giovane.

 

Leggesi della bontà del re giovane guerreggiando col padre per lo consiglio di Beltrame dal Bornio: lo quale Beltrame si vantò ch'elli avea più senno che niuno altro. Di ciò nacquero molte sentenzie, delle quali ne sono scritte qui alquante.

Beltrame ordinò co·llui che·ssi facesse dare al padre la sua parte di tutto lo tesoro. Lo figliuolo lil domandò tanto ch'elli l'ebbe. Quelli lile fece tutto donare a gentili genti et a poveri cavalieri, sì che rimase a neente, e non avea che donare.

Un uomo di corte li adomandò che li donasse; quelli rispuose ch'avea tutto donato: «ma' tanto m'è rimaso ancora: ch'i' ho nella bocca un laido dente, onde mio padre ha offerti duomila marchi a chi mi sa sì pregare, ch'io lo diparta dagli altri. Va' a mio padre e fatti dare li marchi, e io il mi trarrò alla tua petizione».

Il giullare andò al padre e prese i marchi, et elli si trasse il dente.

E un altro giorno avenne ch'elli donava a uno gentile uomo dugento marchi, e 'l siniscalco (overo tesoriere) prese que' marchi e mise uno tappeto in su la sala e versollivi suso, et uno luffo di tappeto mise di sotto, perché il monte paresse maggiore. Et andando il re giovane per la sala, lile mostrò il tesoriere dicendo:

«Or guardate, Messere, come donate: vedete quanti sono dugento marchi, che li avete così per neente!».

E que' li avisò e disse:

«Piccola quantitade mi sembra a donare a così valente uomo! Dara'line quattrocento: ché troppo credeva che fossero più i dugento marchi, che non mi sembrano a vista».

 

(A)

Qui parla della grandissima liberalità

e cortesia del re d'Inghilterra.

 

Lo giovane re d'Inghilterra spendea e donava tutto. Un povero cavaliere avisò un giorno un coperchio d'uno nappo d'ariento, e disse nell'animo suo:

«Se io posso nascondere quello, la masnada mia ne starà molti giorni».

Misesi il coperchio dell'argento sotto.

I siniscalchi, al levare delle tavole, riguardarono l'argento; trovarlo meno; cominciarlo a metterlo in grido et a cercare i cavalieri alla porta.

Il re giovane avisò costui che l'avea e venne sanza romore a·llui e disseli chetissimamente:

«Mettilo sotto a me, che non sarò cerco»; e lo cavaliere, pieno di vergognosa vergogna, così fece: miselile sotto, e 'l re giovane lile rendé fuori della porta e miselile sotto e poi lo fece chiamare e donogli l'altra partita.

E più di cortesia fece una notte che poveri cavalieri entrarono nella camera sua credendo veramente che lo re giovane dormisse. Adunaro li arnesi e le robe a guisa di furto. Quando ebero tutto furato, ebbevene uno che malvolentieri lasciava una ricca coltre che 'l re avea sopra. Presela e cominciò a·ttirare.

Lo re, per non rimanere scoperto, prese la sua partita e teneva. Siccome que' tirava tanto, che per fare più tosto li altri vi puosero mano, allora lo re parlò e disse:

«Questa sarebbe ruberia, e non furto, cioè a torre per forza!»

Li cavalieri fuggiro, quando l'udiro parlare, che prima credevano che dormisse.

Un giorno lo re vecchio, padre di questo re giovane, lo riprendea forte dicendo:

«Dov'è tuo tesoro?»

Et elli rispuose:

«Messere, io n'ho più che voi non n'avete».

Quivi fue il sì e 'l no. Ingaggiarsi le parti. Aggiornaro il giorno, che ciascuno mostrasse suo tesoro. Lo re giovane invitò tutti i cavalieri del paese, che a cotal giorno fossero in quella parte.

Il padre quello giorno fece tendere uno ricco padiglione e fece venire oro e argento in piastre e vasella, et arnese assai; pietre preziose versò su·ppe' tappeti, e disse al figliuolo:

«Ov'è il tuo tesoro?».

Allora il figliuolo trasse la spada del fodero. Li cavalieri adunati trassero per le rughe e per le piazze: tutta la terra parea piena di cavalieri. Il re vecchio non poteo riparare: il tesoro rimase alla signoria del re giovane, lo quale disse a' cavalieri:

«Prendete il tesoro vostro».

Chi prese oro, chi vasello, chi una cosa, chi un'altra, sì che di subito fu distribuito.

Il padre ragunò poi suo sforzo per prenderlo; lo figliuolo si rinchiuse in uno castello, e Beltrame dal Bornio con lui. Il padre vi venne ad asedio. Un giorno, per troppa sicurtà, li venne un quadrello per la fronte disaventuratamente, che la contraria fortuna che 'l seguitava l'uccise. Ma, innanzi ch'elli morisse, vennero a·llui tutti i suoi creditori e adomandaro loro tesoro che a·llui aveano prestato.

Il re giovane rispuose:

«Signori, a mala stagione venite: ché 'l vostro tesoro è dispeso, li arnesi sono donati, il corpo mio è infermo: non avreste ormai, di me, buono pegno. Ma fé venire uno scrittore».

Lo scrittore fue venuto.

«Iscrivi» disse quel re cortese «ch'io obligo l'anima mia a perpetua pregione infino a tanto che voi pagati siate».

Morìo. Questi, dopo la morte, andaro al padre suo e domandaro la moneta. Il padre rispuose loro aspramente dicendo:

«Voi siete quelli che prestavate al mio figliuolo ond'elli mi facea guerra; et imperò, sotto pena del cuore e dell'avere, vi partite di tutta mia forza!»

Allora l'uno parlò e disse:

«Messere, noi non saremo perdenti, ché noi avemo l'anima sua in pregione»; e lo re domandò in che maniera, e quelli mostraro la carta. Allora lo padre s'umiliò e disse:

«Non piaccia a Dio che l'anima di così valente uomo stea in pregione per moneta»; e comandò che fossero pagati, e così furo.

Poi venne Beltrame dal Bornio in sua forza, e quelli lo domandò e disse:

«Tu dicesti ch'avei più senno che uomo del mondo. Or ov'è tuo senno?».

Beltrame rispuose:

«Messere, io l'ho perduto».

«E quando l'hai perduto?».

«Messere, quando nostro figliuolo morìo».

Allora lo re conobbe che 'l vanto che si dava sì era per la bontà del figliuolo: perdonolli e donolli.

 

 

XIX

Come tre maestri di nigromanzia vennero

alla corte dello 'mperadore Federigo.

 

Lo 'mperadore Federigo fue nobilissimo signore; e·lla gente ch'avea bontade venia a·llui di tutte parti, però che l'uomo donava volentieri e mostrava belli sembianti a chi avesse alcuna speziale bontà. A·llui veniano sonatori, trovatori e belli favellatori, uomini d'arti, giostratori, schermitori, e d'ogni maniera gente.

Stando lo 'mperadore Federigo – e facea dare l'acqua alle mani, le tavole coverte: e non era ch'entrare a tavola –, sì giunsero a·llui tre maestri di negromanzia con tre schiavine. Salutarlo così di subito, et elli domandò:

«Qual'è il maestro, di voi tre?».

L'uno si fece avanti e disse:

«Messere, io sono»; e lo 'mperadore il pregò che giucasse. Cortesemente quelli gittaro loro incantamenti e fecero loro arti.

Il tempo incominciò a turbare: ecco una pioggia repente e spessa, li tuoni, li folgóri e ' baleni, che 'l mondo parea che fondesse; una gragnuola, che parea çopelli d'acciaio. I cavalieri fuggiano per le camere, chi in una parte, chi in un'altra.

Rischiarossi il tempo. Li maestri chiesero commiato e chiesero guiderdone. Lo 'mperadore disse:

«Domandate».

Que' domandaro il conte di San Bonifazio, ched era più presso allo 'mperadore, e dissero:

«Messere, comandate a costui che vegna in nostro soccorso contra li nostri nemici».

Lo 'mperadore lile comandò teneramente. Misesi il conte in via co·lloro: menarlo in una bella cittade, cavalieri li mostrò di gran paraggio, bel destriere e bell'arme li aprestaro, e dissero al conte:

«Questi sono a·tte ubbidire».

E mostrarogli li nimici. Vennero a la battaglia: il conte li sconfisse e francò lo paese. E poi ne fece tre, delle battaglie ordinate in campo. Vinse la terra. Diederli moglie. Ebbe figliuoli. Dopo, molto tempo tenne la Signoria.

Lasciarlo grandissimo tempo, poi ritornaro. Il figliuolo del conte avea già bene quaranta anni; il conte era vecchio. I maestri dissono:

«Riconoscici tu? Vuo' tu ritornare a vedere lo 'mperadore e la corte?»

E 'l conte rispuose:

«Lo 'mperio fi aora più volte mutato; le genti fier ora tutte nuove: dove ritornerai?».

E ' maestri dissero:

«Noi vi ti volemo al postutto menare».

Misersi in via; camminaro gran tempo; giunsero in corte; trovaro lo 'mperadore e 'suoi baroni, ch'ancor si dava l'acqua la qual si dava quando il conte n'andò co' maestri.

Lo 'mperadore li facea contare la novella; que' la contava:

«I' ho poi moglie, e figliuolo c'ha quaranta anni; tre battaglie di campo ho poi fatte. Il mondo è tutto rivolto! Come va questo fatto?»

Lo 'mperadore lile fa raccontare con grandissima festa, e i baroni e ' cavalieri.

 

 

XX

Come allo 'mperadore Federigo si fuggì

uno suo astore dentro a Melano.

 

Lo 'mperadore Federigo stando ad assedio a Melano, sì li si fuggì un suo astore e volò dentro a Melano. Lo 'mperadore fece ambasciadori e rimandò per esso in Melano. La Podesta ne tenne consiglio; aringatori v'ebbe assai: tutti diceano che cortesia era a rimandarlo, più c'a tenerlo.

Un melanese vecchio di gran tempo consigliò alla Podesta e disse così:

«Come ci è l'astore, così ci fosse lo 'mperadore, che noi il faremmo sentire di quello ch'elli fa al distretto di Melano! Perch'io consiglio che non li si mandi».

Tornaro li ambasciadori e contaro allo 'mperadore tutto sì come consiglio n'era tenuto.

Lo 'mperadore udendo ciò disse:

«Come può essere, trovarsi niuno in Melano che contradicesse alla proposta?»

Rispuosero li ambasciadori:

«Messer sì».

«E che uomo fu?».

«Messere, fu un vecchio».

«Ciò non può essere» disse lo 'mperadore, «che uomo vecchio dicesse così grande villania, così ignuda di senno».

«Messer, e pur fue».

«Ditemi» disse lo 'mperadore: «di che fazione era, e di che guisa vestito?».

«Messere, elli era canuto e vestito di vergato».

«Ben può essere» disse lo 'mperadore: «dacché egli è vestito di vergato, esser può: ch'egli è uno matto».