BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Il Novellino

ca. 1290

 

Il Novellino

 

31 – 40

Inadeguata riflessività e i suoi effetti

 

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XXXI

Delle belle valentie che fece

Riccar lo Ghercio dell'Ila.

 

Riccar lo Ghercio fu signore dell'Illa, e fu grande gentile uomo di Proenza, e di grande ardire, e fue pro a dismisura; e quando i Saracini vennero per combattere la Spagna, sì fu elli in quella battaglia che si chiamò la Spagnata, la quale fine la più perigliosa battaglia che fosse, da quella de' Troiani e de' Greci in qua. Allora erano i Saracini grandissima multitudine e con molte generazioni di stormenti, sicché Riccar lo Ghercio fue il conduttore della prima battaglia; e, per cagione che li cavalli non si poteano mettere avanti per lo spavento delli stormenti, sì comandò a tutta sua gente che volgessero le groppe de' cavalli alli nemici; e tanto ricularo i cavalli, che furo tra i nemici. Poi, quando fue mischiato tra nemici così riculando, et elli ebbe la battaglia davanti, venne uccidendo a destra e a sinestra, sicché misero i nemici a distruzione.

E quando il conte di Tolosa si combatteo col conte di Provenza altra stagione, sì dismontò del distriere Riccar lo Ghercio, e montò in su uno mulo. E 'l conte li disse:

«Che è ciò, Riccardo?».

«Messere, voglio dimostrare ch'io non ci sono né per cacciare, né per fuggire».

Qui dimostrò la sua grande franchezza, la quale era nella sua persona oltre alli altri cavalieri.

 

 

XXXII

Qui conta una novella di messere

Imberal dal Balzo.

 

Messere Imberal dal Balzo, grande castellano di Proenza, vivea molto ad algura a guisa espagnola: – et un filosafo ch'ebbe nome Pittagora fu di Spagna, e fece una tavola per istorlomia la quale, secondo i dodici segnali, v'erano molte significazioni d'animali: quando li uccelli s'azzuffano, quando uomo truova la donnola nella via, quando lo fuoco suona, e delle giandae e delle gazze e delle cornacchie: così di molti animali molte significazioni secondo la luna.

E così messere Imberal, cavalcando un giorno con sua compagnia, andavasi prendendo guardia di questi uccelli, perché si temea d'incontrare algure. Trovò una femina in uno camino; domandolla e disse:

«Dimmi, donna: hai questa mattinata veduti di questi uccelli grandi, siccome corbi, cornillie o gazze?»

E la femina rispuose:

«Ségner oc, ieu. vi una cornacchia in su uno ceppo di salce».

«Or mi di', donna: enverso qual parte tenea volta sua coda?»

«Sua coda, ségner?» rispuose la femina. «Ella tenea sua coda volta verso 'l cul, ségner».

Allora messere Imberal temeo l'agura e disse a sua compagnia:

«Coveng a Dieu que ie‹u› non cavalgarai ni ‹h›ui ni dema ‹e›n aquest'agura»; e molto si contò poi la novella in Proenza, per novissima risposta ch'avea fatta, sanza pensare, quella femina.

 

 

XXXIII

Come due nobili cavalieri s'amavano

di buono amore.

 

Due nobili cavalieri s'amavano di grande amore. L'uno aveva nome messere G. e l'altro messere S. Questi due cavalieri s'aveano lungamente amato. L'uno di questi si mise a pensare e disse cossì:

«Messere G. ha uno molto bello palafreno. S'io lile cheggio, darebbel·m'egli?»

E, così pensando, facea il partito nel pensiero dicendo:

«Sì darebbe»; l'altro cuor li dicea:

«Non darebbe».

E così, tra 'l sì e 'l no, vinse il partito che non lile darebbe.

Il cavaliere fu turbato, e cominciò a venire col sembiante strano, e ingrossò contro all'amico suo, e ciascuno giorno il pensare cresceva e rinnovellava il cruccio. Lasciolli di parlare e volgeasi, quando elli passava, in altra parte. La gente si maravigliava, et elli medesimo si maravigliava forte.

Un giorno avenne che messere G., il cavaliere c'avea il palafreno, non poteo più sofferire. Andò a messere S. e disse:

«Amor mio, compagno mio, perché non mi parli tu? Perché se' tu crucciato?»

Ed e' rispuose:

«Perch'io ti chiesi lo palafreno tuo e tu lo mi negasti».

E quelli rispuose:

«Questo non fu giammai: non può essere. Lo palafreno sia tuo, e la persona: ch'io t'amo come me medesimo».

Allora il cavaliere si riconciliò e ritornò in su l'amore e 'n su l'amistade usata, e riconobbe che non avea ben pensato.

 

 

XXXIV

 

Fue un savio religioso, lo quale era grandissimo tra li Frati Predicatori, il quale avea uno suo fratello che s'atendea di cavalcare in una oste nella quale s'aspettava ch'al postutto battaglia sarebbe co' nimici. Andò aquesto suo fratello frate per ragionare co·llui anzi che andasse: lo frate l'amonìo assai e disseli molte parole, in tra le quali e dopo le quali disse queste parole:

«Tu andrai al nome di Dio: la battaglia è giusta per lo Comune tuo. Sie produomo e non dubitare di morire, ché forsi sanz'ugni ciò ti morestu».

 

 

XXXV

Qui conta del maestro

Taddeo di Bologna.

 

Maestro Taddeo, leggendo a' suoi scolari in medicina, trovò che, chi continuo mangiasse nove dì di petronciani, che diverebbe matto; e provavalo secondo fisica.

Un suo scolaro, udendo quel capitolo, propuosesi di volerlo provare: prese a mangiare de' petronciani, et in capo de' nove dì venne dinanzi al maestro e disse:

«Maestro, il cotale capitolo che leggeste non è vero, però ch'io l'hoe provato, e non sono matto»: e pure alzasi e mostrolli il culo.

«Iscrivete» disse il maestro «che provato è; e facciasene nuova chiosa».

 

 

XXXVI

Qui conta come uno re crudele

perseguitava i Cristiani.

 

Fue uno re molto crudele, il quale perseguitava il populo di Dio; ed era, la sua, grandissima forza; e niente poteva acquistare contro aquel populo, però che Dio l'amava. Quel re ragionò con Balaam profeta e disse:

«Dimmi, Balaam: che è ciò, che li miei nemici sono assai meno poderosi di me, e io non posso fare loro nullo danno?»

E Balaam rispuose:

«Messere, però ch'e' sono populo di Dio. Ma io farò sì che tu potrai sopra loro: ch'io andrò e maladicerolli, e tu darai la battaglia e averai sopra loro vittoria».

Salìo questo Balaam in su uno asino e andò su per uno monte; e 'l popolo era quasi là giù al piano, e quelli andava per maladirli di sul monte.

Allora l'angelo di Dio li si fece dinanzi, e non lo lasciava passare. Et elli pugnea l'asino credendo che aombrasse, e quelli parlò:

«Non mi battere: vedi l'angelo di Dio con una spada di fuoco in mano, che non mi lascia andare!».

Allora lo profeta Balaam guardò e vide l'angelo, e l'angelo parlò e disse:

«Che è ciò, che tu vai a maladire il popolo di Dio? Incontanente, se tu non vuoli morire, lo benedì come tu lo volevi maladire».

Andò il profeta, e benedicea lo popolo di Dio; e lo re dicea:

«Che fai? Questo non è maladire!».

E que' rispuose:

«Non può essere altro, pero che l'angelo di Dio il mi comandò. Onde fa' così: tu hai di belle femine, et elli n'hanno dischesta. To'·ne una quantità di molte belle e fa' loro ricche vestimenta e poni loro da petto una nusca d'ariento o d'oro, cioè una boccola con uno fibbiaglio, nella quale sia intagliata l'idola che tue adori (ché adorava la statua di Mars), e dirai così loro: ch'elle non consentano a neuno, se non promettono imprima d'adorare quella figura di Mars; – e 'mponi loro grande pena, c'al postutto non consentano in altra guisa. E poi, quando elli avranno peccato, io avrò balìa di maladirli».

E lo re così fece: tolse di belle femine e mandolle in quel modo nel campo. Li uomini n'erano vogliosi: consentivano e adoravano l'idole, e poi peccavano con esse. Allora lo profeta andò e maladisse lo popolo di Dio, e Dio non li atoe; e quello re diede battaglia e sconfisseli tutti, onde li giusti patiro la pena della colpa d'alquanti che peccaro. Ravidersi e fecero penitenzia e cacciaro le femine e riconciliarsi con Dio, e tornaro nella loro franchigia.

 

 

XXXVII

Qui conta d'una battaglia che

fu tra due re di Grecia.

 

Due re furo, ch'erano delle parti di Grecia; e l'uno iera troppo più poderoso che l'altro. Furo insieme a battaglia: lo più poderoso perdeo. Andonne in una sua camera, e maravigliavasi, siccome avesse sognato; e al postutto non credeva avere combattuto.

In quella l'angelo di Dio venne a·llui e disse:

«Come isté? Che pensi? Tu non hai sognato, anzi combattuto; e se' isconfitto».

E lo re aguardò l'angelo e disse:

«Come può essere? Io avea tre cotanta gente di lui! Perché m'è avenuto?».

E l'angelo rispuose:

«Però che tu se' nimico di Dio».

Allora lo re disse:

«O è lo nemico mio sì amico di Dio, che però m'abbia vinto?».

«No» disse l'angelo: «che Dio fa vendetta del nimico suo col nimico suo. Va' tu coll'oste tua e ripugna co·llui, e tu lo sconfiggerai com'elli ha fatto te».

Allora questi andò e ricombatté col nemico suo e sconfisselo e preselo, sì come l'angelo li avea detto.

 

 

XXXVIII

D'uno strologo ch'ebbe nome Melisus,

che fu ripreso da una donna.

 

Uno, lo quale ebbe nome Tale milesius, grandissimo savio in molte scienzie, e specialmente in istrologia, secondo che si legge in libro De civitate Dei, in libro sexto: dice che questo maestro albergò una notte in una casetta d'una feminella. Quando andò la sera a letto disse a quella femina:

«Vedi, donna: l'uscio mi lascerai aperto istanotte, però ch'io mi sono costumato di levare a provedere le stelle».

La femina lasciò l'uscio aperto. La notte piovve. Dinanzi alla casa avea una fossa. Empiessi d'acqua. Quando que' si levò, caddevi dentro. Que' cominciò a gridare aiutorio. La femina domandò:

«Che hai?».

Que' rispuose:

«Io sono caduto in una fossa».

«Oi cattivo!» disse la femina. «Or tu badi nel cielo, e non ti sai tener mente a' piedi!».

Levossi questa femina et aiutollo che periva in una vile fossatella d'acqua per poca e per cattiva provedenza.

 

 

XXXIX

Qui conta del vescovo Aldobrandino

come fu schernito da un frate.

 

Quando il vescovo Aldobrandino vivea, mangiando al vescovado suo d'Orbivieto un giorno a una tavola ov'era uno frate minore a mangiare – lo quale frate mangiava una cipolla molto savorosamente e con fine apetito – il vescovo guardandolo disse a uno donzello:

«Vammi a quello frate e dilli che volentieri gli acambiarei a stomaco».

Lo donzello andò e disselile; e lo frate rispuose:

«Và, di' a messere che ben credo che volentieri m'acambierebbe a stomaco, ma non a vescovado».

 

 

XL

D'uno uomo di corte ch'avea

nome Saladino.

 

Saladino, lo quale era uomo di corte, essendo, in Cicilia, per mangiare a una tavola con molti cavalieri – e davasi l'acqua – uno cavaliere disse:

«Saladino, lavati la bocca, e non le mani».

E Saladino rispuose:

«Messere, io non parlai oggi di voi».

Poi, quando piazzeggiavano, così riposando, in sul mangiare, fue domandato il Saladino per un altro cavaliere così dicendo:

«Dimmi, Saladino: s'io volesse dire una mia novella, a cui la dico per lo più savio di noi?».

E 'l Saladino rispuose:

«Messere, ditela a qualunqua vi pare il piue matto».

I cavalieri, mettendolo in quistione, pregarlo ch'aprisse loro sua risposta, sì che lo potessero intendere; e 'l Saladino parlò e disse così:

«Ai matti ogni matto per savio per la sua somiglianza. Adunque, quando al matto sembrerà uomo più matto, fie quel cotale più savio: però che 'l savere è contrario della mattezza, ad ogni matto i savi paiono matti, sì come a' savi i matti paiono veramente matti».