BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Il Novellino

ca. 1290

 

Il Novellino

 

61 – 70

Sagezza

 

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LXI

Qui conta di Socrate filosafo

come rispuose a' Greci.

 

Socrate fue nobile filosofo di Roma; et al suo tempo mandaro i Greci grandissima e nobile ambasceria a' Romani; e la forma della loro ambasciata si fu per difendere lo tributo dalli Romani, che davano loro per via di ragione; e fue loro così imposto dal Soldano:

«Andrete et userete ragione; e, se vi bisogna, userete moneta».

Li ambasciadori giunsero a Roma; propuoser la forma della loro ambasciata; nel Consiglio di Roma si provide, la risposta della domanda de' Greci, che si dovesse fare per Socrate filosofo, sanza neuno altro tenore, riformando il Consiglio che Roma stesse a·cciò che per Socrate fosse risposto.

Li ambasciadori andaro là dove Socrate abitava, molto di lungi da Roma, per opporre le loro ragioni dinanzi da lui. Giunsero alla casa sua, la quale era non di gran vista; trovaro lui che cogliea erbette. Avisarlo dalla lunga. L'uomo parve loro di non gran parenza. Parlaro insieme. Considerante tutte le soprascritte cose, e' dissero intra loro:

«Di costui avremo noi grande mercato»: acciò che sembiava loro anzi povero che ricco.

Giunsero e salutarlo:

«Dio ti salvi, uomo di grande sapienzia: la quale non può essere piccola, poi che ' Romani t'hanno commessa così alta risposta!»

Mostrarli la riformagione di Roma e dissero a·llui:

«Proporremo dinanzi da te le nostre ragionevoli ragioni, le quali sono molte; e 'l senno tuo provederà il nostro diritto. E sappiate che siamo a ricco signore: prenderai questi perperi, i quali sono grandissima quantità (et appo 'l nostro signore è troppo piccola), et a·tte può essere molto utile».

E Socrate parlò alli ambasciadori e disse:

«Voi pranzerete inanzi, e poi intenderemo alle nostre bisogne».

Tennero lo 'nvito e pranzar assai cattivamente, con non molto rilievo. Dopo 'l pranzo parlò Socrate alli ambasciadori e disse:

«Segnori, quale è meglio tra una cosa o due?».

Li ambasciadori rispuosero:

«Le due».

E que' disse:

«Or andate et obedite a' Romani colle persone: ché se 'l Comune di Roma avrà le persone de' Greci, bene avrà le persone e l'avere; e, s'io togliesse l'oro, i Romani perderebbero la loro intenzione».

Allora i savi ambasciadori si partiro dal filosafo assai vergognosi, et ubbidiro a' Romani.

 

 

LXII

Qui conta una novella

di messer Ruberto.

 

Ariminimonte si è in Borgogna; et havvi un sire che si chiama messer Ruberto; et è contado grande. La contessa Antica e sue camariere sì aveano un portiere milenso, et era molto grande della persona, et avea nome Baligante. L'una delle cameriere cominciò a giacere co·llui, poi il manifestò a l'altra, e così andoe infino alla contessa. Sentendo la contessa ch'elli era a gran misura, giacque con lui.

Il sire lo spiò; fecelo amazzare, e del cuore fe' fare una torta e presentolla alla contessa; et ella e le sue camariere ne mangiarono.

Dopo il mangiare venne il sire a doneiare e domandò:

«Chente fu la torta?».

Tutte rispuosero:

«Buona».

Allora rispuose il sire:

«Ciò non è maraviglia, ché Baligante vi piacea vivo, quando v'è piaciuto alla morte».

La contessa, quand'ella intese il fatto, ella e le donne e le camariere si vergognaro e videro bene ch'elle aveano perduto l'onore del mondo. Arrendérsi monache e fecero un monistero che si chiama il monistero delle nonane d'Ariminimonte.

La casa crebbe assai, e divenne molto ricca; e questo si conta, in novella ch'è vera, che v'è questo costume: che quando elli vi passasse alcuno gentile uomo con molti arnesi, et elle il faceano invitare ad ostello e facea·lli grandissimo onore. La badessa e le suore li veniano incontro in su lo donneare: «quella monaca ch'è più isguardata, quella lo serva et acompagnilo a tavola et a letto». La mattina sì si levava e trovavali l'acqua e la tovaglia; e, quando era lavato, et ella li aparecchiava un ago voto et un filo di seta, e convenia che, s'elli si voleva affibbiare da mano, ch'elli medesimo mettesse lo filo nella cruna dell'ago; e se alle tre volte ch'egli avisasse no 'l vi mettesse, sì li toglieano le donne tutto suo arnese e non li rendeano neente; e se metteva il filo, alle tre, nell'ago, sì li rendeano gli arnesi suoi e donavangli di belli gioelli.

 

 

LXIII

Qui conta del buono re Meliadus

e del Cavaliere Sanza Paura.

 

Il buono re Meliadus e 'l Cavaliere Sanza Paura si erano nemici mortali in campo. Andando un giorno questo Cavaliere Sanza Paura a guisa d'errante cavaliere disconosciutamente, trovò suoi sergenti, che molto l'amavano, ma non lo conosceano, e dissero a lui:

«Dinne, cavaliere errante, in fede di cavalleria: qual è miglior cavaliere tra 'l buon Cavaliere Sanza Paura o 'l buono re Meliadus?».

E 'l cavaliere rispuose e disse:

«Se Dio mi dea buona ventura, lo re Meliadus è 'l miglior cavaliere che in sella cavalchi».

Allora li sergenti, che voleano male al re Meliadus per amore di lor signore, e disamavanlo mortalmente, sì sorpresero questo lor signore a tragione, sì che non si difese e, così armato com'era, lo levaro da distriere e miserlo attraverso d'uno ronzino, e comunemente diceano che 'l menavano a impendere.

Così tenendo lor camino, trovaro il re Meliadus ch'andava a un torneamento, altressì a guisa di cavaliere errante e sue arme coverte. E' domandò questi sergenti:

«Perché menate voi a 'mpendere questo cavaliere? E chi è. elli, che cosìe lo disonorate villanamente?».

Li sergenti rispuosero:

«Elli hae bene morte servita; e se voi il sapeste come noi., voi il menereste assai più tosto di noi. Adomandatelo di suo misfatto!».

E 'l re Meliadus si trasse avante e disse:

«Cavaliere, che ha' tu misfatto a questi sergenti, che ti menano così laidamente?».

E 'l cavaliere rispuose:

«Niuna altra cosa hoe misfatto, se non ch'io volea mettere il vero avante».

«Come è ciò?» disse il re Meliadus. «Ciò non può essere! Contatemi pui vostro misfatto».

Et elli rispuose:

«Sire, volentieri. Io sì tenea mio cammino a guisa d'errante cavaliere. Trovai questi sergenti dimandandomi in fe' di cavaleria ch'io dicesse qual era miglior cavaliere tra 'l buon re Meliadus o 'l Cavaliere Sanza Paura; et io, per mettere il vero avante, dissi che 'l re Meliadus era migliore: e no 'l dissi più che per verità dire, ancora che 'l re Meliadus sia mio mortale nemico in campo, e mortalmente il disamo. Io non volea mentire: altro non ho misfatto; e però solamente mi fanno onta questi sergenti».

Allora il re Meliadus cominciò ad abattere i sergenti e fecelo disciogliere e donolli un ricco cavallo co·lla transegna coperta, e pregollo che non la discoprisse insino a suo ostello; e partirosi da lui.

La sera giunse lo Cavaliere Sanza Paura all'ostello; levò la coverta della sella; trovò l'arme del re Meliadus, che·lli avea fatta sì bella deliberanza, e donatogli: et era suo mortale nemico.

 

 

LXIV

Qui conta d'una novella che avenne

in Proenza alla Corte del Po.

 

Alla corte del Po di Nostra Dama in Proenza s'ordinoe una nobile corte quando il conte Ramondo fece il figliuolo cavaliere: sì invitoe tutta la buona gente, e tanta ve ne venne per amore, che le robe e l'argento fallìo, e convenne ch'e' disvestisse de' cavalieri di sua terra; e donava a' cavalieri di corte. Tali rinunziaro, e tali consentiero.

In quello giorno ordinaro la festa. E poneasi uno sparviere di muda in su una asta: or venia chi si sentìa sì poderoso d'avere e di coraggio, e levavasi il detto sparvier in pugno; e quel cotale convenìa che fornisse la corte in quell'anno. I cavalieri e ' donzelli, ch'erano giulivi e gai, si faceano di belle canzoni e 'l suono e 'l motto; e quattro approvatori erano stabiliti, che quelle ch'aveano valore faceano mettere in conto e, l'altre, diceano a chi l'avesse fatte che le migliorasse. Or dimorarono, e diceano molto bene di lor signore, et i loro figliuoli fuoro nobili cavalieri e ben costumati.

Ora avenne che uno di que' cavalieri (pognamli nome messer Alamanno), uomo di gran prodezza e di grande bontade, amava una molto bella donna di Proenza, la quale avea nome madonna Grigia; et amavala sì celatamente, che neuno lile potea fare palesare. Avenne che ' donzelli del Po si puosero insieme d'ingannarlo e di farlone vantare. Dissero così con certi baroni e cavalieri:

«Al primo torneare che si farae, vi preghiamo che voi stabiliate che la gente si vanti».

E pensaro così: «Messer cotale si è prodissimo d'arme; farae bene quel giorno del torneamento e scalderassi d'allegrezza. I cavalieri si vanteranno, et elli non si potrae tenere che non si vanti di sua dama».

Così ordinato, così fatto: il torneamento fue fatto; fedìo il cavaliere; ebbe il pregio dell'arme; scaldossi d'allegrezza.

Nel riposare, la sera, e ' cavalieri si cominciaro a vantare, in sull'allegrezze loro, chi di bella giostra, chi di bello castello, chi di bello astore, chi di ricca ventura; e 'l cavaliere non si poteo tenere che non si vantasse ch'amava sì bella donna.

Ora avenne ch'e' ritornò per prendere gioia di lei, sì come solea. La donna li donoe commiato.

E 'l cavaliere sbigottìo tutto, e partissi da lei e dalla compagnia de' cavalieri, et andonne in una foresta e rinchiusesi in uno romitaggio sì celatamente, che neuno il sapea.

Or, chi avesse veduto il cruccio de' cavalieri del Po e delle donne e delle donzelle che si lamentavano sovente della perdita di così nobile cavaliere, assai n'avrebbe avuto pietà.

Un giorno avenne che i donzelli del Po smarriro una caccia e capitaro a·romitaggio dov'era il cavaliere rinchiuso. Domandolli se fossoro del Po, et elli dissero di sì; et elli domandò di novelle, e ' donzelli li presero a contare come al Po avea laide novelle: che per picciolo misfatto elli aveano perduto il fiore de' cavalieri, quello che pregio avea tutto, e che sua donna li avea dato commiato, e che neuno uomo non sapea che ne fosse adivenuto. Ma procianamente un torneamento era gridato, in dove sarà molta buona gente: onde noi pensiamo (ch'elli hae sì gentil cuore) che, in qualunque parte elli sarae, elli verrae a torneare con noi; e noi avemo guardie ordinate di gran podere e di gran conoscenza, che l'arresteranno imantenente, e così speriamo di riguadagnare nostra grande perdita».

Allora il romito scrisse a uno suo amico sacreto che al giorno del torneamento li tramettesse arm'e cavagli secretamente, e rinvioe i donzelli.

E l'amico fornìo la sua richiesta: ché al giorno del torneamento li mandò l'arme et i cavagli.

Si fue il giorno nella pressa de' cavalieri; il romito ebbe da tutte parti il pregio del torneamento.

Le guardie l'ebbero veduto; avisarlo; et incontanente il levaro in palma di mano a gran festa. La gente, rallegrandosi, abatterli la ventaglia dell'elmo dinanzi dal viso e pregarlo per amore che cantasse; et elli rispuose:

«Io non canteroe mai s'io non ho pace da mia donna».

I nobili cavalieri si lasciarono ire alla donna e richieserle in gran pregheria che li facesse perdono. La donna rispuose:

«Diteli così: ch'io non li perdonerò giamai se non mi fae gridare merzé a cento baroni et a cento cavalieri et a cento donne et a cento donzelle, che tutti gridino a una boce merzé e non sappiano a cui la si chiedere».

Allora il cavaliere, il quale era di grande savere, si pensò che s'aproximava la festa della candellara, che si facea gran festa al Po di Nostra Dama, là ove la buona gente venia al mostier. Si pensò:

«Mia dama vi sarae, e saravvi tanta della buona gente quant'ella adomanda che le chieggia merzede».

Allora trovoe una molto bella canzonetta, e la mattina per tempo salìo in sue lo pergamo. La gente si meraviglioe molto; e quelli cominciò questa sua canzonetta tanto soavemente quanto seppe il meglio, ché molto il sapea bene fare. E la canzonetta dicea in cotal maniera:

 

Altressì come il leofante

quando cade non si può levare

tutti li altri a lor gridare

di lor voce il levan suso,

et io voglio seguir quell'uso:

ché 'l mio misfatto è tan griev'e pesante

ch'ê·la corte del Poi n'è gran burbanza

e se 'l pregio de' leali amanti

non mi rilevan, giamai non saroe suso:

che degnasser per me chiamar merzé

là ove poggiarsi con ragion non val ren.

 

E s'io per li fini amanti

non posc ma gioi recobrar

per toz temps las mon chantar

que de mi mon atent plus

e viurai si con reclus,

sol, sanz solaz, car tal es mos talens

que m'invia..................................

.......... d'onor e plager...............

car ie non sui de la maniere d'ors

che qui bat non tien vil sen merzé

adonc engras e milliura oruen

 

Ab roth le mon sui clamtz

de mi trop parlar:

e s'ie' poghes fenis contrefar,

che non es mai c'uns,

que s'art et poi resurt sus,

ieu m'arserei, car sui tan malananz

e mis fais dig mensongier, truanz,

e sortirei con spir' e con plor

la u giovenz e bietaz e valor

es, que non deu fallir un pauc di merses

la u Dieu asis tutt'altri bon.

 

Mia canzon e mio lamento,

va' là dov'ieu non auso anar

né de' mie' occhi sguardar:

tanto sono forfatto e fallente,

già re no me n'escus:

né nul fu Mei-di-donna chi fu 'n dietro du' an.

Or torn'a voi doloroso e piangente

sì come 'l cerbio, c'ha fatto su' lungo cors,

torn'al morir al grido delli cacciatori:

et io così torno alla vostra mercé;

m'a voi non cal se d'amor no·us. soven.

 

Allora tutta la gente della chiesa gridaron mercé, e perdonolli la donna e ritornoe in sua grazia, com'era di prima.

 

 

LXV

 

A

Qui conta della reina Ysotta e di

messer Tristano di Leonis.

 

Amando messer Tristano di Cornovaglia Ysotta la bionda, la moglie del re Marco, si fecero tra loro un segnale d'amore di cotal guisa: che quando messere Tristano le volea parlare, si andava ad un giardino del re Marco, nel quale avea una fontana, e intorbidava il rigagnolo ch'ella facea, il quale passava per lo palazzo dove stava la detta Ysotta; e quando ella vedea l'acqua torbidata, si pensava che Tristano era alla fontana.

Or avenne c'uno malaventurato giardiniere se n'avide, di guisa che li due amanti neente il poteano credere. Quel giardiniere andò allo re Marco, e contolli ogni cosa com'era.

Lo re Marco si diede a crederlo; sì ordinò una caccia, e partissi da' suoi cavalieri siccome si smarisse da·lloro. Li cavalieri lo cercavano erranti per la foresta, e lo re Marco n'andò in sul pino ch'era sopra la fontana ove messere Tristano parlava alla reina.

E, dimorando la notte lo re Marco in sul pino, e messere Tristano venne alla fontana e intorbidolla; e poco tardante la reina venne alla fontana, ed a ventura le venne un bel pensero: che guardò il pino, e vide l'ombra più spessa che non solea. Allora la reina dottò e, dottando, ristette, e parlò con Tristano in questa maniera e disse:

«Disleale cavaliere, io t'ho fatto qui venire per potermi compiagnere di tuo gran misfatto: ché giamai non fu cavalier con tanta dislealtade quanta tu hai per tue parole: ché m'hai unita, e lo tuo zio re Marco, che molto t'amava: ché tu se' ito parlando di me intra·lli erranti cavalieri cose, che nello mio cuore non poriano mai discendere; – et inanzi darei me medesima al fuoco, ch'io unisse così nobile re com'è monsignor lo re Marco. Onde io ti diffido di tutta mia forza, siccome disleale cavaliere, sanza niun'altro rispetto».

Tristano, udendo queste parole, dubitò forte e disse:

«Madonna, se ' malvagi cavalieri di Cornovaglia parlan di me, tutto primamente dico che giamai io di queste cose non fui colpevole. Merzé, donna, per Dio: elli hanno invidia di me, ch'io giamai non dissi né feci cosa che fosse disinore di voi, né del mio zio re Marco. Ma, dacché vi pur piace, ubbidirò a' vostri comandamenti: andronne in altre parti a finire li miei giorni. E forse, avanti ch'io mora, li malvagi cavalieri di Cornovaglia avranno sofratta di me, siccome elli ebbero al tempo de l'Amoroldo, quand'io diliverai loro e lor terre di vile e di laido servaggio».

Allora si dipartiro, sanza più dire; e lo re Marco, ch'era sopra loro, quando udì questo, molto si rallegrò di grande allegrezza.

Quando venne la mattina, Tristano fe' sembianti di cavalcare: fe' ferrare cavalli e somieri; valletti vegnono di giù e di sù: chi ponta freni e chi selle: il tremuoto era grande.

Il re s'adira forte del partire di Tristano, e raunò ' baroni e ' suoi cavalieri, e mandò comandando a Tristano che, sotto pena del cuore, non si partisse sanza suo commiato. Tanto ordinò il re Marco, che·lla reina ordinò e mandolli a dire che non si partisse: – e così rimase Tristano a quel punto, e non si partì. E non fu sorpreso né ingannato per lo savio avedimento ch'ebbero intra·llor due.

 

B

Ora venne che uno malvagio cavaliere si n'avidde e contollo a lo re Marco. Lo re diede lo cuore a credere. Ordinò una caccia. Partisi dalli cavalieri, et ismarisi da loro. Li cavalieri lo cercavano per la foresta. Lo re tornò: montò su·n uno pino ch'era sopra quella fontana là ove messer Tristano le parlava. Essendo lo re sul. pino di notte, e messer Tristano venne a la fontana et intorbidò l'acqua, e riguardò al palazzo che Ysotta venisse. Vidde l'ombra dello re sue lo pino; pensosi quello ch'era. Ysotta venne alla finestra; Tristano li fece cenno verso lo pino; Ysotta si·nde avidde, e mesere Tristano disse cosìe:

«Madonna, voi mandaste per me. Malvole.ntieri ci sono venuto, per molte parole che dette sono di voi e di me. Pregovi quanto posso per nostro onore che voi non mandiate più per me: non perch'io rifiuti di fare cosa che onore vi sia, ma dicolo per fare rimanere mentitori li malvagi, che per invidia non finano di male dire».

La reina parlò e disse:

«Malvagio cavaliere disleale, io t'hoe fatto qui venire per potermi compiagnere a te medesimo dello tuo grande malfatto: ché giamai non fu cavaliere con tanta dislieltade quanto tu se', che, per tuoi parole, hai unito tuo zio lo re Marco e me: ché se' ito vantando tra·lli cavalieri erranti di cose, che in nel mio cuore non potréno mai discendere. Onde io ti diffido di tutta mia forza, sanza alcuno altro rispetto, sì come disleale cavaliere».

Allora messer Tristano disse:

«Se·lli malvagi cavalieri di Cornuaglia parlano di me in questa maniera, io vi dico che giamai Tristano di ciò non fue colpevole, né mai non dissi cosa che disinore fosse di mio zio né di voi. Ma, da che pure vi piace, ubidiroe lo vostro commandamento: andrò in altre parte a finire ' miei giorni: forse che inanzi che io moia li malvagi cavalieri di Cornuaglia aranno soffranta di me, sì come ebbero al tempo dello Amoraldo d'Irlanda, quando dilivrai loro e loro terra di vile e laido servaggio».

Allora si partìo senza più dire, quasi morendo d'allegrezza.

La mattina Tristano fece sembiante di cavalcare, e fae sellare cavalli e somieri. Valletti vanno di sù e di giu.so, e chi aportava freni e chi selle: lo tramazzo era grande.

Allo re non piacea suo dipartimento, credendo che non fosse di Tristano e d'Ysotta quello che detto era. Ragunò li baroni, e mandò comandando a Tristano che non si partisse, a·ppena del cuore, sanza suo comandamento.

Tristano rimase: lo re ordinò tanto, che la reina mandoe a dire a Tristano che non si partisse; e così rimase Tristano, che non fue sopreso né inganato, per lo savio avedimento ch'ebbeno tra loro due.

 

 

LXVI

Qui parla d'uno filosafo lo quale

era chiamato Diogene.

 

Fue uno filosafo molto savio, lo quale avea nome Diogene. Questo filosafo si era un giorno bagnato in una troscia d'acqua, e stavasi in una grotta al sole asciugare. Alessandro di Macedonia passava con grande cavaleria; vide questo filosafo; parlò e disse:

«O divino di misera vita, chiedimi e darotti ciò che tu vorrai».

E 'l filosafo rispuose:

«Priegoti che mi ti lievi dal sole».

 

 

LXVII

Qui conta di Papirio, come il padre

lo menò al Consiglio.

 

Papirio fu romano, uomo potentissimo e savio e dilettissimo molto in battaglia; e credeansi i Romani difendersi da Alexandro confidandosi nella bontade di questo Papirio.

Quando Papirio era fanciullo, il padre lo menava seco al Consiglio. Un giorno il Consiglio si comandò credenza, e la sua madre lo stimulava molto, ché voleva sapere di che i Romani aveano tenuto consiglio. Papirio, veggendo la volontà della madre, si pensò una bella bugia e disse così:

«Li Romani tennero consiglio quale era meglio tra che li uomini avessero due mogli o le femine due mariti acciò che la gente multiplicasse, perché terre si rubellavano da Roma: onde il Consiglio stabilìo che meglio si potea sostenere e più convenevile era che l'uomo abbia due moglie».

La madre, che·lli avea promesso di tenere credenza, il manifestò a un'altra donna: così andoe d'una in altra, che tutta Roma il sentì.

Ragunarsi le donne et andarne a' Sanatori e doleansi molto, et elli temettero di maggior novità. Udendo la cagione, diedero cortesemente loro commiato, e commendaro Papirio di grande savere per innanzi.

E allora il Comune di Roma stabilìo che niuno padre dovesse menare suo figliuolo a consiglio.

 

 

LXVIII

D'una quistione che fece un

giovane ad Aristotile.

 

Aristotile fue grande filosofo. Un giorno venne a·llui un giovane con una nuova domanda, dicendo così:

«Eh, maestro: i' ho veduto cosa che molto mi dispiace all'animo mio: ch'io vidi un vecchio di grandissimo tempo fare laide mattezze: onde, se la vecchiezza n'ha colpa, io m'accordo di voler morire giovane anziché invecchiare e matteggiare. Onde per Dio, maestro, metteteci consiglio, se essere può».

Aristotile rispuose:

«Io non posso consigliare che, invecchiando, la natura non muti in debolezza: il buono calore naturale se verrae meno, la virtù ragionevole è manca. Ma per la tua bella provedenza io t'aprenderò com'io potrò. Farai così: che, nella tua giovenezza, che tu usarai tutte le belle et oneste cose e le piacevoli, e dal lor contrario ti guarderai al postutto. Quando serai vecchio, non per natura né per ragione viverai con nettezza, ma per la tua bella, piacevole e lunga usanza ch'avrai fatta».

 

 

LXIX

Qui conta della gran giustizia

di Traiano imperadore.

 

Lo 'mperadore Traiano fue molto giustissimo signore. Andando un giorno con la sua grande cavalleria contra ' suoi nemici, una femina vedova li si fece dinanzi e preselo per la staffa e disse:

«Messere, fammi diritto di quelli c'a torto m'hanno morto lo mio figliuolo».

E lo 'mperadore rispuose e disse:

«Io ti sodisfarò quand'io tornarò».

Et ella disse:

«Se tu non torni?».

Et elli rispuose:

«Sodisfaratti lo mio successore».

Et ella disse:

«E se 'l tuo successore mi vien meno? Tu mi·n se' debitore. E pognamo che pure mi sodisfacesse: l'altrui giustizia non liberrà la tua colpa: bene averrae al tuo successore, s'elli liberrae sé medesimo».

Allora lo 'mperadore smontò da cavallo e fece giustizia di coloro ch'aveano morto il figliuolo di colei, e poi cavalcò e sconfisse i suoi nemici.

E dopo non molto tempo della sua morte venne il beato san Gregorio papa e, trovando la sua giustizia, andò alla statua sua e con lagrime l'onorò di gran lode e fecelo diseppellire: trovaro che tutto era tornato alla terra, salvo che l'ossa e la lingua; – e ciò dimostrava com'era suto giustissimo uomo e giustamente avea parlato.

E santo Grigoro orò per lui a Dio, e dicesi, per evidente miracolo, che per li preghi di questo santo papa l'anima di questo imperadore fu liberata dalle pene dell'inferno et andonne in vita eterna: et era stato pagano.

 

 

LXX

Qui conta d'Ercules come

n'andò alla foresta.

 

Ercules fu uomo fortissimo oltre li altri uomini; et avea una sua moglie, la quale li dava molta travaglia.

Partisi un dì di subito, et andonne per una gran foresta, e trovava orsi e leoni et assai fiere pessime: tutte le squarciava et uccidea con la sua forza; e non trovò niuna bestia sì forte, che da lui si difendesse.

E' stette in questa foresta gran tempo; poi tornò a casa alla moglie co' panni tutti squarciati, con pelli di leoni a dosso. La moglie li si fece incontro con gran festa e cominciò a dire:

«Ben vegnate, il signor mio: che novelle?».

Et Ercules rispuose:

«Io vegno dalla foresta, e tutte le fiere ho trovate più umili di te: ché tutte quelle ch'i' ho trovate ho soggiogate, salvo che te: anzi, tu hai soggiogato me. Dunque se' tu la più forte cosa che io mai trovasse: ché hai vinto colui che tutte l'altre cose ha vinto».