BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Dante Alighieri

1265 - 1321

 

La Divina commedia

 

Purgatorio

 

______________________________________________________________________________

 

 

 

Canto XXII

 

Canto XXII, dove tratta de la qualità del sesto girone, dove si punisce e purga la colpa e vizio de la gola; e qui narra Stazio sua purgazione e sua conversione a la cristiana fede.

 

Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 22 (disegno, 1485/90)

 

 

 

 

3 

 

 

6 

 

 

9 

 

 

12 

 

 

15 

 

 

18 

 

 

21 

 

 

24 

 

 

27 

 

 

30 

 

 

33 

 

 

36 

 

 

39 

 

 

42 

 

 

45 

 

 

48 

 

 

51 

 

 

54 

 

 

57 

 

 

60 

 

 

63 

 

 

66 

 

 

69 

 

 

72 

 

 

75 

 

 

78 

 

 

81 

 

 

84 

 

 

87 

 

 

90 

 

 

93 

 

 

96 

 

 

99 

 

 

102 

 

 

105 

 

 

108 

 

 

111 

 

 

114 

 

 

117 

 

 

120 

 

 

123 

 

 

126 

 

 

129 

 

 

132 

 

 

135 

 

 

138 

 

 

141 

 

 

144 

 

 

147 

 

 

150 

 

 

153 

 

Già era l'angel dietro a noi rimaso,

l'angel che n'avea vòlti al sesto giro,

avendomi dal viso un colpo raso;

e quei c'hanno a giustizia lor disiro

detto n'avea beati, e le sue voci

con ‹sitiunt›, sanz' altro, ciò forniro.

E io più lieve che per l'altre foci

m'andava, sì che sanz' alcun labore

seguiva in sù li spiriti veloci;

quando Virgilio incominciò: «Amore,

acceso di virtù, sempre altro accese,

pur che la fiamma sua paresse fore;

onde da l'ora che tra noi discese

nel limbo de lo 'nferno Giovenale,

che la tua affezion mi fé palese,

mia benvoglienza inverso te fu quale

più strinse mai di non vista persona,

sì ch'or mi parran corte queste scale.

Ma dimmi, e come amico mi perdona

se troppa sicurtà m'allarga il freno,

e come amico omai meco ragiona:

come poté trovar dentro al tuo seno

loco avarizia, tra cotanto senno

di quanto per tua cura fosti pieno?».

Queste parole Stazio mover fenno

un poco a riso pria; poscia rispuose:

«Ogne tuo dir d'amor m'è caro cenno.

Veramente più volte appaion cose

che danno a dubitar falsa matera

per le vere ragion che son nascose.

La tua dimanda tuo creder m'avvera

esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita,

forse per quella cerchia dov' io era.

Or sappi ch'avarizia fu partita

troppo da me, e questa dismisura

migliaia di lunari hanno punita.

E se non fosse ch'io drizzai mia cura,

quand' io intesi là dove tu chiame,

crucciato quasi a l'umana natura:

‹Per che non reggi tu, o sacra fame

de l'oro, l'appetito de' mortali?›,

voltando sentirei le giostre grame.

Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali

potean le mani a spendere, e pente'mi

così di quel come de li altri mali.

Quanti risurgeran coi crini scemi

per ignoranza, che di questa pecca

toglie 'l penter vivendo e ne li stremi!

E sappie che la colpa che rimbecca

per dritta opposizione alcun peccato,

con esso insieme qui suo verde secca;

però, s'io son tra quella gente stato

che piange l'avarizia, per purgarmi,

per lo contrario suo m'è incontrato».

«Or quando tu cantasti le crude armi

de la doppia trestizia di Giocasta»,

disse 'l cantor de' buccolici carmi,

«per quello che Clïò teco lì tasta,

non par che ti facesse ancor fedele

la fede, sanza qual ben far non basta.

Se così è, qual sole o quai candele

ti stenebraron sì, che tu drizzasti

poscia di retro al pescator le vele?».

Ed elli a lui: «Tu prima m'invïasti

verso Parnaso a ber ne le sue grotte,

e prima appresso Dio m'alluminasti.

Facesti come quei che va di notte,

che porta il lume dietro e sé non giova,

ma dopo sé fa le persone dotte,

quando dicesti: ‹Secol si rinova;

torna giustizia e primo tempo umano,

e progenïe scende da ciel nova›.

Per te poeta fui, per te cristiano:

ma perché veggi mei ciò ch'io disegno,

a colorare stenderò la mano.

Già era 'l mondo tutto quanto pregno

de la vera credenza, seminata

per li messaggi de l'etterno regno;

e la parola tua sopra toccata

si consonava a' nuovi predicanti;

ond' io a visitarli presi usata.

Vennermi poi parendo tanto santi,

che, quando Domizian li perseguette,

sanza mio lagrimar non fur lor pianti;

e mentre che di là per me si stette,

io li sovvenni, e i lor dritti costumi

fer dispregiare a me tutte altre sette.

E pria ch'io conducessi i Greci a' fiumi

di Tebe poetando, ebb' io battesmo;

ma per paura chiuso cristian fu'mi,

lungamente mostrando paganesmo;

e questa tepidezza il quarto cerchio

cerchiar mi fé più che 'l quarto centesmo.

Tu dunque, che levato hai il coperchio

che m'ascondeva quanto bene io dico,

mentre che del salire avem soverchio,

dimmi dov' è Terrenzio nostro antico,

Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:

dimmi se son dannati, e in qual vico».

«Costoro e Persio e io e altri assai»,

rispuose il duca mio, «siam con quel Greco

che le Muse lattar più ch'altri mai,

nel primo cinghio del carcere cieco;

spesse fïate ragioniam del monte

che sempre ha le nutrice nostre seco.

Euripide v'è nosco e Antifonte,

Simonide, Agatone e altri piùe

Greci che già di lauro ornar la fronte.

Quivi si veggion de le genti tue

Antigone, Deïfile e Argia,

e Ismene sì trista come fue.

Védeisi quella che mostrò Langia;

èvvi la figlia di Tiresia, e Teti,

e con le suore sue Deïdamia».

Tacevansi ambedue già li poeti,

di novo attenti a riguardar dintorno,

liberi da saliri e da pareti;

e già le quattro ancelle eran del giorno

rimase a dietro, e la quinta era al temo,

drizzando pur in sù l'ardente corno,

quando il mio duca: «Io credo ch'a lo stremo

le destre spalle volger ne convegna,

girando il monte come far solemo».

Così l'usanza fu lì nostra insegna,

e prendemmo la via con men sospetto

per l'assentir di quell' anima degna.

Elli givan dinanzi, e io soletto

di retro, e ascoltava i lor sermoni,

ch'a poetar mi davano intelletto.

Ma tosto ruppe le dolci ragioni

un alber che trovammo in mezza strada,

con pomi a odorar soavi e buoni;

e come abete in alto si digrada

di ramo in ramo, così quello in giuso,

cred' io, perché persona sù non vada.

Dal lato onde 'l cammin nostro era chiuso,

cadea de l'alta roccia un liquor chiaro

e si spandeva per le foglie suso.

Li due poeti a l'alber s'appressaro;

e una voce per entro le fronde

gridò: «Di questo cibo avrete caro».

Poi disse: «Più pensava Maria onde

fosser le nozze orrevoli e intere,

ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde.

E le Romane antiche, per lor bere,

contente furon d'acqua; e Danïello

dispregiò cibo e acquistò savere.

Lo secol primo, quant' oro fu bello,

fé savorose con fame le ghiande,

e nettare con sete ogne ruscello.

Mele e locuste furon le vivande

che nodriro il Batista nel diserto;

per ch'elli è glorïoso e tanto grande

quanto per lo Vangelio v'è aperto»