BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Raffaello Sanzio

1483 - 1520

 

Lettera a Leone X

 

1519

 

Testo:

Raffaello Sanzio, Tutti gli scritti

ed. E. Camasasca, Milano 1956

 

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Ritratto di Leone X (Raffaello 1513-18)

 

 

A Papa Leone X.

 

Sono molti, padre beatissimo, che misurando col loro debile giudizio le grandissime cose che delli romani, circa l'arme, e della città di Roma, circa 'l mirabile artificio, ricchezze, ornamenti e grandezza delli edifici si scrivono, più presto estimano quelle fabulose, che vere. Ma altramente a me sòle avenire e aviene; perché, considerando dalle reliquie che ancor si veggono per le ruine di Roma la divinitade di quelli animi antichi, non estimo fòr di ragione credere che molte cose di quelle che a noi paiono impossibili, che ad essi erano (corretto con una scriturra fine: paressero) facilissime. Onde, essendo io stato assai studioso di queste tali antiquitati, e avendo posto non piccola cura in cercarle minutamente e in misurarle con diligenzia, e leggendo di continuo li buoni auctori e conferenedo l'opere con le loro scripture, penso aver conseguito qualche notizia di quell'antiqua architectura. Il che in un punto mi dà grandissimo piacere, per la cognizione di tanto excellente cosa, e grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavero di quest'alma nobile cittate, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato. Onde, se ad ognuno è debita la pietade verso li parenti e la patria, mi tengo obbligato di exponere tutte le mie piccole forze acioché più che si può resti viva qualche poco di imagine e quasi un'ombra di questa, che in vero è patria universale di tutti i cristiani, e per un tempo è stata nobile e potente, che già cominciavano gli uomini a credere che essa sola sotto il cielo fosse sopra la fortuna e, contra 'l corso naturale, exempta dalla morte e per durare perpetuamente. Onde parve che 'l tempo, come invidioso della gloria delli mortali non confidatosi pienamente delle sue forze sole, si accordasse con la fortuna e con li profani e scelerati barbari, li quali alla edace lima e venenoso morso di quello aggiunsero l'empio furore del ferro e del fuoco; onde quelle famose opere, che oggidì più che mai sarebbono florenti e belle. furono dalla scelerata rabbia e crudel impeto di malvagi uomini, anzi fère arse e distrutte; ma non però tanto che non vi restasse quasi la macchina del tutto, ma senza ornamenti. e – per dir così – l'ossa del corpo senza carne. Ma perché ci doleremo noi de' gotti, de' vandali e d'altri perfidi inimici del nome latino, se quelli che, come padri e tutori, dovevano difendere queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno atteso con ogni studio lungamente a distrugerle e a spegnerle? Quanti pontefici, padre santo, quali avevano il medesimo officio che ha Vostra Santità, ma non già il medesimo sapere, né 'l medesimo valore e grandezza d'animo, quanti – dico – pontefici hanno permesso le ruine e disfacimenti delli templi antichi, delle statue, delli archi e altri edifici, gloria delli lor fondatori? Quanti hanno comportato che, solamente per pigliare terra pozzolana, si siano scavati i fondamenti, onde in poco tempo poi li edifici sono venuti a terra? Quanta calcina si è fatta di statue e d'altri ornamenti antichi? che ardirei dire che questa nova Roma, che òr si vede, quanto grande ch'ella vi sia, quanto bella, quanto ornata di palazzi, di chiese e di altri edifici, sia fabricata di calcina fatta di marmi antichi. Né senza molta compassione posso io ricordarmi che, poi ch'io sono in Roma, che ancor non sono dodici anni, son state ruinate molte cose belle, come la meta ch'era nella via Alexandrina, l'arco che era alla entrata delle terme diocleziane et el tempio di Cerere nella via Sacra, una parte del foro Transitorio, che pochi dì sono fu arsa e distructa, e de li marmi fattone calcina, ruinata la magior parte della basilica del foro . . . (spazio vuoto per una o due parole) oltra di questo, tante colonne rotte e fesse pel mezzo, tanti architravi, tanti belli fregi spezzati, che è stato pur una infamia di questi tempi l'averlo sostenuto e che si potria dire veramente ch'Annibale non che altri fariano pio. Non debbe adunche, padre santo, esser tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità lo aver cura che quello poco che resta di questa antica madre della gloria e nome italiano, per testimonio di quelli animi divini, che pur talor con la memoria loro excitano e destano alle virtù li spiriti che oggidì sono tra noi, non sia extirpato in tutto e guasto dalli maligni e ignoranti, che purtroppo si sono insino a qui facte ingiurie a quelli animi che col sangue loro parturirono tanta gloria al mondo e a questa patria e a noi; ma più presto cerchi Vostra Santità, lassando vivo el paragone de li antichi, aguagliarli e superarli, come ben fa con magni edifici, col nutrire e favorire le virtuti, e risvegliare gl'ingegni, dar premio alle virtuose fatiche, spargendo el santissimo seme della pace tra li prìncipi cristiani. Perché, come dalla calamitate della guerra nasce la destruzione, ruina di tutte le discipline e arti, così dalla pace e concordia nasce la felicitate a' popoli e aggiunge al colmo della excellenzia. Come pur per il divino consiglio e auctorità di Vostra Santità speriamo tutti che s'abbia a pervenire al secol nostro; e questo è lo esser veramente pastore clementissimo, anzi padre optimo di tutto il mondo.

Ma, per ritornare a dir di quello che poco avanti ho tocco, dico che, avendomi Vostra Santità comandato che io ponessi in disegno Roma antica, quanto cognoscier si può per quello, che oggidì si vede, con gli edifici, che di sé dimostrano tal reliquie, che per vero argumento si possono infallibilmente ridurre nel termine proprio come stavano, facendo quelli membri, che sono in tutto ruinati né si veggono punto, corrispondenti a quelli che restano in piedi e si veggono. Per il che ho usato ogni diligenzia a me stata possibile, acioché l'animo di Vostra Santità e di tutti gli altri che si diletteranno di questa nostra fatica, restino senza confusione ben satisfatti. E, ben ch'io abbia cavato da molti auctori latini quello ch'io intendo di dimostrare, tra gli altri nondimeno ho principalmente seguitato P. Victore, el qual, per esser stato degli ultimi, può dar più particular notizia delle ultime cose, non pretermettendo ancor le antiche, e vedesi che concorda nel scriver le «regioni» con alcuni marmi antichi nelli quali medesimamente son descripte.

E perché ad alcuno potrebbe parere che difficil fosse el cognosciere li edifici antiqui dalli moderni, o li più antichi dalli meno antichi, per non lassar dubbio alcuno nella mente di chi vorrà aver questa cognizione, dico che questo con poca fatica far si può. Perché di tre maniere di edifici solamente si ritrovano in Roma, delle quali la una è di que' buoni antichi, che durarono dalli primi imperatori sino al tempo che Roma fu ruinata e guasta dalli gotti e da altri barbari; l'altra durò tanto che Roma fu dominata da' gotti e ancora cento anni di poi; l'altra, da quel tempo sino alli tempi nostri. Li edifici adunque moderni sono notissimi, sì per esser novi, come per non essere ancora in tutto giunti né alla excellenzia, né a quella immensa spesa che nelli antichi si vede e considera. Ché, avegna che a' dì nostri l'architectura sia molto svegliata e venuta assai proxima alla maniera delli antichi, come si vede per molte belle opere di Bramante, niente di meno li ornamenti non sono di materia tanto preziosa come li antichi, che con infinita spesa par che mettessero ad effetto ciò che imaginarno e che solo el volere rompesse ogni difficultate. Li edifici, poi, del tempo delli gotti sono talmente privi d'ogni grazia, senza maniera alcuna, dissimili dalli antichi e dalli moderni. Non è adunque difficile cognoscere quelli del tempo delli imperatori, li quali son li più excellenti e fatti con più bella maniera e magior spesa e arte di tutti gli altri. E questi soli intendiamo di dimostrare, né bisogna che nell'animo di alcuno nasca dubbio che, tra li edifici antiqui, li meno antichi fossero men belli, o men bene intesi, o d'altra maniera. Perché tutti erano d'una ragione. E, benché molte volte molti edifici dalli medesimi antichi fossero ristaurati, come si legge che nel medesimo luoco dov'era la casa Aurea di Nerone di poi furono edificate le terme di Tito e la sua casa e l'anfiteatro, niente di meno erano facti con la medesima maniera e ragione che gli altri edifici ancor più antichi che 'l tempo di Nerone e coetanei della casa Aurea. E, benché le lettere, la scultura, la pictura e quasi tutte l'altre arti fossero lungamente ite in declinazione, e peggiorando fino al tempo degli ultimi imperatori, pur l'architectura si osservava e manteneasi con bona ragione, et edificavasi con la medesima maniera che prima: e fu questa, tra le altre arti, l'ultima che si perse e questo cognoscer si può da molte cose e, tra l'altre, da l'arco di Costantino, il componimento del quale è bello e ben fatto in tutto quel che appartiene all'architectura, ma le sculture del medesimo arco sono sciocchissime, senza arte o disegno alcuno buono. Quelle che vi sono delle spoglie di Traiano e di Antonino Pio sono excellentissime e di perfetta maniera. Il simile si vede nelle terme diocleziane, ché le sculture del tempo suo sono di malissima maniera e mal facte, e le reliquie di pictura che si veggono non hanno che fare con quelle del tempo di Traiano e di Tito. E pur l'architectura è nobile e ben intesa. Ma, poiché Roma in tutto dalli barbari fu ruinata arsa e distrutta, parve che quello incendio e quella misera ruina ardesse e ruinasse, insieme con li edifici, ancora l'arte dello edificare. Onde, essendosi tanto mutata la fortuna de' romani e succedendo, in luoco delle infinite victorie e trionfi, la calamitate e la miseria della servitù, come non si convenisse a quelli, che già subiugati e facti servi altrui, abitar di quel modo e con quella grandezza che facevano quando essi aveano sugiogati li barbari, subito – con la fortuna – si mutò el modo dello edificare e abitare, e apparve uno extremo tanto lontano da l'altro, quanto è la servitute dalla libertate; e ridusse a maniera conforme alla sua miseria, senza arte, o misura, o grazia alcuna, e parve che gli uomini di quel tempo insieme con l'imperio perdessero tutto lo ingegno e l'arte, e fèrnosi tanto ignoranti, che non seppero far pur li mattoni cotti, non che altra sorte di ornamenti, e scrustavano li muri antiqui per tòrne le pietre cotte e, in piccioli quadretti riducendo li marmi, con essi muravano, dividendo con quella mistura le parete, come or si vede nella torre che si chiama delle Milizie. E così per bon spazio di ternpo seguitorno con quella ignoranzia che in tutte quelle cose del lor tempo si vede, e parve che non solamente in Italia venisse questa atroce e crudel procella di guerra e di distruzione, ma si distendesse ancora in Grecia, dove già furono gl'inventori e li perfetti maestri di tutte l'arti, onde ancor là nacque una maniera di pictura e di scultura e architectura pessima e di niuno valore. Cominciossi di poi quasi per tutto a surgere la maniera dell'architectura tedesca che, come ancor si vede nelli ornamenti, è lontanissima dalla bella maniera delli romani e antichi, li quali – oltra la macchina di tutto lo edificio – aveano bellissime le cornice, li fregi e gli architravi, le colonne e i capitelli e le base, e insomma tutti gli altri ornamenti di perfetta e bellissima maniera. E li tedeschi, la maniera delli quali in molti luoghi ancor dura, spesso per ornamento pongono un qualche figurino ranicchiato mal fatto, peggio inteso per mensola, a sostenere un travo, e altri strani animali e figure e fogliami fuor d'ogni ragione. Pur, questa architectura ebbe qualche ragione però che nacque dalli arbori non ancor tagliati, alli quali, piegati li rami e rilegati insieme, fanno li lor terzi acuti. E, benché questa origine non sia in tutto da sprezzare, pur è debile, perché molto più reggerebono le capanne fatte di travi incatenati, e posti a uso di colonne con li colmi loro e coprimenti, come descrive Victruvio della origine dell'opera dorica, che li terzi acuti, li quali hanno dui centri: e però ancora molto piu sostiene, secondo la ragione matematica, un mezzo tondo, il quale ogni sua linea tira ad un sol centro; e, oltra la debolezza, el terzo acuto non ha quella grazia all'occhio nostro, al qual piace la perfeczione del circulo: e vedesi che la natura non cerca quasi altra forma. Ma non è necessario parlar dell'architectura romana, per farne paragone con la barbara, perché la differenzia è notissima; né ancor per discrivere l'ordine suo, essendone già tanto excellentemente scripto per Victruvio. Basti adunque sapere che li edifici di Roma insino al tempo degl'ultimi imperatori furno sempre edificati con bona ragione di architectura e però concordavano con li più antiqui, onde difficultà alcuna non è di discernergli da quelli che furono al tempo delli gotti e ancora molti anni da poi, perché furono questi quasi dui extremi direttamente oppositi; né ancor dalli nostri moderni, se non altro, almeno per la novità che li fa notissimi.

Avendo adunque abastanza dichiarato quali edifici antiqui di Roma sono quelli che noi vogliamo dimostrare, e ancora come facil cosa sia cognoscere quelli dalli altri, resta ad insegnare il modo che noi avemo tenuto in misurarli e disegnarli, acioché chi vorrà attendere alla architectura sappia operar l'uno e l'altro senza errore. E cognosca noi, nella discripzione di questa opera, non esserci governati a caso e per sola pratica, ma con vera ragione. E, per non aver io insino a mo veduto scritto, né inteso che sia apresso alcuno antico el modo di misurare con la bussola della calamita, el quale modo noi usiamo, estimo che sia invenzione de' moderni, però parmi bene insegnar con diligenzia l'operarla a chi non sapesse. Farassi adunque uno istrumento tondo e piano, come uno astrolabio, el diametro del quale sarà dui palmi, o più o meno, come piace a chi vòle operare. E la circonferenzia di questo instrumento partiremo in otto parti giuste, e a ciascuna di quelle parti poremo el nome d'un degli otto vènti, dividendoli in trentadue altre parti piccole, che si chiamarano gradi, così dal grado di tramontana tireremo una linea dritta per mezzo il centro dello instrumento fino alla circumferenzia, e questa linea all'opposito del primo grado di tramontana farà el primo di ostro. Medesimamente tireremo pur dalla circumferenzia un'altra linea, la qual, passando per el centro, intersecherà la linea di ostro e di tramontana e farà intorno al centro quattro angoli retti, e in un lato della circumferenzia signerà il primo grado di levante e, nell'altro, il primo di ponente. Così, tra queste linee, che fanno li supradetti quattro vènti principali, resterà el spazio delli altri quattro vènti collaterali, che sono greco, lybeccio, maestro e syroco. E questi si discriveranno con li medesimi gradi e modi che si è detto delli altri. Facto così, nel punto del centro, dove si intersecano le linee, conficaremo un umbilico di ferro, come un chiodetto, dirittissimo e acuto, e sopra questo si metta la calamita in bilancia, come si usa di fare nelli orioli del sole che tutto dì veggiamo. Di poi chiuderemo questo luoco della calamita con un vetro, overo con un corno subtilissimò e trasparente, ma in modo che non tocchi, per non impedire el moto di quella, e acioché non sia sforzata dal vento. Dippoi, per mezzo del instrumento, come diametro manderemo un indice, el qual serà sempre dimostrativo, non solamente delli appositi vènti, ma ancora delli gradi, come l'armille nello astrolabio, e questo si chiamerà «traguardo», e serà acconcio di modo che si poterà volgere intorno, stante fermo el resto dello instrumento. Con questo, adunque, misuraremo ogni sorte di edificio di che forma si sia: o tondo, o quadro, o con strani angoli e svolgimenti quanto si voglia. E il modo è tale che, nel luoco che si vòle misurare, si ponga lo instrumento ben piano, acioché la calamita vadi al suo dritto e se acosti a quella parete, che si vuol misurare, quanto comporta la circumferenzia dello instrumento. E questo si vadi volgendo tanto che la calamita sii giusta verso el vento signato per tramontana, e come è ben fermata a questo verso, si indirizzi el traguardo con una regola di legno, o di ottone, giusto a filo di quella parete, o strata, o altra cosa che si voglia misurare, lassando lo instrumento fermo, acioché la calamita servi el suo dritto verso tramontana. Di poi guardisi a qual vento e a quanti gradi volta per dritta linea quella parete, la quale misurerassi con la canna, o cubito, o palmo, fino a quel termine che 'l traguardo porta per dritta linea, e questo numero si noti: cioè tanti cubiti, a tanti gradi di ostro, o syroco, o qual si sia. Dippoi che 'l traguardo non serve più, per dritta linea devesi alor svolgerlo, cominciando l'altra linea, che si ha a misurare, dove termina la misurata; e così, indrizandolo a quella, medesimamente notar li gradi del vento e 'l numer delle misure, fin tanto che si circuisca tutto lo edificio. E questo pensiamo che basti, quanto al misurare, benché bisogna intendere le altezze, le quali facilmente si misurano col quadrante, e li edifici tondi, el centro delli quali si ritrova da ogni minima parte del suo circulo, come insegna Euclide nel terzo.

Avendo misurato di quel modo che si è dicto, e notate le misure e prospecti – cioè tante canne, o palmi, a tanti gradi di tal vento -, per disegnar poi bene el tutto è oportuno aver una carta della forma e misura propria della bussola della calamita, e partita apunto di quel medesimo modo, con li medesimi gradi delli vènti, della qual si può l'uom servire, come io dimostrarò. Piglisi adunque la carta sopra la qual si vòl dissegnare lo edificio misurato. E primamente si tiri sopra essa una linea, la quale serva quasi per una maestra al dritto di tramontana; poi se gli sovraponga la carta dove è disegnato lo exemplar della bussola con la qual si misura, e indrizzisi di modo che la linea di tramontana nel exemplare dissegnata se congiunga con la linea che è tirata nella carta ove si vòl dissegnar lo edificio. Di poi guardisi, nella cosa misurata, el numero delli piedi notatovi misurando e li gradi di quel vento verso el qual è indrizato el muro, o la via, che si vòl disegnare, e così trovisi el medesimo grado di quel vento nel exemplar della bussola dissegnata, tenendolo fermo con la linea di tramontana sopra l'altra linea descripta nella carta, e tirisi la linea di quel grado, dritta che passi per el centro dello exemplar dissegnato, e discrivasi nella carta dove si vòl dissegnare. Di poi si riguardi quanti piedi furono traguardati pel dritto di quel grado, e tanti se ne segnino con la misura delli piccoli piedi su la linea di quel grado. E se, verbigrazia, s'intraguardi in un muro piedi trenta a gradi sei di levante, misurinsi piedi trenta e segninsi. E così di mano in mano, di modo che, con la pratica, si farà una facilitate grandissima e sarà, questa, quasi un disegno della pianta, e un memorial per dissegnar tutto il resto.

E perché el modo del dissegnar che più si appartiene allo architecto è differente da quel del pictore, dirò qual mi pare conveniente per intendere tutte le misure e sapere trovare tutti li membri delli edifici senza errore. El dissegno adunque delli edifici pertenente al architecto si divide in tre parti, delle quali la prima si è la pianta, o – vogliam dire – el dissegno piano; la seconda si è la parete di fuora, con li suoi ornamenti; la terza è la parete di dentro, pur con li suoi ornamenti. La pianta si è quella che comparte tutto el spazio piano del luoco da edificare, o – voglio dir – el dissegno del fondamento di tutto lo edificio, quando già è rasente al pian della terra. E quel spazio, bench'el fosse in monte, bisogna ridurlo in piano, e far che la linea della base del monte piana e posta in piano sia parallela a tutti li piani dello edificio, e per questo si deve pigliare la linea dritta della base del monte, e non la curvità dell'altezza, di modo che sopra quella caggiano in piombo e in perpendicolo tutti li muri dello edificio, e chiamasi questo disegno – come è dicto – «pianta»; quasi che così questa pianta occupi el spazio del fondamento di tutto lo edificio, come la pianta del piede occupa quel spazio che è fondamento di tutto il corpo. Dissegnato che sia la pianta e compartita con li suoi membri con le larghezze loro, o in tondo, o in quadro, o qual altra forma si sia, devesi tirare, misurando sempre con la piccola misura el tutto, una linea della larghezza della base di tutto lo edificio, e dal punto di mezzo di questa, tirata un'altra linea dritta, la quale faccia da l'un canto e dall'altro dui angoli retti, in questa sia la linea del mezzo dello edificio. Dalle due extremitati della linea della larghezza tirinsi due linee parallele perpendiculari sopra la linea della base, e queste due linee siano alte quanto ha da essere lo edificio, ché in tal modo faranno l'altezza dello edificio. Di poi tra queste due linee extreme, che fanno l'altezza, si pigli la misura delle colonne, delli pilastri, delle finestre e degli altri ornamenti dissegnati nella metà dinante della pianta dello edificio; e faciasi el tutto sempre tirando, da ciascun punto delle extremitate delle colonne, pilastri, vani, o ciò che si siano, linee parallele da quelle due extreme. E di poi per el traverso si ponga l'altezza della base delle colonne, delli capitelli, delli architravi delle finestre, fregi, cornice, e tal cose. E questo tutto si faccia con linee parallele della linea del piano dello edificio. E in tali disegni non si diminuisca nella extremitate, ancora che lo edificio fosse tondo, né ancora se fosse quadro, per farli mostrare due faccie. Perché lo architecto, dalla linea diminuita, non può pigliare alcuna giusta misura, el che è necessario a tal artificio, che ricerca tutte le misure perfette in facto, e tirate con linee parallele, non con quelle che paiono, e non sono; e, se le misure facte talor sopra pianta di forma tonda scórtano, over diminuiscano, sùbito si trovano nel dissegno della pianta, e quelle che scórtano nella pianta, come vôlte, archi, triangoli, sono poi perfette nelli suoi dritti disegni. E, per questo, è sempre bisogno aver pronte e apparecchiate le misure giuste di palmi, piedi, diti e grani, fino alle sue parti minime. La terza parte di questo dissegno si è quella che avemo dicto e chiamata «parete di dentro», con li suoi ornamenti. E questa è necessaria non meno che l'altre due, et è fatta medesimamente dalla pianta con le linee parallele, come la parete di fòra; e dimostra la metà dello edifico di dentro, come se fosse diviso per mezzo: dimostra el cortile, la conrespondenzia dell'altezza della cornice di fòra con le cose di dentro, l'altezza delle finestre, delle porte, delli archi e delle vôlte, o a bocte, o cruciera, o che altra foggia si siano. In somma, con questi tre ordini – over modi – si possono considerare minutamente tutte le parti d'ogni edificio, dentro e di fòra.

E questa via avemo seguitata e tenuta noi, come si vederà nel progresso di tutta questa nostra opera. E, acioché più chiaramente ancora si intenda, avemo posto qui di sotto in disegno un solo edificio dissegnato in tutti tre questi modi.

[. . .]

E, per satisfare ancor più compitamente al dessiderio di quelli che amano di vedere e comprendere bene tutte le cose che saranno dissegnate, avemo – oltre li tre modi di architectura proposti e sopra ditti – dissegnato ancora in prospectiva alcuni edifici li quali a noi è paruto che così ricerchino accioché gli occhi possino vedere e giudicare la grazia di quella similitudine che se gli appresenta per la bella proporzione e simetria delli edifici, il che non apar nel dissegno di quelli che son misurati architecticamente. Perché la grossezza de' corpi non si può dimostrare in un piano, se quelle parti che si hanno da veder più lontane non diminuiscano con proporzione secondo che l'occhio naturalmente vede, il qual manda li raggi in forma di piramide e nell'obiecto aplica la base e in sé retiene lo angolo della summità secondo il qual vede; però, quanto l'angolo è minore, tanto l'obbiecto veduto par minore, e così più alto e più basso, dextro e sinistro, secondo l'angolo.

E, per mettere nella parete diricta un piano sopra il quale le cose più lontane si vegghino minori con la debita proporzione, bisogna intersecare li raggi pyramidali delli occhi nostri con una linea equidistante da esso occhio, perché così si vede naturalmente, e dalli punti dove questa linea interseca li raggi si coglie misura giusta del . . . (Qui la scrittura è alterata e illeggibile) con quella proporzione e intervallo che fa parere li obiecti che si veggono lontani più o meno, secondo la distanzia che 'l pictore, over prospectivo, vòl dimostrare. Così noi questa ragione e le altre necessarie alla prospectiva avemo observate nelli disegni che lo ricercavano, rimettendo le misure architectiche alli altri tre primi, con li quali sarebbe impossibile, o – almeno – difficilissimo, ridurre tal cose nelle proprie forme, che misurar si potessero, benché in effecto la ragione delle misure pur vediamo. E, benché questo modo di dissegno in prospectiva sia proprio del pictore, è però conveniente ancora al architecto.

Perché, come al pictore convien la notizia della architectura per saper far li ornamenti ben misurati e con la lor proporzione, così all'architecto si ricerca saper la prospectiva perché con quella exercitazione meglio immagina tutto l'edificio fornito con li suoi ornamenti.

De' quali non occorre dir altro, se non che tutti derivano dalli cinque ordini che usavano li antiqui: cioè dorico, jonico, corinto, toscano e attico; e di tutti il dorico è il più antico, il qual fu trovato da Doro, re di Acaia, edificando in Argo un tempio a Junone; di poi in Jonia, facendosi il tempio di Apolline misurando le colonne doriche con la proporzione del omo, onde servò simetria e fermezza e bella misura, senza altri ornament. Ma nel tempio di Diana mutarno forma, ordinando le colonne con la misura e proporzione della donna, e con molti ornamenti nelli capitelli e nelle basi e in tutto il tronco, over scapo, ad imitazione di feminile statura lo composero. E questo chiamaron «jonico»; ma quelle che si chiamano «corinzie» sono più svelte e più delicate, e fatte ad imitazione della gracilità e sottigliezza virginale, e fu d'esse inventore Calimaco in Corinto, onde si chiamano «corinzie». Della origine delle quali e forma scrive difusamente Victruvio, al qual rimettemo chi vorrà averne maggior notizia. Noi, secondo che occurrerà, dichiareremo li ordini di tacce presuponendo le cose di Victruvio.

Sono ancora due altre opere, oltra le tre dicte: cioè attica e toscana, le quali non furon però molto usate dalli antichi. L'attica ha le colonne facte a quattro facce; la toscana è assai simile alla dorica, come si vederà nel progresso di quello che noi intendemo fare e mostrare. E troverannosi ancora molti edifici composti di più maniere, come di jonica e corinzia, dorica e corinzia, toscana e dorica, secondo che più parse meglio a l'artefice per concordar li edifici apropriati alla loro intenzione, e maxime nelli templi.

 

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Papa Leone X, nato Giovanni di Lorenzo de' Medici (Firenze, 11 dicembre 1475 - Roma, 1º dicembre 1521), è stato il 217º papa della Chiesa cattolica dal 1513 alla sua morte. Giovanni era il secondogenito di Lorenzo de' Medici e Clarice Orsini e portò alla corte pontificia lo splendore e i fasti tipici della cultura delle corti rinascimentali. In ambito artistico, Leone X commissionò il principale ciclo di affreschi realizzato da Raffaello, noto col nome di Loggia. (Wikipedia)