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B  I  B  L  I  O  T  H  E  C  A    A  U  G  U  S  T  A  N  A

 

 

 

 
Silvio Pellico
Le mie prigioni
 


 






 




C a p o  XXV  -  XLIX

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CAPO XXV

Il ragazzo era uscito; ed io provava un certo godimento di aver ripreso in mano la Bibbia; d'aver confessato ch'io stava peggio senza di lei. Mi parea d'aver dato soddisfazione ad un amico generoso, ingiustamente offeso; d'essermi riconciliato con esso.
     «E t'aveva abbandonato, mio Dio?» gridai. «E m'era pervertito? Ed avea potuto credere che l'infame riso del cinismo convenisse alla mia disperata situazione?»
      «E disse ai suoi discepoli: «» impossibile che non avvengano scandali; ma guai a colui per colpa del quale avvengono, Meglio sarebbe per lui che gli si legasse una macina da mulino al collo e lo si gettasse in mare, piuttosto che esser di scandalo a uno solo di questi fanciulli»» (Luca, XVII).
     Pronunciai queste parole con una emozione indicibile; posi la Bibbia sopra una sedia, m'inginocchiai in terra a leggere, e quell'io che sì difficilmente piango, proruppi in lagrime.
     Quelle lagrime erano mille volte più dolci di ogni allegrezza bestiale. Io sentiva di nuovo Dio! lo amava! mi pentiva d'averlo oltraggiato degradandomi! e protestava di non separarmi mai più da lui, mai più!
     Oh come un ritorno sincero alla religione consola ed eleva lo spirito!
     Lessi e piansi più d'un'ora; e m'alzai pieno di fiducia che Dio fosse con me, che Dio mi avesse perdonato ogni stoltezza. Allora le mie sventure, i tormenti del processo, il verosimile patibolo mi sembrarono poca cosa. Esultai di soffrire, poiché ciò mi dava occasione d'adempiere qualche dovere; poiché, soffrendo con rassegnato animo, io obbediva al Signore
     La Bibbia, grazie al Cielo, io sapea leggerla. Non era più il tempo ch'io la giudicava colla meschina critica di Voltaire, vilipendendo espressioni, le quali non sono risibili o false se non quando, per vera ignoranza o per malizia, non si penetra nel loro senso. M'appariva chiaramente quanto foss'ella il codice della santità, e quindi della verità; quanto l'offendersi per certe sue imperfezioni di stile fosse cosa infilosofica, e simile all'orgoglio di chi disprezza tutto ciò che non ha forme eleganti; quanto fosse cosa assurda l'immaginare che una tal collezione di libri religiosamente venerati avessero un principio non autentico; quanto la superiorità di tali scritture sul Corano e sulla teologia degl'Indi fosse innegabile.
     Molti ne abusarono, molti vollero farne un codice d'ingiustizia, una sanzione alle loro passioni scellerate. Ciò è vero; ma siamo sempre lì: di tutto puossi abusare: e quando mai l'abuso di cosa ottima dovrà far dire ch'ella è in se stessa malvagia?
     Gesù Cristo lo dichiarò: Tutta la legge ed i Profeti, tutta questa collezione di sacri libri, si riduce al precetto d'amar Dio e gli uomini. E tali scritture non sarebbero verità adatta a tutti i secoli? non sarebbero la parola sempre viva dello Spirito Santo?
     Ridestate in me queste riflessioni, rinnovai il proponimento di coordinare alla religione tutti i miei pensieri sulle cose umane, tutte le mie opinioni sui progressi dell'incivilimento, la mia filantropia, il mio amor patrio, tutti gli affetti dell'anima mia.
     I pochi giorni ch'io aveva passati nel cinismo m'aveano molto contaminato. Ne sentii gli effetti per lungo tempo, e dovetti faticare per vincerli. Ogni volta che l'uomo cede alquanto alla tentazione di snobilitare il suo intelletto, di guardare le opere di Dio colla infernal lente dello scherno, di cessare dal benefico esercizio della preghiera, il guasto ch'egli opera nella propria ragione lo dispone a facilmente ricadere. Per più settimane fui assalito, quasi ogni giorno, da forti pensieri d'incredulità; volsi tutta la potenza del mio spirito a respingerli.

CAPO XXVI

Quando questi combattimenti furono cessati, e sembrommi d'esser di nuovo fermo nell'abitudine di onorar Dio in tutte le mie volontà, gustai per qualche tempo una dolcissima pace. Gli esami, a cui sottoponeami ogni due o tre giorni la Commissione, per quanto fossero tormentosi, non mi traevano più a durevole inquietudine. Io procurava, in quell'ardua posizione, di non mancare a' miei doveri d'onestà e d'amicizia, e poi dicea: «Faccia Dio il resto».
     Tornava ad essere esatto nella pratica di prevedere giornalmente ogni sorpresa, ogni emozione, ogni sventura supponibile; e siffatto esercizio giovavami novamente assai.
     La mia solitudine intanto s'accrebbe. I due figliuoli del custode, che dapprima mi faceano talvolta un po' di compagnia, furono messi a scuola, e stando quindi pochissimo in casa, non venivano più da me. La madre e la sorella, che allorché c'erano i ragazzi si fermavano anche spesso a favellar meco, or non comparivano più se non per portarmi il caffè, e mi lasciavano. Per la madre mi rincresceva poco, perché non mostrava animo compassionevole. Ma la figlia, benché bruttina, avea certa soavità di sguardi e di parole che non erano per me senza pregio Quando questa mi portava il caffè e diceva: «L'ho fatto io», mi pareva sempre eccellente. Quando diceva: «L'ha fatto la mamma», era acqua calda.
     Vedendo sì di rado creature umane, diedi retta ad alcune formiche che venivano sulla mia finestra, le cibai sontuosamente, quelle andarono a chiamare un esercito di compagne, e la finestra fu piena di siffatti animali. Diedi parimente retta ad un bel ragno che tappezzava una delle mie pareti. Cibai questo con moscerini e zanzare, e mi si amicò sino a venirmi sul letto e sulla mano e prendere la preda dalle mie dita.
     Fossero quelli stati i soli insetti che m'avessero visitato! Eravamo ancora in primavera, e già le zanzare si moltiplicavano, posso proprio dire, spaventosamente. L'inverno era stato di una straordinaria dolcezza, e, dopo pochi venti in marzo, seguì il caldo. » cosa indicibile, come s'infocò l'aria del covile ch'io abitava. Situato a pretto mezzogiorno, sotto un tetto di piombo, e colla finestra sul tetto di S. Marco, pure di piombo, il cui riverbero era tremendo, io soffocava. Io non avea mai avuto idea d'un calore sì opprimente. A tanto supplizio s'aggiungeano le zanzare in tal moltitudine, che per quanto io m'agitassi e ne struggessi io n'era coperto; il letto, il tavolino, la sedia, il suolo, le pareti, la volta, tutto n'era coperto, e l'ambiente ne conteneva infinite, sempre andanti e venienti per la finestra e facienti un ronzio infernale. Le punture di quegli animali sono dolorose, e quando se ne riceve da mattina a sera e da sera a mattina, e si dee avere la perenne molestia di pensare a diminuirne il numero, si soffre veramente assai e di corpo e di spirito.
     Allorché, veduto simile flagello, ne conobbi la gravezza, e non potei conseguire che mi mutassero di carcere, qualche tentazione di suicidio mi prese, e talvolta temei d'impazzare. Ma, grazie al Cielo, erano smanie non durevoli, e la religione continuava a sostenermi. Essa mi persuadeva che l'uomo dee patire, e patire con forza; mi facea sentire una certa voluttà del dolore, la compiacenza di non soggiacere, di vincer tutto.
     Io dicea: «Quanto più dolorosa mi si fa la vita, tanto meno sarò atterrito, se, giovane come sono mi vedrò condannato al supplicio. Senza questi patimenti preliminari sarei forse morto codardamente. E poi, ho io tali virtù da meritare felicità? Dove son esse?».
     Ed esaminandomi con giusto rigore, non trovava negli anni da me vissuti se non pochi tratti alquanto plausibili: tutto il resto erano passioni stolte, idolatrie, orgogliosa e falsa virtù. «Ebbene» concludeva io «soffri, indegno! Se gli uomini e le zanzare t'uccidessero anche per furore e senza diritto, riconoscili stromenti della giustizia divina, e taci!»

CAPO XXVII

Ha l'uomo bisogno di sforzo per umiliarsi sinceramente? per ravvisarsi peccatore? Non è egli vero, che in generale sprechiamo la gioventù in vanità, ed invece d'adoprare le forze tutte ad avanzare nella carriera del bene, ne adopriamo gran parte a degradarci? Vi saranno eccezioni, ma confesso che queste non riguardano la mia povera persona. E non ho alcun merito ad essere scontento di me: quando si vede una lucerna dar più fumo che fuoco, non vi vuol gran sincerità a dire che non arde come dovrebbe.
     Sì; senza avvilimento, senza scrupoli di pinzochero, guardandomi con tutta la tranquillità possibile d'intelletto, io mi scorgeva degno dei castighi di Dio. Una voce interna mi diceva: «Simili castighi, se non per questo, ti sono dovuti per quello; valgano a ricondurti verso Colui ch'è perfetto, e che i mortali sono chiamati, secondo le finite loro forze, ad imitare.»
     Con qual ragione, mentr'io era costretto a condannarmi di mille infedeltà a Dio, mi sarei lagnato se alcuni uomini mi pareano vili ed alcuni altri iniqui; se le prosperità del mondo mi erano rapite; s'io dovea consumarmi in carcere, o perire di morte violenta?
     Procacciai d'imprimermi bene nel cuore tali riflessioni sì giuste e sì sentite: e ciò fatto, io vedeva che bisognava essere conseguente, e che non poteva esserlo in altra guisa se non benedicendo i retti giudizi di Dio, amandoli ed estinguendo in me ogni volontà contraria ad essi.
     Per viemeglio divenir costante in questo proposito, pensai di svolgere con diligenza d'or innanzi tutti i miei sentimenti, scrivendoli. Il male si era che la Commissione, permettendo ch'io avessi calamaio e carta, mi numerava i fogli di questa, con proibizione di distruggerne alcuno, e riservandosi ad esaminare in che li avessi adoperati. Per supplire alla carta, ricorsi all'innocente artifizio di levigare con un pezzo di vetro un rozzo tavolino ch'io aveva, e su quello quindi scriveva ogni giorno lunghe meditazioni intorno ai doveri degli uomini e di me in particola
     Non esagero dicendo che le ore così impiegate m'erano talvolta deliziose, malgrado la difficoltà di respiro ch'io pativa per l'enorme caldo e le morsicature dolorosissime delle zanzare. Per diminuire la moltiplicità di queste ultime, io era obbligato, ad onta del caldo, d'involgermi bene il capo e le gambe, e di scrivere, non solo co' guanti, ma fasciato i polsi, affinché le zanzare non entrassero nelle maniche
     Quelle mie meditazioni avevano un carattere piuttosto biografico. Io faceva la storia di tutto il bene ed il male che in me s'erano formati dall'infanzia in poi, discutendo meco stesso, ingegnandomi di sciorre ogni dubbio, ordinando quanto meglio io sapea tutte le mie cognizioni, tutte le mie idee sopra ogni cosa.
     Quando tutta la superficie adoprabile del tavolino era piena di scrittura, io leggeva e rileggeva, meditava sul già meditato, ed alfine mi risolveva (sovente con rincrescimento) a raschiar via ogni cosa col vetro, per riavere atta quella superficie a ricevere nuovamente i miei pensieri.
     Continuava quindi la mia storia, sempre rallentata da digressioni d'ogni specie, da analisi or di questo or di quel punto di metafisica, di morale, di politica, di religione, e quando tutto era pieno, tornava a leggere e rileggere, poi a raschiare.
     Non volendo avere alcuna ragione d'impedimento nel ridire a me stesso colla più libera fedeltà i fatti ch'io ricordava e le opinioni mie, e prevedendo possibile qualche visita inquisitoria, io scriveva in gergo, cioè con trasposizioni di lettere ed abbreviazioni, alle quali io era avvezzatissimo. Non m'accadde però mai alcuna visita siffatta, e niuno s'accorgeva ch'io passassi così bene il mio tristissimo tempo. Quand'io udiva il custode o altri aprire la porta, copriva il tavolino con una tovaglia, e vi mettea sopra il calamaio ed il legale quinternetto di carta.

CAPO XXVIII

Quel quinternetto aveva anche alcune delle mie ore a lui consacrate, e talvolta un intero giorno od un'intera notte. Ivi scriveva io di cose letterarie. Composi allora l'Ester d'Engaddi e l'Iginia d'Asti, e le cantiche intitolate: Tancreda, Rosilde, Eligi e Valafrido, Adello, oltre parecchi scheletri di tragedie e di altre produzioni, e fra altri quello d'un poema sulla Lega lombarda, e d'un altro su Cristoforo Colombo.
     Siccome l'ottenere che mi si rinnovasse il quinternetto, quand'era finito, non era sempre cosa facile e pronta, io faceva il primo getto d'ogni componimento sul tavolino o su cartaccia in cui mi facea portare fichi secchi o altri frutti. Talvolta dando il mio pranzo ad uno dei secondini, e facendogli credere ch'io non aveva punto appetito, io l'induceva a regalarmi qualche foglio di carta. Ciò avveniva solo in certi casi, che il tavolino era già ingombro di scrittura, e non poteva ancora decidermi a raschiarla. Allora io pativa la fame, e sebbene il custode avesse in deposito denari miei, non gli chiedea in tutto il giorno da mangiare, parte perché non sospettasse ch'io avea dato via il pranzo, parte perché il secondino non s'accorgesse ch'io aveva mentito assicurandolo della mia inappetenza. A sera mi sosteneva con un potente caffè, e supplicava che lo facesse la siora Zanze. Questa era la figliuola del custode, la quale, se potea farlo di nascosto della mamma, lo faceva straordinariamente carico; tale, che, stante la votezza dello stomaco, mi cagionava una specie di convulsione non dolorosa, che teneami desto tutta notte.
     In questo stato di mite ebbrezza io sentiva raddoppiarmisi le forze intellettuali, e poetava e filosofava e pregava fino all'alba con meraviglioso piacere. Una repentina spossatezza m'assaliva quindi: allora io mi gettava sul letto, e malgrado le zanzare, a cui riusciva, bench'io m'inviluppassi, di venirmi a suggere il sangue, io dormiva profondamente un'ora o due
     Siffatte notti, agitate da forte caffè preso a stomaco vuoto, e passate in sì dolce esaltazione, mi pareano troppo benefiche, da non dovermele procurare sovente. Perciò, anche senza aver bisogno di carta dal secondino, prendeva non di rado il partito di non gustare un boccone a pranzo, per ottenere a sera il desiderato incanto della magica bevanda. Felice me quand'io conseguiva lo scopo! Più d'una volta mi accadde che il caffè non era fatto dalla pietosa Zanze, ed era broda inefficace. Allora la burla mi metteva un poco di mal umore. Invece di venire elettrizzato, languiva, sbadigliava, sentiva la fame, mi gettava sul letto, e non potea dormire.
     Io poi me ne lagnava colla Zanze, ed ella mi compativa. Un giorno che ne la sgridai aspramente, quasi che m'avesse ingannato, la poveretta pianse, e mi disse: «Signore, io non ho mai ingannato alcuno, e tutti mi dànno dell'ingannatrice».
     «Tutti? Oh sta a vedere che non sono il solo che s'arrabbii per quella broda.»
     «Non voglio dir questo, signore. Ah s'ella sapesse!... Se potessi versare il mio misero cuore nel suo!...»
     «Ma non piangete così. Che diamine avete? Vi domando perdono, se v'ho sgridata a torto. Credo benissimo che non sia per vostra colpa che m'ebbi un caffè così cattivo.»
     «Eh! non piango per ciò, signore.»
     Il mio amor proprio restò alquanto mortificato, ma sorrisi.
     «Piangete adunque all'occasione della mia sgridata, ma per tutt'altro?»
     «Veramente sì.»
     «Chi v'ha dato dell'ingannatrice?»
     «Un amante.»
     E si coperse il volto dal rossore. E nella sua ingenua fiducia mi raccontò un idillio comico-serio che mi commosse.

CAPO XXIX

Da quel giorno divenni, non so perché, il confidente della fanciulla, e tornò a trattenersi lungamente con me.
     Mi diceva: «Signore, ella è tanto buona, ch'io la guardo come potrebbe una figlia guardare suo padre».
     «Voi mi fate un brutto complimento;» rispondeva io, respingendo la sua mano «ho appena trentadue anni, e già mi guardate come vostro padre.»
     «Via, signore, dirò: come fratello.»
     E mi prendeva per forza la mano, e me la toccava con affezione. E tutto ciò era innocentissimo.
     Io diceva poi tra me: «Fortuna che non è una bellezza! altrimenti quest'innocente famigliarità potrebbe sconcertarmi.»
     Altre volte diceva: «Fortuna ch'è così immatura! Di ragazze di tale età non vi sarebbe pericolo ch'io m'innamorassi.»
     Altre volte mi veniva un po' d'inquietudine, parendomi ch'io mi fossi ingannato nel giudicarla bruttina, ed era obbligato di convenire che i contorni e le forme non erano irregolari.
     «Se non fosse così pallida,» diceva io «e non avesse quelle poche lenti sul volto, potrebbe passare per bella.»
     Il vero è che non è possibile di non trovare qualche incanto nella presenza, negli sguardi, nella favella d'una giovinetta vivace ed affettuosa. Io poi non avea fatto nulla per cattivarmi la sua benevolenza, e le era caro come padre o come fratello, a mia scelta. Perché? Perché ella avea letto la Francesca da Rimini e l'Eufemio, e i miei versi la faceano piangere tanto! e poi perch'io era prigioniero, senza avere, diceva ella, né rubato né ammazzato!
     Insomma, io che m'era affezionato a Maddalena senza vederla, come avrei potuto essere indifferente alle sorellevoli premure, alle graziose adulazioncelle, agli ottimi caffè della

     Venezianina adolescente sbirra?

     Sarei un impostore se attribuissi a saviezza il non essermene innamorato Non me ne innamorai, unicamente perché ella avea un amante, del quale era pazza. Guai a me, se fosse stato altrimenti!
     Ma se il sentimento ch'ella mi destò non fu quello che si chiama amore, confesso che alquanto vi s'avvicinava. Io desiderava ch'ella fosse felice, ch'ella riuscisse a farsi sposare da colui che piaceale; non avea la minima gelosia, la minima idea che potesse scegliere me per oggetto dell'amor suo. Ma quando io udiva aprir la porta, il cuore mi battea, sperando che fosse la Zanze; e se non era ella, io non era contento; e se era, il cuore mi battea più forte e si rallegrava.
     I suoi genitori, che già avevano preso un buon concetto di me, e sapeano ch'ell'era pazzamente invaghita d'un altro, non si faceano verun riguardo di lasciarla venire quasi sempre a portarmi il caffè del mattino, e talor quello della sera.
     Ella aveva una semplicità ed un'amorevolezza seducenti. Mi diceva: «Sono tanto innamorata d'un altro, eppure sto così volentieri con lei! Quando non vedo il mio amante, mi annoio dappertutto fuorché qui».
     «Ne sai tu il perché?»
     «Non lo so.»
     «Te lo dirò io: perché ti lascio parlare del tuo amante.»
     «Sarà benissimo; ma parmi che sia anche perché la stimo tanto tanto!»
     Povera ragazza! ella avea quel benedetto vizio di prendermi sempre la mano, e stringermela, e non s'accorgeva che ciò ad un tempo mi piaceva e mi turbava.
     Sia ringraziato il Cielo che posso rammemorare quella buona creatura, senza il minimo rimorso!

CAPO XXX

Queste carte sarebbero certamente più dilettevoli se la Zanze fosse stata innamorata di me, o s'io almeno avessi farneticato per essa. Eppure quella qualità di semplice benevolenza che ci univa m'era più cara dell'amore. E se in qualche momento io temea che potesse, nello stolto mio cuore, mutar natura, allor seriamente me n'attristava.
     Una volta, nel dubbio che ciò stesse per accadere, desolato di trovarla (non sapea per quale incanto) cento volte più bella che non m'era sembrata da principio, sorpreso della melanconia ch'io talvolta provava lontano da lei, e della gioia che recavami la sua presenza, presi a fare per due giorni il burbero, immaginando ch'ella si divezzerebbe alquanto dalla famigliarità contratta meco. Il ripiego valea poco: quella ragazza era sì paziente, sì compassionevole! Appoggiava il suo gomito sulla finestra, e stava a guardarmi in silenzio. Poi mi diceva:
     «Signore, ella par seccata della mia compagnia; eppure, se potessi starei qui tutto il giorno, appunto perché vedo ch'ella ha bisogno di distrazione. Quel cattiv'umore è l'effetto naturale della solitudine. Ma si provi a ciarlare alquanto, ed il cattivo umore si dissiperà. E s'ella non vuol ciarlare, ciarlerò io.»
     «Del vostro amante, eh?»
     «Eh no! non sempre di lui; so anche parlar d'altro.»
     E cominciava infatti a raccontarmi de' suoi interessucci di casa, dell'asprezza della madre, della bonarietà del padre, delle ragazzate dei fratelli; ed i suoi racconti erano pieni di semplicità e di grazia. Ma, senza avvedersene, ricadeva poi sempre nel tema prediletto, il suo sventurato amore.
     Io non volea cessare d'esser burbero, e sperava che se ne indispettisse. Ella, fosse ciò inavvedutezza od arte, non se ne dava per intesa, e bisognava ch'io finissi per rasserenarmi, sorridere, commuovermi, ringraziarla della sua dolce pazienza con me.
     Lasciai andare l'ingrato pensiero di volerla indispettire, ed a poco a poco i miei timori si calmarono. Veramente io non erane invaghito. Esaminai lungo tempo i miei scrupoli; scrissi le mie riflessioni su questo soggetto, e lo svolgimento di esse mi giovava.
     L'uomo talvolta s'atterrisce di spauracchi da nulla. A fine di non temerli, bisogna considerarli con più attenzione e più da vicino.
     E che colpa v'era s'io desiderava con tenera inquietudine le sue visite, s'io ne apprezzava la dolcezza, s'io godea d'essere compianto da lei, e di retribuirle pietà per pietà, dacché i nostri pensieri relativi uno all'altro erano puri come i più puri pensieri dell'infanzia, dacché le sue stesse toccate di mano ed i suoi più amorevoli sguardi, turbandomi, m'empieano di salutare riverenza?
     Una sera, effondendo nel mio cuore una grande afflizione ch'ella avea provato, l'infelice mi gettò le braccia al collo, e mi coperse il volto delle sue lagrime. In quest'amplesso non v'era la minima idea profana. Una figlia non può abbracciare con più rispetto il suo padre.
     Se non che, dopo il fatto, la mia immaginativa ne rimase troppo colpita. Quell'amplesso mi tornava spesso alla mente, e allora io non potea più pensare ad altro.
     Un'altra volta ch'ella s'abbandonò a simile slancio di filiale confidenza, io tosto mi svincolai dalle sue care braccia, senza stringerla a me, senza baciarla, e le dissi balbettando:
     «Vi prego, Zanze, non m'abbracciate mai; ciò non va bene.»
     M'affissò gli occhi in volto, li abbassò, arrossì; - e certo fu la prima volta che lesse nell'anima mia la possibilità di qualche debolezza a suo riguardo.
     Non cessò d'esser meco famigliare d'allora in poi, ma la sua famigliarità divenne più rispettosa, più conforme al mio desiderio, e gliene fui grato.

CAPO XXXI

Io non posso parlare del male che affligge gli altri uomini; ma quanto a quello che toccò in sorte a me dacché vivo, bisogna ch'io confessi che, esaminatolo bene, lo trovai sempre ordinato a qualche mio giovamento. Sì, perfino quell'orribile calore che m'opprimeva, e quegli eserciti di zanzare che mi facean guerra sì feroce! Mille volte vi ho riflettuto. Senza uno stato di perenne tormento com'era quello, avrei io avuta la costante vigilanza necessaria per serbarmi invulnerabile ai dardi d'un amore che mi minacciava, e che difficilmente sarebbe stato un amore abbastanza rispettoso, con un'indole sì allegra ed accarezzante qual'era quella della fanciulla? Se io talora tremava di me in tale stato, come avrei io potuto governare le vanità della mia fantasia in un aere alquanto piacevole, alquanto consentaneo alla letizia?
     Stante l'imprudenza de' genitori della Zanze, che cotanto si fidavano di me; stante l'imprudenza di lei, che non prevedeva di potermi essere cagione di colpevole ebbrezza; stante la poca sicurezza della mia virtù, non v'ha dubbio che il soffocante calore di quel forno e le crudeli zanzare erano salutar cosa.
     Questo pensiero mi riconciliava alquanto con que' flagelli. Ed allora io mi domandava: «Vorresti tu esserne libero, e passare in una buona stanza consolata da qualche fresco respiro, e non veder più quell'affettuosa creatura?».
     Debbo dire il vero? Io non avea coraggio di rispondere al quesito.
     Quando si vuole un po' di bene a qualcheduno, è indicibile il piacere che fanno le cose in apparenza più nulle. Spesso una parola della Zanze, un sorriso, una lagrima, una grazia del suo dialetto veneziano, l'agilità del suo braccio in parare col fazzoletto o col ventaglio le zanzare a sé ed a me, m'infondeano nell'animo una contentezza fanciullesca che durava tutto il giorno. Principalmente m'era dolce il vedere che le sue afflizioni scemassero parlandomi, che la mia pietà le fosse cara, che i miei consigli la persuadessero, e che il suo cuore s'infiammasse allorché ragionavamo di virtù e di Dio.
     «Quando abbiamo parlato insieme di religione,» diceva ella «io prego più volentieri e con più fede.»
     E talvolta troncando ad un tratto un ragionamento frivolo prendeva la Bibbia, l'apriva, baciava a caso un versetto, e volea quindi ch'io gliel traducessi e commentassi. E dicea:
     «Vorrei che ogni volta che rileggerà questo versetto, ella si ricordasse che v'ho impresso un bacio.»
     Non sempre per verità i suoi baci cadeano a proposito, massimamente se capitava aprire il Cantico de' Cantici. Allora, per non farla arrossire, io profittava della sua ignoranza del latino, e mi prevaleva di frasi in cui, salva la santità di quel volume, salvassi pur l'innocenza di lei, ambe le quali m'ispiravano altissima venerazione. In tali casi non mi permisi mai di sorridere. Era tuttavia non picciolo imbarazzo per me, quando alcune volte, non intendendo ella bene la mia pseudo-versione, mi pregava di tradurle il periodo parola per parola, e non mi lasciava passare fuggevolmente ad altro soggetto.
     Nulla è durevole quaggiù! La Zanze ammalò. Ne' primi giorni della sua malattia, veniva a vedermi lagnandosi di grandi dolori di capo. Piangeva, e non mi spiegava il motivo del suo pianto. Solo balbettò qualche lagnanza contro l'amante. «» uno scellerato,» diceva ella «ma Dio gli perdoni!»
     Per quanto io la pregassi di sfogare, come soleva, il suo cuore, non potei sapere ciò che a tal segno l'addolorasse.
     «Tornerò domattina» mi disse una sera. Ma il dì seguente il caffè mi fu portato da sua madre, gli altri giorni da' secondini, e la Zanze era gravemente inferma.
     I secondini mi dicean cose ambigue dell'amore di quella ragazza, le quali mi faceano drizzare i capelli. Una seduzione?
     Ma forse erano calunnie. Confesso che vi prestai fede, e fui conturbatissimo di tanta sventura. Mi giova tuttavia sperare che mentissero.
     Dopo più d'un mese di malattia, la poveretta fu condotta in campagna, e non la vidi più.
     » indicibile quant'io gemessi di questa perdita. Oh, come la mia solitudine divenne più orrenda! Oh come cento volte più amaro della sua lontananza erami il pensiero che quella buona creatura fosse infelice! Ella aveami tanto colla sua dolce compassione consolato nelle mie miserie; e la mia compassione era sterile per lei! Ma certo sarà stata persuasa ch'io la piangeva; ch'io avrei fatto non lievi sacrifizi per recarle, se fosse stato possibile, qualche conforto; ch'io non cesserei mai di benedirla e di far voti per la sua felicità!
     A' tempi della Zanze, le sue visite, benché pur sempre troppo brevi, rompendo amabilmente la monotonia del mio perpetuo meditare e studiare in silenzio, intessendo alle mie idee altre idee, eccitandomi qualche affetto soave, abbellivano veramente la mia avversità, e mi doppiavano la vita.
     Dopo, tornò la prigione ad essere per me una tomba. Fui per molti giorni oppresso di mestizia, a segno di non trovar più nemmeno alcun piacere nello scrivere. La mia mestizia era per altro tranquilla, in paragone delle smanie ch'io aveva per l'addietro provate. Voleva ciò dire ch'io fossi già più addimesticato coll'infortunio? più filosofo? più cristiano? ovvero solamente che quel soffocante calore della mia stanza valesse a prostrare persino le forze del mio dolore? Ah! non le forze del dolore! Mi sovviene ch'io lo sentiva potentemente nel fondo dell'anima, - e forse più potentemente, perché io non avea voglia d'espanderlo gridando e agitandomi.
     Certo il lungo tirocinio m'avea già fatto più capace di patire nuove afflizioni, rassegnandomi alla volontà di Dio. Io m'era sì spesso detto, essere viltà il lagnarsi, che finalmente sapea contenere le lagnanze vicine a prorompere, e vergognava che pur fossero vicine a prorompere.
     L'esercizio di scrivere i miei pensieri avea contribuito a rinforzarmi l'animo, a disingannarmi delle vanità, a ridurre la più parte de' ragionamenti a queste conclusioni: «V'è un Dio: dunque infallibile giustizia: dunque tutto ciò che avviene è ordinato ad ottimo fine: dunque il patire dell'uomo sulla terra è pel bene dell'uomo.»
     Anche la conoscenza della Zanze m'era stata benefica: m'avea raddolcito l'indole. Il suo soave applauso erami stato impulso a non ismentire per qualche mese il dovere ch'io sentiva incombere ad ogni uomo d'essere superiore alla fortuna, e quindi paziente. E qualche mese di costanza mi piegò alla rassegnazione.
     La Zanze mi vide due sole volte andare in collera. Una fu quella che già notai, pel cattivo caffè; l'altra fu nel caso seguente.
     Ogni due o tre settimane, m'era portata dal custode una lettera della mia famiglia; lettera passata prima per le mani della Commissione, e rigorosamente mutilata con cassature di nerissimo inchiostro. Un giorno accadde che, invece di cassarmi solo alcune frasi, tirarono l'orribile riga su tutta quanta la lettera, eccettuate le parole: «Carissimo Silvio» che stavano a principio, e il saluto ch'era in fine: «T'abbracciamo tutti di cuore».
     Fui così arrabbiato di ciò, che alla presenza della Zanze proruppi in urla, e maledissi non so chi. La povera fanciulla mi compatì, ma nello stesso tempo mi sgridò d'incoerenza a' miei principii. Vidi ch'ella aveva ragione, e non maledissi più alcuno.

CAPO XXXIII

Un giorno, uno de' secondini entrò nel mio carcere con aria misteriosa, e mi disse:
     «Quando v'era la siora Zanze... siccome il caffè le veniva portato da essa... e si fermava lungo tempo a discorrere... ed io temeva che la furbaccia esplorasse tutti i suoi secreti, signore...»
     «Non n'esplorò pur uno» gli dissi in collera «ed io, se ne avessi, non sarei gonzo da lasciarmeli trar fuori. Continuate.»
     «Perdoni, sa; non dico già ch'ella sia un gonzo, ma io della siora Zanze non mi fidava. Ed ora, signore, ch'ella non ha più alcuno che venga a tenerle compagnia... mi fido... di...»
     «Di che? Spiegatevi una volta.»
     «Ma giuri prima di non tradirmi.»
     «Eh, per giurare di non tradirvi, lo posso: non ho mai tradito alcuno.»
     «Dice dunque davvero, che giura, eh?»
     «Sì, giuro di non tradirvi. Ma sappiate, bestia che siete, che uno il quale fosse capace di tradire, sarebbe anche capace di violare un giuramento.»
     Trasse di tasca una lettera, e me la consegnò tremando, e scongiurandomi di distruggerla, quand'io l'avessi letta.
     «Fermatevi;» gli dissi aprendola «appena letta, la distruggerò in vostra presenza.»
     «Ma, signore, bisognerebbe ch'ella rispondesse, ed io non posso aspettare. Faccia con suo comodo. Soltanto mettiamoci in questa intelligenza. Quando ella sente venire alcuno, badi che se sono io, canterellerò sempre l'aria: «Sognai, mi gera un gato.» Allora ella non ha a temere di sorpresa, e può tenersi in tasca qualunque carta. Ma se non ode questa cantilena, sarà segno che o non sono io, o vengo accompagnato. In tal caso non si fidi mai di tenere alcuna carta nascosta, perché potrebb'esservi perquisizione, ma se ne avesse una, la stracci sollecitamente e la getti dalla finestra.»
     «State tranquillo: vedo che siete accorto, e lo sarò ancor io.»
     «Eppure ella m'ha dato della bestia.»
     «Fate bene a rimproverarmelo» gli dissi stringendogli la mano. «Perdonate.»
     Se n'andò, e lessi:
     «Sono...» e qui diceva il nome «uno dei vostri ammiratori: so tutta la vostra Francesca da Rimini a memoria. Mi arrestarono per...» e qui diceva la causa della sua cattura e la data «e darei non so quante libbre del mio sangue per avere il bene d'essere con voi, o d'avere almeno un carcere contiguo al vostro, affinché potessimo parlare insieme. Dacché intesi da Tremerello» così chiameremo il confidente «che voi, signore, eravate preso, e per qual motivo, arsi di desiderio di dirvi che nessuno vi compiange più di me, che nessuno vi ama più di me. Sareste voi tanto buono da accettare la seguente proposizione, cioè che alleggerissimo entrambi il peso della nostra solitudine, scrivendoci? Vi prometto da uomo d'onore, che anima al mondo da me nol saprebbe mai, persuaso che la stessa secretezza, se accettate, mi posso sperare da voi. - Intanto, perchè abbiate qualche conoscenza di me, vi darò un sunto della mia storia, ecc.»
     Seguiva il sunto.

CAPO XXXIV

Ogni lettore che abbia un po' d'immaginativa capirà agevolmente quanto un foglio simile debba essere elettrico per un povero prigioniero, massimamente per un prigioniero d'indole niente affatto selvatica, e di cuore amante. Il mio primo sentimento fu d'affezionarmi a quell'incognito, di commuovermi sulle sue sventure, d'esser pieno di gratitudine per la benevolenza ch'ei mi dimostrava. «Sì,» sclamai «accetto la tua proposizione, o generoso. Possano le mie lettere darti egual conforto a quel che mi daranno le tue, a quel che già traggo dalla tua prima!»
     E lessi e rilessi quella lettera con un giubilo da ragazzo, e benedissi cento volte chi l'avea scritta, e pareami ch'ogni sua espressione rivelasse un'anima schietta e nobile.
     Il sole tramontava; era l'ora della mia preghiera. Oh come io sentiva Dio! com'io lo ringraziava di trovar sempre nuovo modo di non lasciar languire le potenze della mia mente e del mio cuore! Come mi si ravvivava la memoria di tutti i preziosi suoi doni!
     Io era ritto sul finestrone, le braccia tra le sbarre, le mani incrocicchiate: la chiesa di San Marco era sotto di me, una moltitudine prodigiosa di colombi indipendenti amoreggiava, svolazzava, nidificava su quel tetto di piombo: il più magnifico cielo mi stava dinanzi: io dominava tutta quella parte di Venezia ch'era visibile dal mio carcere: un romore lontano di voci umane mi feriva dolcemente l'orecchio. In quel luogo infelice ma stupendo, io conversava con Colui, gli occhi soli del quale mi vedeano, gli raccomandava mio padre, mia madre, e ad una ad una tutte le persone a me care e sembravami ch'ei mi rispondesse: «T'affidi la mia bontà!» ed io esclamava: «Si, la tua bontà m'affida!».
     E chiudea la mia orazione intenerito, confortato, e poco curante delle morsicature che frattanto m'aveano allegramente dato le zanzare.
     Quella sera, dopo tanta esaltazione, la fantasia cominciando a calmarsi, le zanzare cominciando a divenirmi insoffribili, il bisogno d'avvolgermi faccia e mani tornando a farmisi sentire un pensiero volgare e maligno m'entrò ad un tratto nel capo, mi fece ribrezzo, volli cacciarlo e non potei.
     Tremerello m'aveva accennato un infame sospetto, intorno la Zanze: che fosse un'esploratrice de' miei secreti, ella! quell'anima candida! che nulla sapeva di politica! che nulla volea saperne!
     Di lei m'era impossibile dubitare; ma mi chiesi: «Ho io la stessa certezza intorno Tremerello? E se quel mariuolo fosse stromento d'indagini subdole? Se la lettera fosse fabbricata da chi sa chi, per indurmi a fare importanti confidenze al novello amico? Forse il preteso prigione che mi scrive, non esiste neppure; - forse esiste, ed è un perfido che cerca d'acquistare secreti, per far la sua salute rivelandoli; - forse è un galantuomo, sì, ma il perfido è Tremerello, che vuol rovinarci tutti e due per guadagnare un'appendice al suo salario.»
     Oh brutta cosa, ma troppo naturale a chi geme in carcere, il temere dappertutto inimicizia e frode!
     Tai dubbi m'angustiavano, m'avvilivano. No; per la Zanze io non avea mai potuto averli un momento! Tuttavia, dacché Tremerello avea scagliata quella parola riguardo a lei, un mezzo dubbio pur mi crucciava, non sovr'essa, ma su coloro che la lasciavano venire nella mia stanza. Le avessero, per proprio zelo o per volontà superiore, dato l'incarico di esploratrice? Oh, se ciò fosse stato, come furono mal serviti!
     Ma circa la lettera dell'incognito, che fare? Appigliarsi ai severi, gretti consigli della paura che s'intitola prudenza? Rendere la lettera a Tremerello, e dirgli: «Non voglio rischiare la mia pace?» E se non vi fosse alcuna frode? E se l'incognito fosse un uomo degnissimo della mia amicizia, degnissimo ch'io rischiassi alcunché per temprargli le angosce della solitudine? Vile! tu stai forse a due passi dalla morte, la feral sentenza può pronunciarsi da un giorno all'altro, e ricuseresti di fare ancora un atto d'amore? Rispondere, rispondere io debbo! Ma venendo per disgrazia a scoprirsi questo carteggio, e nessuno potesse pure in coscienza farcene delitto, non è egli vero tuttavia che un fiero castigo cadrebbe sul povero Tremerello? Questa considerazione non è ella bastante ad impormi come assoluto dovere il non imprendere carteggio clandestino?

CAPO XXXV

Fui agitato tutta sera, non chiusi occhio la notte, e fra tante incertezze non sapea che risolvere.
     Balzai dal letto prima dell'alba, salii sul finestrone, e pregai. Nei casi ardui bisogna consultarsi fiducialmente con Dio, ascoltare le sue ispirazioni, e attenervisi.
     Così feci, e dopo lunga preghiera, discesi, scossi le zanzare, m'accarezzai colle mani le guance morsicate, ed il partito era preso: esporre a Tremerello il mio timore che da quel carteggio potesse a lui tornar danno; rinunciarvi, s'egli ondeggiava; accettare, se i terrori non vinceano lui.
     Passeggiai, finché intesi canterellare: «Sognai, mi gera an gato, E ti me carezzevi». Tremerello mi portava il caffè.
     Gli dissi il mio scrupolo, non risparmiai parola per mettergli paura. Lo trovai saldo nella volontà di servire, diceva egli, due così compiti signori. Ciò era assai in opposizione colla faccia di coniglio ch'egli aveva e col nome di Tremerello che gli davamo. Ebbene, fui saldo anch'io.
     «Io vi lascerò il mio vino;» gli dissi «fornitemi la carta necessaria a questa corrispondenza, e fidatevi che se odo sonare le chiavi senza la cantilena vostra, distruggerò sempre in un attimo qualunque oggetto clandestino.»
     «Eccole appunto un foglio di carta; gliene darò sempre, finché vuole, e riposo perfettamente sulla sua accortezza.»
     Mi bruciai il palato per ingoiar presto il caffè, Tremerello se ne andò, e mi posi a scrivere.
     Faceva io bene? Era, la risoluzione ch'io prendeva, ispirata veramente da Dio? Non era piuttosto un trionfo del mio naturale ardimento, del mio anteporre ciò che mi piace a penosi sacrifizi? un misto d'orgogliosa compiacenza per la stima che l'incognito m'attestava e di timore di parere un pusillanime, s'io preferissi un prudente silenzio ad una corrispondenza alquanto rischiosa?
     Come sciogliere questi dubbi? Io li esposi candidamente al concaptivo rispondendogli, e soggiunsi nondimeno essere mio avviso, che quando sembra a taluno d'operare con buone ragioni e senza manifesta ripugnanza della coscienza, ei non debba più paventare di colpa. Egli tuttavia riflettesse parimente con tutta la serietà all'assunto che imprendevamo, e mi dicesse schietto con qual grado di tranquillità o d'inquietudine vi si determinasse. Che, se per nuove riflessioni ei giudicava l'assunto troppo temerario, facessimo lo sforzo di rinunciare al conforto promessoci dal carteggio, e ci contentassimo d'esserci conosciuti collo scambio di poche parole ma indelebili e mallevadrici di alta amicizia.
     Scrissi quattro pagine caldissime del più sincero affetto, accennai brevemente il soggetto della mia prigionia, parlai con effusione di cuore della mia famiglia e d'alcuni altri miei particolari, e mirai a farmi conoscere nel fondo dell'anima.
     A sera la mia lettera fu portata. Non avendo dormito la notte precedente, era stanchissimo; il sonno non si fece invocare, e mi svegliai la mattina seguente ristorato, lieto, palpitante al dolce pensiero d'aver forse a momenti la risposta dell'amico.

CAPO XXXVI

La risposta venne col caffè. Saltai al collo di Tremerello, e gli dissi con tenerezza: «Iddio ti rimuneri di tanta carità!». I miei sospetti su lui e sull'incognito s'erano dissipati, non so né anche dir perché; perché m'erano odiosi; perché avendo la cautela di non parlar mai follemente di politica, m'apparivano inutili; perché mentre sono ammiratore dell'ingegno di Tacito, ho tuttavia pochissima fede nella giustezza del taciteggiare, del veder molto le cose in nero.
     Giuliano (così piacque allo scrivente di firmarsi) cominciava la lettera con un preambolo di gentilezze, e si diceva senza alcuna inquietudine sull'impreso carteggio. Indi scherzava dapprima moderatamente sul mio esitare, poi lo scherzo acquistava alcun che di pungente. Alfine, dopo un eloquente elogio sulla sincerità, mi dimandava perdono se non potea nascondermi il dispiacere che avea provato, ravvisando in me, diceva egli, una certa scrupolosa titubanza, una certa cristiana sottigliezza di coscienza, che non può accordarsi con vera filosofia.
     «Vi stimerò sempre» soggiungeva egli «quand'anche non possiamo accordarci su ciò; ma la sincerità che professo mi obbliga a dirvi che non ho religione, che le abborro tutte, che prendo per modestia il nome di Giuliano perché quel buon imperatore era nemico de' Cristiani, ma che realmente io vado molto più in là di lui. Il coronato Giuliano credeva in Dio, ed aveva certe sue bigotterie. Io non ne ho alcuna, non credo in Dio, pongo ogni virtù nell'amare la verità e chi la cerca, e nell'odiare chi non mi piace.»
     E di questa foggia continuando, non recava ragioni di nulla, inveiva a dritto e a rovescio contro il Cristianesimo, lodava con pomposa energia l'altezza della virtù irreligiosa, e prendeva con istile parte serio e parte faceto a far l'elogio dell'imperatore Giuliano per la sua apostasia e pel filantropico tentativo di cancellare dalla terra tutte le tracce del Vangelo.
     Temendo quindi d'aver troppo urtate le mie opinioni, tornava a dimandarmi perdono e a declamare contro la tanto frequente mancanza di sincerità. Ripeteva il suo grandissimo desiderio di stare in relazione con me, e mi salutava.
     Una poscritta diceva: «Non ho altri scrupoli, se non di non essere schietto abbastanza. Non posso quindi tacervi di sospettare che il linguaggio cristiano che teneste meco sia finzione. Lo bramo ardentemente. In tal caso gettate la maschera; v'ho dato l'esempio».
     Non saprei dire l'effetto strano che mi fece quella lettera. Io palpitava come un innamorato ai primi periodi: una mano di ghiaccio sembrò quindi stringermi il cuore. Quel sarcasmo sulla mia coscienziosità m'offese. Mi pentii d'aver aperta una relazione con siffatt'uomo: io che dispregio tanto il cinismo! io che lo credo la più infilosofica, la più villana di tutte le tendenze! io, a cui l'arroganza impone si poco!
     Letta l'ultima parola, pigliai la lettera fra il pollice e l'indice d'una mano, e il pollice e l'indice dell'altra, ed alzando la mano sinistra tirai giù rapidamente la destra, cosicché ciascuna delle due mani rimase in possesso d'una mezza lettera.

CAPO XXXVII

Guardai que' due brani, e meditai un istante sull'incostanza delle cose umane e sulla falsità delle loro apparenze. «Poc'anzi tanta brama di questa lettera, ed ora la straccio per isdegno! Poc'anzi tanto presentimento di futura amicizia con questo compagno di sventura, tanta persuasione di mutuo conforto, tanta disposizione a mostrarmi con lui affettuosissimo, ed ora lo chiamo insolente!»
     Stesi i due brani un sull'altro, e collocato di nuovo come prima l'indice e il pollice di una mano, e l'indice e il pollice dell'altra, tornai ad alzare la sinistra ed a tirar giù rapidamente la destra.
     Era per replicare la stessa operazione, ma uno dei quarti mi cadde di mano; mi chinai per prenderlo, e nel breve spazio di tempo del chinarmi e del rialzarmi, mutai proposito e m'invogliai di rileggere quella superba scritta.
     Siedo, fo combaciare i quattro pezzi sulla Bibbia e rileggo. Li lascio in quello stato, passeggio, rileggo ancora ed intanto penso:
     «S'io non gli rispondo, ei giudicherà ch'io sia annichilato di confusione, ch'io non osi ricomparire al cospetto di tanto Ercole. Rispondiamogli, facciamogli vedere che non temiamo il confronto delle dottrine. Dimostriamogli con buona maniera non esservi alcuna viltà nel maturare i consigli, nell'ondeggiare quando si tratta d'una risoluzione alquanto pericolosa, e più pericolosa per altri che per noi. Impari che il vero coraggio non istà nel ridersi della coscienza, che la vera dignità non ístà nell'orgoglio. Spieghiamogli la ragionevolezza del Cristianesimo e l'insussistenza dell'incredulità. - E finalmente se codesto Giuliano si manifesta d'opinioni così opposte alle mie, se non mi risparmia pungenti sarcasmi, se degna così poco di cattivarmi, non è ciò prova almeno ch'ei non è una spia? - Se non che non potrebb'egli essere un raffinamento d'arte, quel menar ruvidamente la frusta addosso al mio amor proprio? - Eppur no; non posso crederlo. Sono un maligno che, perché mi sento offeso da quei temerarii scherzi, vorrei persuadermi che chi li scagliò non può essere che il più abbietto degli uomini. Malignità volgare, che condannai mille volte in altri, via dal mio cuore! No, Giuliano è quel che è, e non più, è un insolente, e non una spia. - Ed ho io veramente il diritto di dare l'odioso nome d'insolenza a ciò ch'egli reputa sincerità? - Ecco la tua umiltà, o ipocrita! Basta che uno, per errore di mente, sostenga opinioni false e derida la tua fede, subito t'arroghi di vilipenderlo. - Dio sa se questa umiltà rabbiosa e questo zelo malevolo, nel petto di me cristiano, non è peggiore dell'audace sincerità di quell'incredulo! - Forse non gli manca se non un raggio della grazia, perchè quel suo energico amore del vero si muti in religione più solida della mia. - Non farei io meglio di pregare per lui, che d'adirarmi e di suppormi migliore? - Chi sa, che mentre io stracciava furentemente la sua lettera, ei non rileggesse con dolce amorevolezza la mia, e si fidasse tanto della mia bontà da credermi incapace d'offendermi delle sue schiette parole? - Qual sarebbe il più iniquo dei due, uno che ama e dice: 'Non sono cristiano', ovvero uno che dice: 'Son cristiano' e non ama? - » cosa difficile conoscere un uomo, dopo avere vissuto con lui lunghi anni; ed io vorrei giudicare costui da una lettera? Fra tante possibilità, non havvi egli quella che, senza confessarlo a sé medesimo, ei non sia punto tranquillo del suo ateismo, e che indi mi stuzzichi a combatterlo, colla secreta speranza di dover cedere? Oh fosse pure! Oh gran Dio, in mano di cui tutti gli stromenti più indegni possono essere efficaci, sceglimi, sceglimi a quest'opera! Detta a me tai potenti e sante ragioni che convincano quell'infelice! che lo traggano a benedirti e ad imparare che, lungi da te, non v'è virtù la quale non sia contraddizione!»

CAPO XXXVIII

Stracciai più minutamente, ma senza residuo di collera, i quattro pezzi di lettera, andai alla finestra, stesi la mano, e mi fermai a guardare la sorte dei diversi bocconcini di carta in balia del vento. Alcuni si posarono sui piombi della chiesa, altri girarono lungamente per aria, e discesero a terra. Vidi che andavano tanto dispersi, da non esservi pericolo che alcuno li raccogliesse e ne capisse il mistero.
     Scrissi poscia a Giuliano, e presi tutta la cura per non essere e per non apparire indispettito.
     Scherzai sul suo timore ch'io portassi la sottigliezza di coscienza ad un grado non accordabile colla filosofia, e dissi che sospendesse almeno intorno a ciò i suoi giudizi. Lodai la professione ch'ei faceva di sincerità, l'assicurai che m'avrebbe trovato eguale a sé in questo riguardo, e soggiunsi che per dargliene prova io m'accingeva a difendere il Cristianesimo; «ben persuaso» diceva io «che, come sarò sempre pronto ad udire amichevolmente tutte le vostre opinioni, così abbiate la liberalità d'udire in pace le mie».
     Quella difesa, io mi proponeva di farla a poco a poco, ed intanto la incominciava, analizzando con fedeltà l'essenza del Cristianesimo: - culto di Dio, spoglio di superstizioni, - fratellanza fra gli uomini, - aspirazione perpetua alla virtù, - umiltà senza bassezza, - dignità senza orgoglio, - tipo, un uomo-Dio! Che di più filosofico e di più grande?
     Intendeva poscia di dimostrare, come tanta sapienza era più o meno debolmente trasparsa a tutti coloro che coi lumi della ragione aveano cercato il vero, ma non s'era mai diffusa nell'universale: e come, venuto il divin Maestro sulla terra, diede segno stupendo di sé, operando coi mezzi umanamente più deboli quella diffusione. Ciò che sommi filosofi mai non poterono, l'abbattimento dell'idolatria, e la predicazione generale della fratellanza, s'eseguisce con pochi rozzi messaggeri. Allora l'emancipazione degli schiavi diviene ognor più frequente, e finalmente appare una civiltà senza schiavi, stato di società che agli antichi filosofi pareva impossibile.
     Una rassegna della storia, da Gesù Cristo in qua, dovea per ultimo dimostrare come la religione da lui stabilita s'era sempre trovata adattata a tutti i possibili gradi d'incivilimento. Quindi essere falso che, l'incivilimento continuando a progredire, il Vangelo non sia più accordabile con esso.
     Scrissi a minutissimo carattere ed assai lungamente, ma non potei tuttavia andar molto oltre; ché mi mancò la carta. Lessi e rilessi quella mia introduzione, e mi parve ben fatta. Non v'era pure una frase di risentimento sui sarcasmi di Giuliano, e le espressioni di benevolenza abbondavano, ed aveale dettate il cuore già pienamente ricondotto a tolleranza.
     Spedii la lettera, ed il mattino seguente ne aspettava con ansietà la risposta.
     Tremerello venne, e mi disse:
     «Quel signore non ha potuto scrivere, ma la prega di continuare il suo scherzo.»
     «Scherzo?» sclamai. «Eh, che non avrà detto scherzo! avrete capito male.»
     Tremerello si strinse nelle spalle «Avrò capito male».
     «Ma vi par proprio che abbia detto scherzo?»
     «Come mi pare di sentire in questo punto i colpi di San Marco.» (Sonava appunto il campanone.) Bevvi il caffè e tacqui.
     «Ma ditemi: avea quel signore già letta tutta la mia lettera?»
     «Mi figuro di sì; perché rideva, rideva come un matto, e facea di quella lettera una palla, e la gettava per aria, e quando gli dissi che non dimenticasse poi di distruggerla, la distrusse subito.»
     «Va benissimo.»
     E restituii a Tremerello la chicchera, dicendogli che si conosceva che il caffè era stato fatto dalla siora Bettina.
     «L'ha trovato cattivo?»
     «Pessimo.»
     «Eppur l'ho fatto io, e l'assicuro che l'ho fatto carico, e non v'erano fondi.»
     «Non avrò forse la bocca buona.»

CAPO XXXIX

Passeggiai tutta mattina fremendo. «Che razza d'uomo è questo Giuliano? Perché chiamare la mia lettera uno scherzo? Perché ridere e giocare alla palla con essa? Perché non rispondermi pure una riga? Tutti gl'increduli son così! Sentendo la debolezza delle loro opinioni, se alcuno s'accinge a confutarle non ascoltano, ridono, ostentano una superiorità d'ingegno la quale non ha più bisogno d'esaminar nulla. Sciagurati! E quando mai vi fu filosofia senza esame, senza serietà? Se è vero che Democrito ridesse sempre, egli era un buffone! Ma ben mi sta: perché imprendere questa corrispondenza? Ch'io mi facessi illusione un momento, era perdonabile. Ma quando vidi che colui insolentiva, non fui io uno stolto di scrivergli ancora?»
     Era risoluto di non più scrivergli. A pranzo, Tremerello prese il mio vino, se lo versò in un fiasco, e mettendoselo in saccoccia:
     «Oh, mi accorgo» disse «che ho qui della carta da darle.» E me la porse.
     Se n'andò; ed io guardando quella carta bianca mi sentiva venire la tentazione di scrivere un'ultima volta a Giuliano, di congedarlo con una buona lezione sulla turpitudine dell'insolenza.
     «Bella tentazione!» dissi poi «rendergli disprezzo per disprezzo! fargli odiare vieppiù il Cristianesimo, mostrandogli in me cristiano impazienza ed orgoglio! - No, ciò non va. Cessiamo affatto il carteggio. - E se lo cesso così asciuttamente, non dirà colui del pari, che impazienza ed orgoglio mi vinsero? - Conviene scrivergli ancora una volta, e senza fiele. - Ma se posso scrivere senza fiele, non sarebbe meglio non darmi per inteso delle sue risate e del nome di scherzo ch'egli ha gratificato alla mia lettera? Non sarebbe meglio continuar buonamente la mia apologia del Cristianesimo?»
     Ci pensai un poco, e poi m'attenni a questo partito.
     La sera spedii il mio piego, ed il mattino seguente ricevetti alcune righe di ringraziamento, molto fredde, però senza espressioni mordaci, ma anche senza il minimo cenno d'approvazione né d'invito a proseguire.
     Tal biglietto mi spiacque. Nondimeno fermai di non desistere sino al fine.
     La mia tesi non potea trattarsi in breve, e fu soggetto di cinque o sei altre lunghe lettere, a ciascuna delle quali mi veniva risposto un laconico ringraziamento, accompagnato da qualche declamazione estranea al tema, ora imprecando i suoi nemici, ora ridendo d'averli imprecati, e dicendo esser naturale che i forti opprimano i deboli, e non rincrescergli altro che di non essere forte, ora confidandomi i suoi amori, e l'impero che questi esercitavano sulla sua tormentata immaginativa.
     Nondimeno, all'ultima mia lettera sul Cristianesimo, ei diceva che mi stava apparecchiando una lunga risposta. Aspettai più d'una settimana, ed intanto ei mi scriveva ogni giorno di tutt'altro, e per lo più d'oscenità.
     Lo pregai di ricordarsi la risposta di cui mi era debitore, e gli raccomandai di voler applicare il suo ingegno a pesar veramente tutte le ragioni ch'io gli avea portate.
     Mi rispose alquanto rabbiosamente, prodigandosi gli attributi di filosofo, d'uomo sicuro, d'uomo che non avea bisogno di pesare tanto per capire che le lucciole non erano lanterne. E tornò a parlare allegramente d'avventure scandalose.

CAPO XL

Io pazientava per non farmi dare del bigotto e dell'intollerante, e perché non disperava che, dopo quella febbre di erotiche buffonerie, venisse un periodo di serietà. Intanto gli andava manifestando la mia disapprovazione alla sua irriverenza per le donne, al suo profano modo di fare all'amore, e compiangeva quelle infelici ch'ei mi diceva essere state sue vittime.
     Ei fingeva di creder poco alla mia disapprovazione, e ripeteva «Checché borbottiate d'immoralità, sono certo di divertirvi co' miei racconti; - tutti gli uomini amano il piacere come io, ma non hanno la franchezza di parlarne senza velo; ve ne dirò tante che v'incanterò, e vi sentirete obbligato in coscienza d'applaudirmi».
     Ma di settimana in settimana, ei non desisteva mai da queste infamie, ed io (sperando sempre ad ogni lettera di trovare altro tema, e lasciandomi attrarre dalla curiosità) leggeva tutto, e l'anima mia restava - non già sedotta - ma pur conturbata, allontanata da pensieri nobili e santi. Il conversare cogli uomini degradati degrada, se non si ha una virtù molto maggiore della comune, molto maggiore della mia.
     «Eccoti punito» diceva io a me stesso «della tua presunzione! Ecco ciò che si guadagna a voler fare il missionario senza la santità da ciò!»
     Un giorno mi risolsi a scrivergli queste parole:
     «Mi sono sforzato finora di chiamarvi ad altri soggetti, e voi mi mandate sempre novelle che vi dissi schiettamente dispiacermi. Se v'aggrada che favelliamo di cose più degne continueremo la corrispondenza, altrimenti tocchiamoci la mano, e ciascuno se ne stia con sé.»
     Fui per due giorni senza risposta, e dapprima ne gioii. «Oh benedetta solitudine!» andava sclamando «quanto meno amara tu sei d'una conversazione inarmonica e snobilitante! Invece di crucciarmi leggendo impudenze, invece di faticarmi invano ad oppor loro l'espressione di aneliti che onorino l'umanità, tornerò a conversare con Dio, colle care memorie della mia famiglia e de' miei veri amici. Tornerò a leggere maggiormente la Bibbia, a scrivere i miei pensieri sulla tavola studiando il fondo del mio cuore e procacciando di migliorarlo, a gustare le dolcezze d'una melanconia innocente, mille volte preferibili ad immagini liete ed inique.»
     Tutte le volte che Tremerello entrava nel mio carcere mi diceva:
     «Non ho ancor risposta.»
     «Va bene» rispondeva io.
     Il terzo giorno mi disse:
     «Il signor N.N. è mezzo ammalato.»
     «Che ha?»
     «Non lo dice, ma è sempre steso sul letto, non mangia, non bee, ed è di mal umore.»
     Mi commossi, pensando ch'egli pativa e non aveva alcuno che lo confortasse.
     Mi sfuggì dalle labbra, o piuttosto dal cuore:
     «Gli scriverò due righe.»
     «Le porterò stassera» disse Tremerello; e se ne andò.
     Io era alquanto imbarazzato, mettendomi al tavolino. «Fo io bene a ripigliare il carteggio? Non benediceva io dianzi la solitudine come un tesoro riacquistato? Che incostanza è dunque la mia! - Eppure quell'infelice non mangia, non beve; sicuramente è ammalato. » questo il momento d'abbandonarlo? L'ultimo mio viglietto era aspro: avrà contribuito ad affliggerlo. Forse, ad onta dei nostri diversi modi di sentire, ei non avrebbe mai disciolta la nostra amicizia. Il mio viglietto gli sarà sembrato più malevolo che non era: ei l'avrà preso per un assoluto sprezzante congedo.»

CAPO XLI

Scrissi così:
     «Sento che non istate bene, e me ne duole vivamente. Vorrei di tutto cuore esservi vicino, e prestarvi tutti gli uffici d'amico. Spero che la vostra poco buona salute sarà stata l'unico motivo del vostro silenzio, da tre giorni in qua. Non vi sareste già offeso del mio viglietto dell'altro di? Lo scrissi, v'assicuro, senza la minima malevolenza, e col solo scopo di trarvi a più serii soggetti di ragionamento. Se lo scrivere vi fa male, mandatemi soltanto nuove esatte della vostra salute: io vi scriverò ogni giorno qualcosetta per distrarvi, e perché vi sovvenga che vi voglio bene.»
     Non mi sarei mai aspettato la lettera ch'ei mi rispose. Cominciava così:
     «Ti disdico l'amicizia; se non sai che fare della mia, io non so che fare della tua. Non sono uomo che perdoni offese, non sono uomo che, rigettato una volta, ritorni. Perché mi sai infermo, ti riaccosti ipocritamente a me, sperando che la malattia indebolisca il mio spirito e mi tragga ad ascoltare le tue prediche...» E andava innanzi di questo modo, vituperandomi con violenza, schernendomi, ponendo in caricatura tutto ciò ch'io gli avea detto di religione e di morale, protestando di vivere e di morire sempre lo stesso, cioè col più grand'odio e col più gran disprezzo contro tutte le filosofie diverse dalla sua.
     Restai sbalordito!
     «Le belle conversioni ch'io fo!» dicev'io con dolore ed inorridendo. «Dio m'è testimonio se le mie intenzioni non erano pure! - No, queste ingiurie non le ho meritate! - Ebbene, pazienza; è un disinganno di più. Tal sia di colui, se s'immagina offese per aver la voluttà di non perdonarle! Più di quel che ho fatto non sono obbligato di fare.»
     Tuttavia, dopo alcuni giorni il mio sdegno si mitigò, e pensai che una lettera frenetica poteva essere stato frutto d'un esaltamento non durevole. «Forse ei già se ne vergogna» diceva io «ma è troppo altero da confessare il suo torto. Non sarebbe opera generosa, or ch'egli ha avuto tempo di calmarsi, lo scrivergli ancora?»
     Mi costava assai far tanto sacrifizio d'amor proprio, ma lo feci. Chi s'umilia senza bassi fini, non si degrada, qualunque ingiusto spregio gliene torni.
     Ebbi per risposta una lettera meno violenta, ma non meno insultante. L'implacato mi diceva ch'egli ammirava la mia evangelica moderazione.
     «Or dunque ripigliamo pure» proseguiva egli «la nostra corrispondenza; ma parliamo chiaro. Noi non ci amiamo. Ci scriveremo per trastullare ciascuno se stesso, mettendo sulla carta liberamente tutto ciò che ci viene in capo: voi le vostre immaginazioni serafiche ed io le mie bestemmie; voi le vostre estasi sulla dignità dell'uomo e della donna, io l'ingenuo racconto delle mie profanazioni; sperando io di convertir voi, e voi di convertir me. Rispondetemi se vi piaccia il patto.»
     Risposi: «Il vostro non è un patto, ma uno scherno. Abbondai in buon volere con voi. La coscienza non mi obbliga più ad altro che ad augurarvi tutte le felicità per questa e per l'altra vita».
     Così finì la mia clandestina relazione con quell'uomo - chi sa? - forse più inasprito dalla sventura e delirante per disperazione, che malvagio.

CAPO XLII

Benedissi un'altra volta davvero la solitudine, ed i miei giorni passarono di nuovo per alcun tempo senza vicende.
     Finì la state; nell'ultima metà di settembre, il caldo scemava. Ottobre venne; io mi rallegrava allora d'avere una stanza che nel verno doveva esser buona. Ecco una mattina il custode che mi dice avere ordine di mutarmi di carcere.
     «E dove si va?»
     «A pochi passi, in una camera più fresca.»
     «E perché non pensarci quand'io moriva dal caldo, e l'aria era tutta zanzare, ed il letto era tutto cimici?»
     «Il comando non è venuto prima.»
     «Pazienza, andiamo.»
     Bench'io avessi assai patito in quel carcere, mi dolse di lasciarlo; non soltanto perché nella fredda stagione doveva essere ottimo, ma per tanti perché. Io v'avea quelle formiche, ch'io amava e nutriva con sollecitudine, se non fosse espressione ridicola, direi quasi paterna. Da pochi giorni quel caro ragno di cui parlai, era, non so per qual motivo, emigrato; ma io diceva: «Chi sa che non si ricordi di me e non ritorni? Ed or che me ne vado, ritornerà forse, e troverà la prigione vota, o se vi sarà qualch'altro ospite, potrebbe essere un nemico de' ragni, e raschiar giù colla pantofola quella bella tela, e schiacciare la povera bestia! Inoltre quella trista prigione non m'era stata abbellita dalla pietà della Zanze? A quella finestra s'appoggiava sì spesso, e lasciava cadere generosamente i bricioli de' buzzolai alle mie formiche. Lì solea sedere; qui mi fece il tal racconto; qui il tal altro; là s'inchinava sul mio tavolino e le sue lagrime vi grondarono! «.
     Il luogo ove mi posero era pur sotto i Piombi, ma a tramontana e ponente, con due finestre, una di qua, l'altra di là; soggiorno di perpetui raffreddori, e d'orribile ghiaccio ne' mesi rigidi.
     La finestra a ponente era grandissima; quella a tramontana era piccola ed alta, al disopra del mio letto.
     M'affacciai prima a quella, e vidi che metteva verso il palazzo del patriarca. Altre prigioni erano presso la mia, in un'ala di poca estensione a destra, ed in uno sporgimento di fabbricato che mi stava dirimpetto. In quello sporgimento stavano due carceri, una sull'altra. La inferiore aveva un finestrone enorme, pel quale io vedea dentro passeggiare un uomo signorilmente vestito. Era il signor Caporali di Cesena. Questi mi vide, mi fece qualche segno, e ci dicemmo i nostri nomi.
     Volli quindi esaminare dove guardasse l'altra mia finestra. Posi il tavolino sul letto e sul tavolino una sedia, m'arrampicai sopra, e vidi essere a livello d'una parte del tetto del palazzo. Al di là del palazzo appariva un bel tratto della città e della laguna.
     Mi fermai a considerare quella bella veduta, e udendo che s'apriva la porta, non mi mossi. Era il custode, il quale scorgendomi lassù arrampicato, dimenticò ch'io non poteva passare come un sorcio attraverso le sbarre, pensò ch'io tentassi di fuggire, e nel rapido istante del suo turbamento saltò sul letto, ad onta di una sciatica che lo tormentava, e m'afferrò per le gambe, gridando come un'aquila.
     «Ma non vedete,» gli dissi «o smemorato, che non si può fuggire per causa di queste sbarre? Non capite che salii per sola curiosità?»
     «Vedo, sior, vedo, capisco, ma la cali giù, le digo, la cali, queste le son tentazion de scappar.»
     E mi convenne discendere, e ridere.

CAPO XLIII

Alle finestre delle prigioni laterali conobbi sei altri detenuti per cose politiche.
     Ecco dunque che, mentre io mi disponeva ad una solitudine maggiore che in passato, io mi trovo in una specie di mondo. A principio m'increbbe, sia che il lungo vivere romito avesse già fatto alquanto insocievole l'indole mia, sia che il dispiacente esito della mia conoscenza con Giuliano mi rendesse diffidente.
     Nondimeno quel poco di conversazione che prendemmo a fare, parte a voce e parte a segni, parvemi in breve un beneficio, se non come stimolo ad allegrezza, almeno come divagamento. Della mia relazione con Giuliano non feci motto con alcuno. C'eravamo egli ed io dato parola d'onore che il segreto resterebbe sepolto in noi. Se ne favello in queste carte, gli è perché, sotto gli occhi di chiunque andassero, gli sarebbe impossibile indovinare chi, di tanti che giacevano in quelle carceri, fosse Giuliano.
     Alle nuove mentovate conoscenze di concaptivi s'aggiunse un'altra che mi fu pure dolcissima
     Dalla finestra grande io vedeva, oltre lo sporgimento di carceri che mi stava in faccia, una estensione di tetti, ornata di camini, d'altane, di campanili, di cupole, la quale andava a perdersi colla prospettiva del mare e del cielo. Nella casa più vicina a me, ch'era un'ala del patriarcato, abitava una buona famiglia, che acquistò diritti alla mia riconoscenza mostrandomi coi suoi saluti la pietà ch'io le ispirava.
     Un saluto, una parola d'amore agl'infelici, è una gran carità!
     Cominciò colà, da una finestra, ad alzare le sue manine verso me un ragazzetto di nove o dieci anni, e l'intesi gridare:
     «Mamma, mamma, han posto qualcheduno lassù ne' Piombi. O povero prigioniero, chi sei?»
     «Io sono Silvio Pellico» risposi.
     Un altro ragazzo più grandicello corse anch'egli alla finestra, e gridò:
     «Tu sei Silvio Pellico?»
     «Sì, e voi cari fanciulli?»
     «Io mi chiamo Antonio S..., e mio fratello Giuseppe.»
     Poi si voltava indietro, e diceva: «Che cos'altro debbo dimandargli?».
     Ed una donna, che suppongo essere stata lor madre, e stava mezzo nascosta, suggeriva parole gentili a que' cari figliuoli, ed essi le diceano, ed io ne li ringraziava colla più viva tenerezza.
     Quelle conversazioni erano piccola cosa, e non bisognava abusarne per non far gridare il custode, ma ogni giorno ripetevansi con mia grande consolazione, all'alba, a mezzodì e a sera. Quando accendevano il lume, quella donna chiudeva la finestra, i fanciulli gridavano: «Buona notte, Silvio!» ed ella, fatta coraggiosa dall'oscurità, ripetea con voce commossa: «Buona notte, Silvio! coraggio!».
     Quando que' fanciulli faceano colezione o merenda, mi diceano:
     «Oh se potessimo darti del nostro caffè e latte! Oh se potessimo darti de' nostri buzzolai! Il giorno che andrai in libertà sovvengati di venirci a vedere. Ti daremo dei buzzolai belli e caldi, e tanti baci!»

CAPO XLIV

Il mese d'ottobre era la ricorrenza del più brutto de' miei anniversari Io era stato arrestato il 13 di esso mese dell'anno antecedente. Parecchie tristi memorie mi ricorrevano inoltre in quel mese. Due anni prima, in ottobre, s'era per funesto accidente annegato nel Ticino un valentuomo ch'io molto onorava. Tre anni prima, in ottobre, s'era involontariamente ucciso con uno schioppo Odoardo Briche, giovinetto ch'io amava quasi fosse stato mio figlio. A' tempi della mia prima gioventù, in ottobre, un'altra grave afflizione m'avea colpito.
     Bench'io non sia superstizioso, il rincontrarsi fatalmente in quel mese ricordanze così infelici, mi rendea tristissimo.
     Favellando dalla finestra con que' fanciulli e co' miei concaptivi, io mi fingea lieto, ma appena rientrato nel mio antro un peso inenarrabile di dolore mi piombava sull'anima.
     Prendea la penna per comporre qualche verso o per attendere ad altra cosa letteraria, ed una forza irresistibile parea costringermi a scrivere tutt'altro. Che? lunghe lettere ch'io non poteva mandare; lunghe lettere alla mia cara famiglia, nelle quali io versava tutto il mio cuore. Io le scriveva sul tavolino, e poi le raschiava. Erano calde espressioni di tenerezza, e rimembranze della felicità ch'io aveva goduto presso genitori, fratelli e sorelle così indulgenti, così amanti. Il desiderio ch'io sentiva di loro m'ispirava un'infinità di cose appassionate. Dopo avere scritto ore ed ore, mi restavano sempre altri sentimenti a svolgere.
     Questo era, sotto una nuova forma, un ripetermi la mia biografia, ed illudermi ridipingendo il passato; un forzarmi a tener gli occhi sul tempo felice che non era più. Ma, oh Dio! quante volte, dopo aver rappresentato con animatissimo quadro un tratto della mia più bella vita, dopo avere inebbriata la fantasia fino a parermi ch'io fossi colle persone a cui parlava, mi ricordava repentinamente del presente, e mi cadea la penna ed inorridiva! Momenti veramente spaventosi eran quelli! Aveali già provati altre volte, ma non mai con convulsioni pari a quelle che or mi assalivano.
     Io attribuiva tali convulsioni e tali orribili angosce al troppo eccitamento degli affetti, a cagione della forma epistolare ch'io dava a quegli scritti, e del dirigerli a persone si care.
     Volli far altro, e non potea; volli abbandonare almeno la forma epistolare, e non potea. Presa la penna, e messomi a scrivere, ciò che ne risultava era sempre una lettera piena di tenerezza e di dolore.
     «Non son io più libero del mio volere?» andava dicendo. «Questa necessità di fare ciò che non vorrei fare, è dessa uno stravolgimento del mio cervello? Ciò per l'addietro non m'accadeva. Sarebbe stata cosa spiegabile ne' primi tempi della mia detenzione; ma ora che sono maturato alla vita carceraria, ora che la fantasia dovrebbe essersi calmata su tutto, ora che mi son cotanto nutrito di riflessioni filosofiche e religiose, come divento io schiavo delle cieche brame del cuore, e pargoleggio così? Applichiamoci ad altro.»
     Cercava allora di pregare, o d'opprimermi collo studio della lingua tedesca. Vano sforzo! Io m'accorgeva di tornar a scrivere un'altra lettera.

CAPO XLV

Simile stato era una vera malattia; non so se debba dire, una specie di sonnambulismo. Era senza dubbio effetto d'una grande stanchezza, operata dal pensare e dal vegliare.
     Andò più oltre. Le mie notti divennero costantemente insonni e per lo più febbrili. Indarno cessai di prendere caffè la sera; l'insonnia era la stessa.
     Ma pareva che in me fossero due uomini, uno che voleva sempre scriver lettere, e l'altro che voleva far altro. «Ebbene» diceva io «transigiamo, scrivi pur lettere, ma scrivile in tedesco; così impareremo quella lingua. «
     Quindi in poi scriveva tutto in un cattivo tedesco. Per tal modo almeno feci qualche progresso in quello studio.
     Il mattino, dopo lunga veglia, il cervello spossato cadeva in qualche sopore. Allora sognava, o pinttosto delirava, di vedere il padre, la madre, o altro mio caro disperarsi sul mio destino. Udiva di loro i più miserandi singhiozzi, e tosto mi destava singhiozzando e spaventato.
     Talvolta in que' brevissimi sogni sembravami d'udir la madre consolare gli altri, entrando con essi nel mio carcere, e volgermi le più sante parole sul dovere della rassegnazione; e quand'io più rallegrava del suo coraggio e del coraggio degli altri, ella prorompeva improvvisamente in lagrime, e tutti piangevano. Niuno può dire quali strazii fossero allora quelli all'anima mia.
     Per uscire di tanta miseria, provai di non andare più affatto a letto. Teneva acceso il lume l'intera notte, e stava al tavolino a leggere e scrivere. Ma che? Veniva il momento ch'io leggeva, destissimo, ma senza capir nulla, e che assolutamente la testa più non mi reggeva a comporre pensieri. Allora io copiava qualche cosa, ma copiava ruminando tutt'altro che ciò ch'io scriveva, ruminando le mie afflizioni.
     Eppure, s'io andava a letto era peggio. Niuna posizione m'era tollerabile, giacendo: m'agitava convulso, e conveniva alzarmi. Ovvero, se alquanto dormiva, que' disperanti sogni mi faceano più male del vegliare.
     Le mie preci erano aride, e nondimeno io le ripeteva sovente; non con lungo orare di parole, ma invocando Dio! Dio unito all'uomo ed esperto degli umani dolori!
     In quelle orrende notti, l'immaginativa mi s'esaltava talora in guisa che pareami, sebbene svegliato, or d'udir gemiti nel mio carcere, or d'udir risa soffocate. Dall'infanzia in poi non era mai stato credulo a streghe e folletti, ed or quelle risa e que' gemiti mi atterrivano, e non sapea come spiegar ciò, ed era costretto a dubitare s'io non fossi ludibrio d'incognite maligne potenze.
     Più volte presi tremando il lume, e gridai se v'era alcuno sotto il letto che mi beffasse. Più volte mi venne il dubbio che m'avessero tolto dalla prima stanza e trasportato in questa perché ivi fosse qualche trabocchello, ovvero nelle pareti qualche secreta apertura, donde i miei sgherri spiassero tutto ciò ch'io faceva e si divertissero crudelmente a spaventarmi.
     Stando al tavolino, or pareami che alcuno mi tirasse pel vestito, or che fosse data una spinta ad un libro, il quale cadeva a terra, or che una persona dietro a me soffiasse sul lume per ispegnerlo. Allora io balzava in piedi, guardava intorno, passeggiava con diffidenza, e chiedeva a me stesso s'io fossi impazzato od in senno. Non sapea più che cosa, di ciò ch'io vedeva e sentiva, fosse realtà od illusione, e sclamava con angoscia:
     «Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me?»

CAPO XLVI

Una volta, andato a letto alquanto prima dell'alba, mi parve d'avere la più gran certezza d'aver messo il fazzoletto sotto il capezzale. Dopo un momento di sopore, mi destai al solito, e mi sembrava che mi strangolassero. Sento d'avere il collo strettamente avvolto. Cosa strana! Era avvolto col mio fazzoletto, legato forte a più nodi. Avrei giurato di non aver fatto que' nodi, di non aver toccato il fazzoletto, dacché l'avea messo sotto il capezzale. Convieni ch'io avessi operato sognando o delirando, senza più serbarne alcuna memoria; ma non potea crederlo, e d'allora in poi stava in sospetto ogni notte d'essere strangolato.
     Capisco quanto simili vaneggiamenti debbano essere ridicoli altrui, ma a me che li provai faceano tal male che ne raccapriccio ancora.
     Si dileguavano ogni mattino; e finché durava la luce del dì, io mi sentiva l'animo così rinfrancato contro que' terrori, che mi sembrava impossibile di doverli mai più patire. Ma al tramonto del sole io cominciava a rabbrividire, e ciascuna notte riconduceva le brutte stravaganze della precedente.
     Quanto maggiore era la mia debolezza nelle tenebre, tanto maggiori erano i miei sforzi durante il giorno per mostrarmi allegro ne' colloquii co' compagni, co' due ragazzi del patriarcato e co' rnici carcerieri. Nessuno, udendomi scherzare com'io faceva, si sarebbe immaginato la misera infermità ch'io soffriva. Sperava con quegli sforzi di rinvigorirmi; ed a nulla giovavano. Quelle apparenze notturne, che il giorno io chiamava sciocchezze, la sera tornavano ad essere per me realtà spaventevoli.
     Se avessi ardito, avrei supplicato la Commissione di mutarmi di stanza, ma non seppi mai indurmivi, temendo di far ridere.
     Essendo vani tutti i raziocinii, tutti i proponimenti, tutti gli studii, tutte le preghiere, l'orribile idea d'essere totalmente e per sempre abbandonato da Dio s'impadronì di me.
     Tutti que' maligni sofismi contro la Provvidenza, che in istato di ragione, poche settimane prima, m'apparivano sì stolti, or vennero a frullarmi nel capo bestialmente, e mi sembrarono attendibili. Lottai contro questa tentazione parecchi dì, poi mi vi abbandonai.
     Sconobbi la bontà della religione; dissi, come avea udito dire da rabbiosi atei, e come testé Giuliano scriveami: «La religione non vale ad altro che ad indebolire le menti». M'arrogai di credere che rinunciando a Dio la mente mi si rinforzerebbe. Forsennata fiducia! Io negava Dio, e non sapea negare gl'invisibili malefici enti che sembravano circondarmi e pascersi de miei dolori.
     Come qualificare quel martirio? Basta egli il dire ch'era una malattia? od era egli, nello stesso tempo, un castigo divino per abbattere il mio orgoglio e farmi conoscere che, senza un lume particolare, io potea divenire incredulo come Giuliano, e più insensato di lui?
     Checché ne sia, Dio mi liberò di tanto male quando meno me l'aspettava.
     Una mattina, preso il caffè, mi vennero vomiti violenti, e coliche. Pensai che m'avessero avvelenato. Dopo la fatica de' vomiti, era tutto in sudore, e stetti a letto. Verso mezzogiorno mi addormentai, e dormii placidamente fino a sera.
     Mi svegliai, sorpreso di tanta quiete; e, parendomi di non aver più sonno, m'alzai. «Stando alzato» diss'io «sarò più forte contro i soliti terrori.»
     Ma i terrori non vennero. Giubilai, e nella piena della mia riconoscenza, tornando a sentire Iddio, mi gettai a terra ad adorarlo e chiedergli perdono d'averlo per più giorni negato. Quell'effusione di gioia esaurì le mie forze, e fermatomi in ginocchio alquanto, appoggiato ad una sedia, fui ripigliato dal sonno, e m'addormentai in quella posizione.
     Di lì non so se ad un'ora o più ore, mi desto a mezzo, ma appena ho tempo di buttarmi vestito sul letto, e ridormo sino all'aurora. Fui sonnolento ancor tutto il giorno; la sera mi coricai presto, e dormii l'intera notte. Qual crisi erasi operata in me? Lo ignoro, ma io era guarito.

CAPO XLVII

Cessarono le nausee che pativa da lungo tempo il mio stomaco, cessarono i dolori di capo, e mi venne un appetito straordinario. Io digeriva eccellentemente, e cresceva in forze. Mirabile Provvidenza! ella m'avea tolto le forze per umiliarmi; ella me le rendea perché appressavasi l'epoca delle sentenze, e volea ch'io non soccombessi al loro annunzio.
     Addì 24 novembre, uno de' nostri compagni, il dottor Foresti, fu tolto dalle carceri de' Piombi e trasportato non sapevam dove. Il custode, sue moglie ed i secondini erano atterriti; niuno di loro volea darmi luce su questo mistero
     «E che cosa vuol ella sapere,» diceami Tremerello «se nulla v'è di buono a sanare? Le ho detto già troppo, le ho detto già troppo.»
     «Su via, che serve il tacere?» gridai raccapricciando «non v'ho io capito? Egli è dunque condannato a morte?»
     «Chi?... egli?... il dottor Foresti...»
     Tremerello esitava; ma la voglia di chiacchierare non era l'infima delle sue virtù.
     «Non dica poi che son ciarlone; io non volea proprio aprir bocca su queste cose. Si ricordi che m'ha costretto»
     «Si, sì, v'ho costretto; ma, animo! ditemi tutto Che n'è del povero Foresti?»
     «Ah, signore! gli fecero passare il ponte de' Sospiri! egli è nelle carceri criminali! La sentenza di morte è state letta a lui e a due altri.»
     «E si eseguirà? quando? Oh miseri! E chi sono gli altri due?»
     «Non so altro, non so altro. Le sentenze non sono ancora pubblicate. Si dice per Venezia che vi saranno parecchie commutazioni di pena. Dio volesse che la morte non s'eseguisse per nessuno di loro! Dio volesse che, se non son tutti salvi da morte, ella almeno lo fosse! Io ho messo a lei tale affezione... perdoni la libertà... come se fosse un mio fratello!»
     E se n'andò commosso. Il lettore può pensare in quale agitazione io mi trovassi tutto quel dì, e la notte seguente, e tanti altri giorni, che nulla di più potei sapere.
     Durò l'incertezza un mese: finalmente le sentenze relative al primo processo furono pubblicate. Colpivano molte persone, nove delle quali erano condannate a morte, e poi per grazia a carcere duro, quali per vent'anni, quali per quindici (e ne' due casi doveano scontar la pena nella fortezza di Spielberg, presso la città di Br¸nn in Moravia), quali per dieci anni o meno (ed allora andavano nella fortezza di Lubiana).
     L'essere stata commutata la pena a tutti quelli del primo processo, era egli argomento che la morte dovesse risparmiarsi anche a quelli del secondo? Ovvero l'indulgenza sarebbesi usata ai soli primi, perché arrestati prima delle notificazioni che si pubblicarono contro le società secrete, e tutto il rigore cadrebbe sui secondi?
     «La soluzione del dubbio non può esser lontana;» diss'io «sia ringraziato il Cielo, che ho tempo di prevedere la morte e d'apparecchiarmivi.»

CAPO XLVIII

Era mio unico pensiero il morire cristianamente e col debito coraggio. Ebbi la tentazione di sottrarmi al patibolo col suicidio, ma questa sgombrò. «Qual merito evvi a non lasciarsi ammazzare da un carnefice, ma rendersi invece carnefice di sé? Per salvar l'onore? E non è una fanciullaggine il credere che siavi più onore nel fare una burla al carnefice, che nel non fargliela, quando pur sia forza morire?» Anche se non fossi stato cristiano, il suicidio, riflettendovi, mi sarebbe sembrato un piacere sciocco, una inutilità.
     «Se il termine della mia vita è venuto,» m'andava io dicendo «non sono io fortunato, che sia in guisa da lasciarmi tempo per raccogliermi e purificare la coscienza con desideri e pentimenti degni d'un uomo? Volgarmente giudicando, l'andare al patibolo è la peggiore delle morti: giudicando da savio, non è dessa migliore delle tante morti che avvengono per malattia, con grande indebolimento d'intelletto, che non lascia più luogo a rialzar l'anima da pensieri bassi?»
     La giustezza di tal ragionamento mi penetrò sì forte nello spirito, che l'orror della morte, e di quella specie di morte, si dileguava interamente da me. Meditai molto sui sacramenti che doveano invigorirmi al solenne passo, e mi parea d'essere in grado di riceverli con tali disposizioni da provarne l'efficacia. Quell'altezza d'animo ch'io credea d'avere, quella pace, quell'indulgente affezione verso coloro che m'odiavano, quella gioia di poter sacrificare la mia vita alla volontà di Dio, le avrei io serbate s'io fossi stato condotto al supplizio? Ahi! che l'uomo è pieno di contraddizioni, e quando sembra essere più gagliardo e più santo può cadere fra un istante in debolezza ed in colpa! Se allora io sarei morto degnamente, Dio solo il sa. Non mi stimo abbastanza da affermarlo.
     Intanto la verisimile vicinanza della morte fermava su questa idea siffattamente la mia immaginazione, che il morire pareami non solo possibile, ma significato da infallibile presentimento. Niuna speranza d'evitare questo destino penetrava più nel mio cuore, e ad ogni suono di pedate e di chiavi, ad ogni aprirsi della mia porta, io mi dicea: «Coraggio! forse vengono a prenderti per udire la sentenza. Ascoltiamola con dignitosa tranquillità, e benediciamo il Signore».
     Meditai ciò ch'io dovea scrivere per l'ultima volta alla mia famiglia, e partitamente al padre, alla madre, a ciascun dei fratelli, e a ciascuna delle sorelle; e volgendo in mente quelle espressioni d'affetti sì profondi e sì sacri, io m'inteneriva con molta dolcezza, e piangeva, e quel pianto non infiacchiva la mia rassegnata volontà.
     Come non sarebbe ritornata l'insonnia? Ma quanto era diversa dalla prima! Non udiva né gemiti né risa nella stanza; non vaneggiava né di spiriti né d'uomini nascosti. La notte m'era più deliziosa del giorno, perché io mi concentrava di più nella preghiera. Verso le quattr'ore io solea mettermi a letto, e dormiva placidamente circa due ore. Svegliatomi, stava in letto tardi per riposare. M'alzava verso le undici.
     Una notte, io m'era coricato alquanto prima del solito ed avea dormito appena un quarto d'ora, quando, ridesto, m'apparve un'immensa luce nella parete in faccia a me. Temetti d'esser ricaduto ne' passati delirii; ma ciò ch'io vedeva non era un'illusione. Quella luce veniva dal finestruolo a tramontana, sotto il quale io giaceva.
     Balzo a terra, prendo il tavolino, lo metto sul letto, vi sovrappongo una sedia, ascendo; - e veggo uno de' più belli e terribili spettacoli di fuoco, ch'io potessi immaginarmi.
     Era un grande incendio, a un tiro di schioppo dalle nostre carceri. Prese alla casa ov'erano i forni pubblici, e la consumò.
     La notte era oscurissima, e tanto più spiccavano que' vasti globi di fiamme e di fumo, agitati com'erano da furioso vento. Volavano scintille da tutte le parti, e sembrava che il cielo le piovesse. La vicina laguna rifletteva l'incendio. Una moltitudine di gondole andava e veniva. Io m'immaginava lo spavento ed il pericolo di quelli che abitavano nella casa incendiata e nelle vicine, e li compiangeva. Udiva lontane voci d'uomini e donne che si chiamavano: Tognina! Momolo! Beppo! Zanze!. Anche il nome di Zanze mi sonò all'orecchio! Ve ne sono migliaia a Venezia; eppure io temeva che potesse essere quell'una, la cui memoria m'era sì soave! «Fosse mai là quella sciagurata? e circondata forse dalle fiamme? Oh potessi scagliarmi a liberarla!»
     Palpitando, raccapricciando, ammirando, stetti sino all'aurora a quella finestra; poi discesi oppresso da tristezza mortale, figurandomi molto più danno che non era avvenuto. Tremerello mi disse non essere arsi se non i forni e gli annessi magazzini, con grande quantità di sacchi di farina.

CAPO XLIX

La mia fantasia era ancora vivamente colpita dall'aver veduto quell'incendio, allorché, poche notti appresso - io non era ancora andato a letto, e stava al tavolino studiando, e tutto intirizzito dal freddo -, ecco voci poco lontane: erano quelle del custode, di sua moglie, de' loro figli, de' secondini: «Il fogo! il fogo. Oh Beata Vergine! oh noi perdui!».
     Il freddo mi cessò in un istante: balzai tutto sudato in piedi, e guardai intorno se già si vedevano fiamme. Non se ne vedevano.
     L'incendio per altro era nel palazzo stesso, in alcune stanze ufficio vicine alle carceri.
     Uno de' secondini gridava: «Ma, sior paron, cossa faremo de sti siori ingabbiai, se el fogo s'avanza?».
     Il custode rispondeva: «Mi no gh'ho cor de lassarli abbrustolar. Eppur no se po averzeri le preson, senza el permesso de la Commission. Anemo, digo, corrè dunque a dimandar sto permesso».
     «Vado de botto, sior, ma la risposta no sarà miga in tempo, sala»
     E dov'era quella eroica rassegnazione ch'io teneami così sicuro di possedere, pensando alla morte? Perché l'idea di bruciar vivo mi mettea la febbre? Quasiché ci fosse maggior piacere a lasciarsi stringer la gola che a bruciare! Pensai a ciò, e mi vergognai della mia paura; stava per gridare al custode che per carità m'aprisse, ma mi frenai. Nondimeno io avea paura.
     «Ecco,» diss'io «qual sarà il mio coraggio, se scampato dal fuoco verrò condotto a morte! Mi frenerò, nasconderò altrui la mia viltà, ma tremerò. Se non che... non è egli pure coraggio l'operare come se non si sentissero tremiti, e sentirli? Non è egli generosità lo sforzarsi di dar volentieri ciò che rincresce di dare? Non è egli obbedienza l'obbedire ripugnando?»
     Il trambusto nella casa del custode era sì forte, che indicava un pericolo sempre crescente. Ed il secondino ito a chiedere la permissione di trarci di que' luoghi, non ritornava! Finalmente sembrommi d'intendere la sua voce. Ascoltai, e non distinsi le sue parole. Aspetto, spero; indarno! nessuno viene. Possibile che non siasi conceduto di traslocarci in salvo dal fuoco? E se non ci fosse più modo di scampare? E se il custode e la sua famiglia stentassero a mettere in salvo se medesimi, e nessuno più pensasse ai poveri ingabbiai?
     «Tant'è,» ripigliava io «questa non è filosofia, questa non è religione! Non farei io meglio d'apparecchiarmi a veder le fiamme entrare nella mia stanza e divorarmi?»
     Intanto i romori scemavano. A poco a poco non udii più nulla. «» questo prova esser cessato l'incendio? Ovvero tutti quelli che poterono sarann'essi fuggiti, e non rimangono più qui se non le vittime abbandonate a sì crudel fine?»
     La continuazione del silenzio mi calmò: conobbi che il fuoco doveva essere spento.
     Andai a letto, e mi rimproverai come viltà l'affanno sofferto; ed or che non si trattava più di bruciare, m'increbbe di non esser bruciato, piuttosto che avere fra pochi giorni ad essere ucciso dagli uomini.
     La mattina seguente intesi da Tremerello qual fosse stato l'incendio, e risi della paura ch'ei mi disse aver avuta; quasi che la mia non fosse stata eguale o maggiore della sua.
 
 
 
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