BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Il Novellino

ca. 1290

 

Il Novellino

 

21 – 30

Storie di gabbo

 

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XXI

Qui parla come lo 'mperadore Federigo

trovoe uno poltrone ad una fontanae chieseli bere,

e come lo 'mperadore li tolse suo bariglione.

 

Andando lo 'mperadore Federigo a una caccia con veste verdi, sì com'era usato, trovò un poltrone in sembianti a piè d'una fontana; – et avea distesa una tovaglia bianchissima in su l'erba verde et avea suo tamerice con vino e suo mazzero molto pulito. Lo 'mperadore giunse e chieseli bere; e 'l poltrone rispuose:

«Con che ti dare' io bere? A questo nappo non porrai tu bocca! Se tu hai corno del vino, ti do io volentieri».

Lo 'mperadore disse così:

«Prestami tuo bariglione, et io berrò per convento che mia bocca non vi apresserà».

E 'l poltrone lile porse. Que' beve, e tenneli lo convenente; poi non lile rendeo, anzi spronò il cavallo e fuggì col bariglione.

Il poltrone avisò bene, a le vestimenta da caccia, che de' cavalieri dello 'mperadore fosse. L'altro giorno andò a la corte. Lo 'mperadore disse alli uscieri:

«Se ci viene un poltrone di cotal guisa, fatelmi venire dinanzi e non li mi fermate porta».

Il poltrone venne; fue dinanzi a lo 'mperadore; fece suo compianto della perdita di suo bariglione. Lo 'mperadore li fece contare la novella più volte, in grande sollazzo; i baroni l'udiano con gran festa.

E lo 'mperadore li disse:

«Conoscerestu tuo bariglione?»

«Sì, messere».

Allora lo 'mperador lo si trasse di sotto (ché sotto l'avea), per dare a divedere ch'elli era suto in persona.

Allora lo 'mperadore, per la nettezza di lui, li donò riccamente.

 

 

XXII

Come lo 'mperadore Federigo fece una questione

a due suoi savie com'elli li guidardonoe.

 

Messere lo 'mperadore Federigo si avea due grandissimi savi: l'uno avea nome messere Bolghero, e l'altro messere Martino. Stando lo 'mperadore un giorno tra questi due savi, l'uno sì li era dalla destra parte e l'altro dalla sinestra; e lo 'mperadore fece loro una quistione e disse:

«Signori, secondo la vostra legge poss'io a' sudditi miei torre a cu' io mi voglio e dare ad un altro sanz'altra cagione, acciò ch'io sono signore e la legge dice che ciò che piace al signore sii legge intra i sudditi suoi? Dite s'io lo posso fare, poi che mi piace».

L'uno de' due savi rispuose:

«Messere, ciò che ti piace puoi fare di quello de' sudditi tuoi, sanza neuna colpa».

L'altro rispuose e disse:

«Così, Messere, a me non pare, acciò che la legge è giustissima, e le sue condizioni si vogliono giustissimamente osservare e seguitare. Quando voi togliete, si vuole sapere perché, e a cui date».

Perché l'uno savio e l'altro dicea vero, e però donò ad ambendue: all'uno donò capello scarlatto e palafreno bianco, e all'altro donò che facesse una legge a suo senno.

Di questo fu quistione intra ' savi: a cui avea più riccamente donato. Fue tenuto c'a colui, che avea detto che poteva torre come li piacea, donò robbe e palafreno come a giullare, perché l'avea lodato; a colui che seguitava la giustizia, sì diede a fare una legge.

 

 

XXIII

Come il Soldano donò a uno dugento marchi e

come il tesoriereli scrisse veggente lui ad uscita.

 

Saladino fu Soldano, nobilissimo signore prode e largo. Un giorno donava a uno dugento marchi, ché l'avea presentato uno paniere di rose, di verno, a una stufa; e 'l tesoriere suo, dinanzi da lui, li scrivea a uscita. Scorseli la penna e scrisse CCC. Disse il Saladino:

«Che fai?».

Disse il tesoriere:

«Messere, errava» e volea dannare il soprapiù.

Allora il Saladino parlò:

«Non dannare: scrivi CCCC. Per mala ventura se una tua penna sarà più larga di me!».

Questo Saladino, al tempo del suo Soldanato, s'ordinò una triegua tra lui e ' Cristiani; e' disse di volere vedere i nostri modi e, se·lli piacessero, diverrebbe cristiano. Fermossi la triegua. Venne il Saladino in persona a vedere la costuma de' Cristiani. Vide le tavole messe per mangiare con tovaglie bianchissime: lodolle molto. E vide l'ordine delle tavole: ove mangiava il re di Francia, partita dall'altre: lodollo assai. Vide le tavole ove mangiavano i maggiorenti: lodolle assai. Vide come li poveri mangiavano in terra vilmente: questo riprese forte, e biasimò molto che li amici di lor Signore mangiavano più vilmente e più basso.

Poi andaro li Cristiani a vedere la loro costuma: videro che i Saracini mangiavano in terra assai laidamente.

E 'l Soldano fece tendere suo padiglione assai ricco là dove mangiavano. In terra fece coprire di tappeti i quali erano tutti lavorati a croci spessissime. I Cristiani stolti entrarono dentro andando con li piedi su per quelle croci, sputandovi suso siccome in terra.

Allora parlò il Soldano e ripreseli forte:

«Voi predicate la Croce e spregiatela tanto? Così pare che voi amiate vostro Iddio in sembianti di parole, ma non in opera. Vostra maniera e vostra guisa non mi piace».

Ruppesi la triegua e cominciossi la guerra.

Avenne che a una battaglia prese uno cavaliere francesco con altri assai, lo quale francesco li venne in grande grazia tra gli altri, et amavalo sopra tutte le cose del mondo. Gli altri tenea in pregione, e costui di fuori, con seco, e vestialo nobilemente: e' non parea che lo Saladino sapesse stare senza lui, tanto l'amava.

Uno giorno avenne che questo cavaliere pensava fortemente fra sé medesimo. Lo Saladino si n'avidde: fecelo chiamare e disse che volea sapere di che istava così pensoso; e quelli non volendo dire, lo Saladino disse:

«Tu pure il dirai».

Lo cavaliere, vedendo questo, ché non potea fare altro dissegli:

«Messere, a me soviene di mia gent'e di mio paese».

E lo Saladino disse:

«Poi che tu non vuogli dimorare con meco, sì ti farò grazia e lascerotti».

Fece chiamare suo tesoriere e disse:

«Dalli CC marchi d'argento.»

‹Lo tesoriere li scrivea in escita› ...

 

 

XXIV

 

Messere Amari, signore di molte terre in Proenza, avea uno suo castellano lo quale spendea ismisuratamente. Passando messer Amari per la contrada, quello suo castellano se li fece innanzi, il quale avea nome Beltrame: invitollo che dovesse prendere albergo a·ssua magione. Messer Amari lo dimandò:

«Come hai tue di rendita l'anno?».

Beltramo rispuose:

«Messer, tanto e tanto».

«Come dispendi?».

Disse:

«Messer Amari, spendo, più che io non ho d'intrata più di dugento lire di tornesi lo mese».

Allora messer Amari disse queste parole:

«Qui dispent mais que no gazagna, non pot mudar que no s'afragna».

Partìosi, e non volse rimanere con lui, et andò ad albergare con un altro suo castellano.

 

 

XXV

Qui conta una novella d'un

borgese di Francia.

 

Uno borgese di Francia avea una sua moglie molto bella. Un giorno era a una festa con altre donne della villa. Aveavi una molto bella donna, la quale era molto guardata dalle genti; e la moglie del borgese diceva in fra sé medesima:

«S'io avesse cossì bella cotta com'ella, io sarei sguardata com'ella, perch'io sono altressì bella come sia ella».

Tornò a casa al suo marito e mostrolli cruccioso sembiante. Il marito l'adomandava sovente perch'ella stava crucciata, e·lla donna rispuose:

«Perch'io non sono vestita sì ch'io possa dimorare con l'altre donne: che alla cotal festa l'altre donne, che non sono sì belle com'io, erano sguardate; e io no, per mia laida cotta».

Allora suo marito le 'mpromise, del primo guadagno ch'e' prendesse, di farle una bella cotta.

Pochi giorni dimorò, che venne a·llui un borgese e domandolli dieci marchi in prestanza et offersegliene due marchi di guadagno a certo termine. Il marito rispuose:

«Io non ne farai neente, ché la mia anima ne sarebbe obligata allo 'nferno».

E la moglie rispuose:

«Ai, disleale traditore! Tu 'l fai per non farmi mia cotta!».

Allora il borgese, per le punture della moglie, prestò l'argento a due marchi di guiderdone e fece la cotta a sua mogliere.

La mogliere andò al mostier con l'altre donne. In quella stagione v'era Merlino; quando entrò nella chiesa, et uno parlò e disse:

«Per san Janni, quella è bellissima dama!».

E Merlino, il saggio profeta, parlò e disse:

«Veramente è bella, se i nimici dello 'nferno non avessero parte in sua cotta».

E la donna si volse e disse:

«Ditemi come i nemici d'inferno hanno parte in mia cotta».

«Dama» disse Merlino, «io lo vi dirò. Membravi voi quando voi foste alla festa dove l'altre donne erano sguardate più che voi non eravate, per vostra laida cotta, e che voi tornaste a vostra magione e mostraste cruccio a vostro marito, et elli impromise di farvi una nuova cotta del primo guadagno che prendesse; e da ivi a pochi giorni venne un borgese per dieci marchi in presto a due marchi di guadagno onde voi v'induceste vostro marito? E di sì malvagio guadagno è vostra cotta! Ditemi, dama, s'io fallo di neente».

«Certo, sire, no» rispuose la dama; «e non piaccia a Dio, nostro Sire, che sì malvagia cotta stea sor me»;

e, veggente tutta la gente, la si spogliò e pregò Merlino che la prendesse a diliverare di sì malvagio periglio.

 

 

XXVI

Qui conta d'uno grande Moaddo

a cui fu detta villania.

 

Uno grande Moaddo andò ad Alexandria, et andava un giorno per sue bisogne per la terra; et un altro li venia dietro, e dicevali molta villania e molto lo spregiava; e quelli non facea niuno motto. E uno li si fece dinanzi e disse:

«O che non rispondi a colui, che tanta villania ti dice?».

E quelli, sofferente, rispuose e disse così a colui che li dicea che rispondesse:

«Io non rispondo, perch'io non odo cosa che mi piaccia».

 

 

XXVII

Qui conta della costuma ch'era

nel reame di Francia.

 

Costuma era per lo reame di Francia che l'uomo ch'era degno d'essere disonorato e giustiziato si andava in su la caretta, e, se avvenisse che campasse la morte, giamai non trovava chi volesse usare co·llui né stare né vederlo per niuna condizione. Lancialot, quand'elli divenne forsenato per amore della reina Genevra, si andò in sulla carretta, e fecesi tirare per molte luogora. E da quello giorno inanzi non si spregiò più la carretta, anzi si mutò la costuma: ché le donne e le damigelle di gran paraggio, e ' cavalieri, vi vanno suso a sollazzo.

Oi mondo errante e sconoscente, uomini di poca cortesia! Quanto fu maggiore il Signore Nostro, che fé il cielo e la terra, che non fu Lancialotto! Lancialotto fue un cavaliere di scudo, e mutò e rivolse sì grande costuma nel reame di Francia, ch'era reame altrui; e Gesù Cristo Nostro Signore non poteo, perdonando a' suoi offenditori, che niuno uomo perdoni: e questo volle e fece nel reame suo! Quelli che 'l puosero in croce infino alla morte, a coloro perdonò, e pregò il Padre suo per loro.

 

 

XXVIII

Qui conta come i savi astrologi

disputavano del cielo impireo.

 

Grandissimi savi stavano in una scuola a Parigi e disputavano del cielo impireo e molto ne parlavano disiderosamente e come stava di sopra li altri cieli. Contavano il cielo dov'è Saturno, e di Giupiter e di Mars, e quel del Sole e di Venus e della Luna, e come sopra tutti stava lo 'mpireo cielo; – e sopra quello sta Dio Padre in maiestate sua.

Così parlando, venne un matto e disse loro:

«Signori, e sopra capo di quel Signore, che ha?».

E l'uno rispuose a gabbo:

«Havi un capello».

Il matto se n'andò, e ' savi rimasero. Disse l'uno:

«Tu credi al matto aver dato il capello, ma elli è rimaso a noi. Or diciamo sopra capo che ha».

Assai cercaro loro scienzie: non trovaro neente. Allora dissero:

«Matto è colui ch'è sì ardito che la mente metta difuori dal tondo».

E via più matto e forsennato quelli che pena e pensa di sapere il suo Principio, e sanza veruno senno chi vuol sapere li suo' profondissimi pensieri, quando que' molto savi non potero invenire solamente quello ch'Egli sopra capo avesse.

 

 

XXIX

Qui conta d'uno cavaliere di Lombardia

come dispese il suo.

 

Uno cavaliere di Lombardia era molto amico dello 'mperadore Federigo, et avea nome messer G., il quale non avea reda nulla che suo figliuolo fosse: bene avea gente di suo legnaggio.

Puosesi in cuore di volere tutto dispendere alla vita sua, sicché non rimanesse il suo dopo lui. Estimò quanto potesse vivere, e soprapuosesi bene anni diece; ma non si soprapuose tanto: ché, dispendendo il suo e consumando e scialacquando, li anni sopravennero e soperchiolli tempo. Rimase povero, ch'avea tutto dispeso.

Puosesi mente nel povero stato suo, e ricordossi dello 'mperadore Federigo, ché grande amistade avea co·llui e nella sua corte molto avea dispeso e donato. Propuosesi d'andare a·llui, credendo che l'accogliesse a grande onore.

Andò allo 'mperadore e fu dinanzi da lui. Domandò chi e' fosse, tuttoché bene lo conoscea. Quelli li racontò suo nome. Lo 'mperadore lo domandò di suo stato. Il cavaliere li contò tutto sì come si propuose, e come il tempo li era soperchiato et avea tutto dispeso. Lo 'mperadore rispuose:

«Esci fuor di mia corte! E, sotto pena della vita, non venire in mia forza, perciò che tu se' quelli che non volei che dopo i tuoi anni niuno avesse bene».

 

 

XXX

Qui conta d'uno novellatore

ch'avea messere Azzolino.

 

Messere Azzolino di Romano avea un suo favolatore, al quale facea favolare la notte quando erano le notti grandi di verno. Una notte avenne che 'l favolatore avea grande talento di dormire, et Azzolino il pregava che favolasse.

E 'l favoliere incominciò una favola d'uno villano che avea suoi cento bisanti, il quale andò a uno mercato a comperare berbici, et ebbene due per bisanto. Tornando con le pecore sue, uno fiume ch'avea passato era molto cresciuto per una grande pioggia che venuta era. Stando alla riva, brigossi d'accivire in questo modo: che un povero pescatore avea un suo piccolo burchiello (sì a dismisura piccolo, che non vi capea più che 'l villano e una pecora per volta); allora il villano cominciò a passare. Il fiume era largo. Misesi con una berbice nel burchiello e cominciò a vogare. Voga e passa.

E lo favolatore fue ristato, e non dicea più. Messere Azzolino disse:

«Andè oltra».

E 'l favolatore disse:

«Messere, lasciate passare le pecore, poi conteremo il fatto».

Le pecore non sarebero passate in uno anno, sicché intanto potea bene ad agio dormire.