BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Il Novellino

ca. 1290

 

Il Novellino

 

81 – 90

Morti ingiuste e morti meritate

 

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LXXXI

Qui conta del consiglio che tennero

i figliuoli del re Priamo di Troia.

 

Quando i figliuoli del re Priamo ebbero rifatta Troia (ché l'aveano i Greci disfatta; et avean.ne menato – Talamone et Agamennon – la lor suora Esionam) e fecero li Troiani ragunanza di loro grande amistade, e' parlaro così in tra·lli amici:

«Be' signori, i Greci n'hanno fatta grande onta: la gente nostra uccisero, la città disfecero, nostra soro Ansionam ne menaro. E noi avemo rifatta la cittade e rafforzata; l'amistà nostra è grande; del tesoro avemo raunato assai: onde mandiamo a loro che ci facciano l'amenda e che ci rendano nostra soro Ansionam»: e questo parlò Parigi.

Allora il buono Hector, che passò in quel tempo di prodezza tutta la cavalleria del mondo, a quello tempo parlò così:

«Signori, la guerra non mi piace e non la consiglio, perché li Greci sono più poderosi di noi: e' sì hanno la prodezza, il tesoro, il sapere, sì che non siamo noi da poterci guerreggiare a loro, per la loro gran potenzia. E questo ch'io dico no 'l dico per viltade; ché, se la guerra sarae che non possa rimanere, io difenderò mia partita sì come un altro cavaliere, e portarò il peso della battaglia».

E questo è contra li arditi cominciatori.

Or la guerra pur fue: Hector fue nella battaglia coi Troiani insieme: elli era prode come un leone, et uccise di sua mano duomila cavalieri de' Greci. Hector uccidea li Greci e sostenea i Troiani e scampavali da morte. Ma pure, alla perfine, fu morto Hector, e i Troiani perdero ogni difensa, ché li arditi cominciatori vennero meno nelle loro arditezze, e Troia fu anche disfatta da' Greci, e soprastettero loro.

 

 

LXXXII

Qui conta come la damigella di Scalot morì

per amore di Lancialotto del Lac.

 

Una figliuola d'un grande varvassore sì amò Lancialot del Lac oltre misura; ma elli non le volle donare suo amore imperciò ch'elli l'avea donato alla reina Ginevra. Tanto amò costei Lancialotto, ch'ella ne venne alla morte e comandò che, quando sua anima fosse partita dal corpo, che fosse arredata una ricca navicella coperta d'uno vermiglio sciamito, con uno ricco letto iv'entro con ricche e nobili coverture di seta, ornato di ricche pietre preziose: e fosse il suo corpo messo in su questo letto, vestita di suoi piue nobili vestimenti e con bella corona in capo, ricca di molto oro e di molte care pietre, e con ricca cintura e borsa; e in quella borsa avea una lettera, che era dello 'nfrascritto tenore. Ma imprima diciamo di ciò che v'ha innanzi la lettera.

La damigella morì di mal d'amore, e fu fatto ciò ch'ella avea detto della navicella: sanza vela e sanza remi e sanza neuno soprasagliente fue messa la detta nave colla donna in mare. Il mare la guidò infino a Camelot. Alla riva ristette. Il grido fu per la corte. I cavalieri e ' baroni dismontarono de' palazzi, e lo nobile re Artù vi venne: e maravigliavasi forte ch'era sanza niuna guida. Il re entrò dentro: vide la damigella e l'arnese. Fe' aprire la borsa; trovaro quella lettera; fecela leggere, e dicea così:

«A tutti i cavalieri della Tavola Ritonda manda salute questa damigella di Scalot, sì come alla migliore gente del mondo.

E se voi volete sapere perch'io a mia fine sono venuta, si è per lo migliore cavaliere del mondo e per lo più villano, cioè monsignore messer Lancialotto del Lac: ché già no 'l seppi tanto pregare d'amore ch'elli avesse di me mercede. E così, lassa, sono morta per ben amare, come voi potete vedere».

 

 

LXXXIII

Come andando Cristo co' discepoli suoi

videro molto grande tesoro.

 

Andando Cristo un giorno co' discepoli suoi per un foresto luogo, nel quale i discepoli che veniano dietro videro lucere da una parte piastre d'oro fine (onde essi chiamarono Cristo maravigliandosi perché non era ristato ad esso), sì li dissero:

«Signore, prendiamo quello oro: sì·nne consolerai di molte bisogne».

E Cristo si volse e ripreseli e disse:

«Voi adimandate quelle cose che toglie al nostro regno la più parte dell'anime che·ssi perdono; e che ciò sia vero, alla tornata ne vedrete l'asempro».

E passaro oltre.

Poco stante, due cari compagni lo trovaro, onde furono molto lieti; et in concordia andò l'uno alla più presso villa per menare uno mulo, e l'altro rimase a guardia. Ma udite opere ree che ne seguiro poscia, de' pensieri rei che 'l nemico diè loro. Quelli tornò col mulo e disse al compagno:

«Io ho mangiato alla villa, e tu dei aver fame. Mangia questi due pani così belli, e poi caricheremo».

Rispuose quelli:

«Io non ho gran talento di mangiare ora; e però carichiamo prima».

Allora presero a caricare e, quando ebbero presso che caricato, quelli ch'andò per lo mulo si chinò per legare la soma, e l'altro li corse di dietro a tradimento con uno apuntato coltello e ucciselo. Poscia prese l'uno di que' pani e diello al mulo, e l'altro mangiò elli. Il pane era atoscato: in pruova cadde morto elli e 'l mulo inanzi che movessero di quel luogo, e l'oro rimase libero come di prima.

E 'l Nostro Signore passò indi co' suoi discepoli nel detto giorno, e mostrò loro l'asempro che detto avea.

 

 

LXXXIV

Come messere Azzolino fece

bandire grande pietanza.

 

Messere Azzolino Romano fece una volta bandire nel suo distretto (et altrove ne fece invitata) che volea fare una grande limosina: e però tutti i poveri bisognosi, uomini come femine, et a certo die, fossero nel prato suo, et a catuno darebbe nuova gonnella e molto da mangiare.

La novella si sparse. Trasservi d'ogni parte.

Quando fu il die della ragunanza, i siniscalchi suoi furo tra·lloro con le gonnelle e con la vivanda, et a uno a uno li facea spogliare e scalzare tutto a ignudo, e poi li rivestia di panni nuovi e davali mangiare. Quelli rivoleano i loro istracciati, ma neente valse: ché tutti li mise in uno monte, e cacciovi entro fuoco. Poi vi trovò tanto oro e tanto ariento, che valse più che tutta la spesa; e poi li rimandò con Dio.

Et al suo tempo li si richiamò un villano d'un suo vicino che·lli avea imbolato ciriege. Comparìo l'accusato e disse:

«Mandate a sapere se ciò può essere: perciò che 'l ciriegio è finemente imprunato».

Allora messere Azzolino ne fece pruova, e l'accusatore condannò in quantità di moneta però che si fidò più nelli pruni che nella sua signoria, e l'altro diliberò.

Per tema della sua tirannia, li portoe una vecchia femina di villa un sacco di bellissime noci, alle quali non si ne trovavano simigliante. Et essendosi ella il meglio acconcia che poteo, giunse nella sala dov'elli era co' suoi cavalieri e disse:

«Messer, Dio vi dea lunga vita».

Et elli sospecciò e disse:

«Perché dicesti così?».

Et ella rispuose:

«Perché se ciò sia, noi staremo in lungo riposo».

E quelli rise e fecele mettere un bel sottano, il quale le dava a ginocchio, e fecelavi cignere su, e tutte le noci fece versare per lo smalto della sala e poi a una a una lile facea ricogliere e rimettere nel sacco; e poi la meritò grandemente.

In Lombardia e nella Marca si chiamano le pentole «ole». La sua famiglia avevano un dì preso un pentolaio per malleveria e, menandolo a giudice, messer Azzolino era nella sala. Disse:

«Chi è costui?».

L'uno rispuose:

«Messer, è un olaro».

«Andà·lo ad impendere».

«Come, messere, che è un olaro!».

«Et io però dico che voi l'andiate ad impendere!».

«Messere, noi diciamo ch'egli è un olaro!».

«Et ancor dico io che voi l'andiate ad impendere!».

Allora il giudice se n'accorse: fecelne inteso, ma non valse: ché, perché l'avea detto tre volte, convenne che fosse impeso.

A dire come fu temuto sarebbe gran tela: e molte persone il sanno. Ma sì rimanterrò come, essendo elli un giorno con lo 'mperadore a cavallo con tutta lor gente, si ingaggiaro chi avesse più bella spada. Sodo, lo 'mperadore trasse la sua del fodero, ch'era maravigliosamente fornita d'oro e di pietre. Allora disse messere Azzolino:

«Molto è bella, ma la mia è assai più bella»: e trassela fuori. Allora seicento cavalieri ch'erano con lui trassero tutti mano alle loro.

Quando lo 'mperadore vide le spade disse che ben era più bella.

Poi fu messer Azzolino preso in battaglia in uno luogo che si chiama Casciano; e percosse tanto il capo al feristo del padiglione, ov'era legato, che s'uccise.

 

 

LXXXV

Qui conta d'una grande carestia che

fu a un tempo in Genova.

 

In Genova fu un tempo un gran caro, e là si trovava sempre più ribaldi che in niun'altra terra. Tolsero alquante galee, e tolsero conducitori, e pagarli, e mandaro bando che tutti li poveri andassero alla riva, et avrebbero del pane del Comune. Andarvene tanti, ch'è maraviglia; e ciò fu perché molti che non erano bisognosi si travisaro.

E li uficiali dissero così:

«Tutti qui e' non si potrebbero cernire: ma vadano li cittadini in su quello legno, e ' forestieri nell'altro, e le femine co' fanciulli in quelli altri»: sicché tutti v'andaro suso.

I conducitori furo presti: diedero de' remi in acqua et apportarli in Sardigna, e lae li lasciaro, che v'era dovizia; et in Genova cessò il caro.

 

 

LXXXVI

Qui conta d'uno ch'era bene

fornito a dismisura.

 

Fu uno c'avea sì grande naturale, che non trovava neuno che fosse sì grande ad assai. Or avenne c'un giorno si trovò con una putta che non era molto giovane e, avegna che molto fosse orrevole e ricca, molti n'avea veduti e provati. Quando furo in camera, et elli lo mostrò; e per grande letizia la donna rise.

Que' disse:

«Che ve ne pare?».

E·lla donna rispose:

 

 

LXXXVII

Come uno s'andò

a confessare.

 

Uno s'andò a confessare al prete suo, et intra l'altre cose li disse:

«I' ho una mia cognata, e 'l mio fratello è lontano; e, quando io torno in casa, ella, per grande dimestichezza, mi si pur pone a sedere in grembo. Come debbo fare?».

Rispuose il prete:

«A me il si facesse ella! Ch'io la ne pagherei bene!».

 

 

LXXXVIII

Qui conta di messere Castellano

da Cafferi di Mantova.

 

Messere Castellano da Cafferi di Mantova stando Podesta di Firenze, sì nacque una quistione tra messere Pepo Alamanni e messer Cante Caponsacchi, tale che ne furo a gran minacce: onde la Podesta, per cessare quella briga, si mandoe a' confini: messer Pepo mandò in certa parte e messer Cante, perché era grande suo amico, sì 'l mandò a Mantova, e raccomandollo a' suoi. E messere Cante li ne rendeo tal guiderdone, che si giacea con la moglie.

 

 

LXXXIX

Qui conta d'un uomo di corte che cominciò

una novella che non venia meno.

 

Brigata di cavalieri cenavano una sera in una gran casa fiorentina; et aveavi un uomo di corte, il quale era grandissimo favellatore. Quando ebbero cenato, cominciò una novella che non venia meno.

Uno donzello della casa, che servia e forse non era troppo satollo, lo chiamò per nome e disse:

«Quelli che t'insegnò cotesta novella non la t'insegnò tutta».

Et elli rispuose:

«Perché no?».

E que' disse:

«Perché non t'insegnò la ristata».

Onde quelli si vergognò e ristette.

 

 

XC

Qui conta come lo 'mperadore Federigo

uccise un suo falcone.

 

Lo 'mperadore Federigo andava una volta a falcone; et avevane uno molto sovrano, che l'avea caro più c'una cittade. Lasciollo a una grua. Quella montò alta. Il falcone si mise alto molto sopra lei. Videsi sotto un'aguglia giovane: percossela a terra, e tanto la tenne che l'uccise.

Lo 'mperadore corse credendo che fosse una grua; trovò com'era. Allora con ira chiamò il giustiziere e comandò che al falcone fosse tagliato il capo perch'avea morto lo suo signore.