BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Dante Alighieri

1265 - 1321

 

La Divina commedia

 

Purgatorio

 

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Canto XX

 

Canto XX, ove si tratta del sopradetto girone e de la sopradetta colpa de l'avarizia.

 

Sandro Botticelli, Divina Commedia, pur. 20 (disegno, 1485/90)

 

 

 

 

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Contra miglior voler voler mal pugna;

onde contra 'l piacer mio, per piacerli,

trassi de l'acqua non sazia la spugna.

Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li

luoghi spediti pur lungo la roccia,

come si va per muro stretto a' merli;

ché la gente che fonde a goccia a goccia

per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa,

da l'altra parte in fuor troppo s'approccia.

Maladetta sie tu, antica lupa,

che più che tutte l'altre bestie hai preda

per la tua fame sanza fine cupa!

O ciel, nel cui girar par che si creda

le condizion di qua giù trasmutarsi,

quando verrà per cui questa disceda?

Noi andavam con passi lenti e scarsi,

e io attento a l'ombre, ch'i' sentia

pietosamente piangere e lagnarsi;

e per ventura udi' «Dolce Maria!»

dinanzi a noi chiamar così nel pianto

come fa donna che in parturir sia;

e seguitar: «Povera fosti tanto,

quanto veder si può per quello ospizio

dove sponesti il tuo portato santo».

Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio,

con povertà volesti anzi virtute

che gran ricchezza posseder con vizio».

Queste parole m'eran sì piaciute,

ch'io mi trassi oltre per aver contezza

di quello spirto onde parean venute.

Esso parlava ancor de la larghezza

che fece Niccolò a le pulcelle,

per condurre ad onor lor giovinezza.

«O anima che tanto ben favelle,

dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola

tu queste degne lode rinovelle.

Non fia sanza mercé la tua parola,

s'io ritorno a compiér lo cammin corto

di quella vita ch'al termine vola».

Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto

ch'io attenda di là, ma perché tanta

grazia in te luce prima che sie morto.

Io fui radice de la mala pianta

che la terra cristiana tutta aduggia,

sì che buon frutto rado se ne schianta.

Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia

potesser, tosto ne saria vendetta;

e io la cheggio a lui che tutto giuggia.

Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;

di me son nati i Filippi e i Luigi

per cui novellamente è Francia retta.

Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi:

quando li regi antichi venner meno

tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi,

trova'mi stretto ne le mani il freno

del governo del regno, e tanta possa

di nuovo acquisto, e sì d'amici pieno,

ch'a la corona vedova promossa

la testa di mio figlio fu, dal quale

cominciar di costor le sacrate ossa.

Mentre che la gran dota provenzale

al sangue mio non tolse la vergogna,

poco valea, ma pur non facea male.

Lì cominciò con forza e con menzogna

la sua rapina; e poscia, per ammenda,

Pontì e Normandia prese e Guascogna.

Carlo venne in Italia e, per ammenda,

vittima fé di Curradino; e poi

ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.

Tempo vegg' io, non molto dopo ancoi,

che tragge un altro Carlo fuor di Francia,

per far conoscer meglio e sé e ' suoi.

Sanz' arme n'esce e solo con la lancia

con la qual giostrò Giuda, e quella ponta

sì, ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia.

Quindi non terra, ma peccato e onta

guadagnerà, per sé tanto più grave,

quanto più lieve simil danno conta.

L'altro, che già uscì preso di nave,

veggio vender sua figlia e patteggiarne

come fanno i corsar de l'altre schiave.

O avarizia, che puoi tu più farne,

poscia c'ha' il mio sangue a te sì tratto,

che non si cura de la propria carne?

Perché men paia il mal futuro e 'l fatto,

veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,

e nel vicario suo Cristo esser catto.

Veggiolo un'altra volta esser deriso;

veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele,

e tra vivi ladroni esser anciso.

Veggio il novo Pilato sì crudele,

che ciò nol sazia, ma sanza decreto

portar nel Tempio le cupide vele.

O Segnor mio, quando sarò io lieto

a veder la vendetta che, nascosa,

fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?

Ciò ch'io dicea di quell' unica sposa

de lo Spirito Santo e che ti fece

verso me volger per alcuna chiosa,

tanto è risposto a tutte nostre prece

quanto 'l dì dura; ma com' el s'annotta,

contrario suon prendemo in quella vece.

Noi repetiam Pigmalïon allotta,

cui traditore e ladro e paricida

fece la voglia sua de l'oro ghiotta;

e la miseria de l'avaro Mida,

che seguì a la sua dimanda gorda,

per la qual sempre convien che si rida.

Del folle Acàn ciascun poi si ricorda,

come furò le spoglie, sì che l'ira

di Iosüè qui par ch'ancor lo morda.

Indi accusiam col marito Saffira;

lodiam i calci ch'ebbe Elïodoro;

e in infamia tutto 'l monte gira

Polinestòr ch'ancise Polidoro;

ultimamente ci si grida: «Crasso,

dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro?».

Talor parla l'uno alto e l'altro basso,

secondo l'affezion ch'ad ir ci sprona

ora a maggiore e ora a minor passo:

però al ben che 'l dì ci si ragiona,

dianzi non era io sol; ma qui da presso

non alzava la voce altra persona».

Noi eravam partiti già da esso,

e brigavam di soverchiar la strada

tanto quanto al poder n'era permesso,

quand' io senti', come cosa che cada,

tremar lo monte; onde mi prese un gelo

qual prender suol colui ch'a morte vada.

Certo non si scoteo sì forte Delo,

pria che Latona in lei facesse 'l nido

a parturir li due occhi del cielo.

Poi cominciò da tutte parti un grido

tal, che 'l maestro inverso me si feo,

dicendo: «Non dubbiar, mentr' io ti guido».

Glorïa in excelsis› tutti ‹Deo

dicean, per quel ch'io da' vicin compresi,

onde intender lo grido si poteo.

No' istavamo immobili e sospesi

come i pastor che prima udir quel canto,

fin che 'l tremar cessò ed el compiési.

Poi ripigliammo nostro cammin santo,

guardando l'ombre che giacean per terra,

tornate già in su l'usato pianto.

Nulla ignoranza mai con tanta guerra

mi fé desideroso di sapere,

se la memoria mia in ciò non erra,

quanta pareami allor, pensando, avere;

né per la fretta dimandare er' oso,

né per me lì potea cosa vedere:

così m'andava timido e pensoso.