BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Dante Alighieri

1265 - 1321

 

La Divina commedia

 

Paradiso

 

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Canto XXIII

 

Canto XXIII, dove si tratta come l'auttore vide la Beata Virgine Maria e li abitatori de la celestiale corte, de la quale mirabilemente favella in questo canto; e qui si prende la nona parte di questa terza cantica.

 

Sandro Botticelli, Divina Commedia, par. 23 (disegno, 1485/90)

 

 

 

 

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Come l'augello, intra l'amate fronde,

posato al nido de' suoi dolci nati

la notte che le cose ci nasconde,

che, per veder li aspetti disïati

e per trovar lo cibo onde li pasca,

in che gravi labor li sono aggrati,

previene il tempo in su aperta frasca,

e con ardente affetto il sole aspetta,

fiso guardando pur che l'alba nasca;

così la donna mïa stava eretta

e attenta, rivolta inver' la plaga

sotto la quale il sol mostra men fretta:

sì che, veggendola io sospesa e vaga,

fecimi qual è quei che disïando

altro vorria, e sperando s'appaga.

Ma poco fu tra uno e altro quando,

del mio attender, dico, e del vedere

lo ciel venir più e più rischiarando;

e Bëatrice disse: «Ecco le schiere

del trïunfo di Cristo e tutto 'l frutto

ricolto del girar di queste spere!».

Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto,

e li occhi avea di letizia sì pieni,

che passarmen convien sanza costrutto.

Quale ne' plenilunïi sereni

Trivïa ride tra le ninfe etterne

che dipingon lo ciel per tutti i seni,

vid' i' sopra migliaia di lucerne

un sol che tutte quante l'accendea,

come fa 'l nostro le viste superne;

e per la viva luce trasparea

la lucente sustanza tanto chiara

nel viso mio, che non la sostenea.

Oh Bëatrice, dolce guida e cara!

Ella mi disse: «Quel che ti sobranza

è virtù da cui nulla si ripara.

Quivi è la sapïenza e la possanza

ch'aprì le strade tra 'l cielo e la terra,

onde fu già sì lunga disïanza».

Come foco di nube si diserra

per dilatarsi sì che non vi cape,

e fuor di sua natura in giù s'atterra,

la mente mia così, tra quelle dape

fatta più grande, di sé stessa uscìo,

e che si fesse rimembrar non sape.

«Apri li occhi e riguarda qual son io;

tu hai vedute cose, che possente

se' fatto a sostener lo riso mio».

Io era come quei che si risente

di visïone oblita e che s'ingegna

indarno di ridurlasi a la mente,

quand' io udi' questa proferta, degna

di tanto grato, che mai non si stingue

del libro che 'l preterito rassegna.

Se mo sonasser tutte quelle lingue

che Polimnïa con le suore fero

del latte lor dolcissimo più pingue,

per aiutarmi, al millesmo del vero

non si verria, cantando il santo riso

e quanto il santo aspetto facea mero;

e così, figurando il paradiso,

convien saltar lo sacrato poema,

come chi trova suo cammin riciso.

Ma chi pensasse il ponderoso tema

e l'omero mortal che se ne carca,

nol biasmerebbe se sott' esso trema:

non è pareggio da picciola barca

quel che fendendo va l'ardita prora,

né da nocchier ch'a sé medesmo parca.

«Perché la faccia mia sì t'innamora,

che tu non ti rivolgi al bel giardino

che sotto i raggi di Cristo s'infiora?

Quivi è la rosa in che 'l verbo divino

carne si fece; quivi son li gigli

al cui odor si prese il buon cammino».

Così Beatrice; e io, che a' suoi consigli

tutto era pronto, ancora mi rendei

a la battaglia de' debili cigli.

Come a raggio di sol, che puro mei

per fratta nube, già prato di fiori

vider, coverti d'ombra, li occhi miei;

vid' io così più turbe di splendori,

folgorate di sù da raggi ardenti,

sanza veder principio di folgóri.

O benigna vertù che sì li 'mprenti,

sù t'essaltasti, per largirmi loco

a li occhi lì che non t'eran possenti.

Il nome del bel fior ch'io sempre invoco

e mane e sera, tutto mi ristrinse

l'animo ad avvisar lo maggior foco;

e come ambo le luci mi dipinse

il quale e il quanto de la viva stella

che là sù vince come qua giù vinse,

per entro il cielo scese una facella,

formata in cerchio a guisa di corona,

e cinsela e girossi intorno ad ella.

Qualunque melodia più dolce suona

qua giù e più a sé l'anima tira,

parrebbe nube che squarciata tona,

comparata al sonar di quella lira

onde si coronava il bel zaffiro

del quale il ciel più chiaro s'inzaffira.

«Io sono amore angelico, che giro

l'alta letizia che spira del ventre

che fu albergo del nostro disiro;

e girerommi, donna del ciel, mentre

che seguirai tuo figlio, e farai dia

più la spera suprema perché lì entre».

Così la circulata melodia

si sigillava, e tutti li altri lumi

facean sonare il nome di Maria.

Lo real manto di tutti i volumi

del mondo, che più ferve e più s'avviva

ne l'alito di Dio e nei costumi,

avea sopra di noi l'interna riva

tanto distante, che la sua parvenza,

là dov' io era, ancor non appariva:

però non ebber li occhi miei potenza

di seguitar la coronata fiamma

che si levò appresso sua semenza.

E come fantolin che 'nver' la mamma

tende le braccia, poi che 'l latte prese,

per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma;

ciascun di quei candori in sù si stese

con la sua cima, sì che l'alto affetto

ch'elli avieno a Maria mi fu palese.

Indi rimaser lì nel mio cospetto,

Regina celi› cantando sì dolce,

che mai da me non si partì 'l diletto.

Oh quanta è l'ubertà che si soffolce

in quelle arche ricchissime che fuoro

a seminar qua giù buone bobolce!

Quivi si vive e gode del tesoro

che s'acquistò piangendo ne lo essilio

di Babillòn, ove si lasciò l'oro.

Quivi trïunfa, sotto l'alto Filio

di Dio e di Maria, di sua vittoria,

e con l'antico e col novo concilio,

colui che tien le chiavi di tal gloria.