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B  I  B  L  I  O  T  H  E  C  A    A  U  G  U  S  T  A  N  A

 

 

 

 
Silvio Pellico
Le mie prigioni
 


 






 




C a p o  I  -  XXIV

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CAPO I

Il venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano, e condotto a Santa Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Simile ad un amante maltrattato dalla sue bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, lascio la politica ov'ella sta, e parlo d'altro.
     Alle nove della sera di quel povero venerdì, l'attuario mi consegnò al custode, e questi, condottomi nella stanza a me destinata, si fece da me rimettere con gentile invito, per restituirmeli a tempo debito, orologio, denaro, e ogni altra cosa ch'io avessi in tasca, e m'augurò rispettosamente la buona notte.
     «Fermatevi, caro voi;» gli dissi «oggi non ho pranzato; fatemi portare qualche cosa.»
     «Subito, la locanda è qui vicina; e sentirà, signore, che buon vino!»
     «Vino, non ne bevo.»
     A questa risposta, il signor Angiolino mi guardò spaventato, e sperando ch'io scherzassi. I custodi di carceri che tengono bettola, inorridiscono d'un prigioniero astemio.
     «Non ne bevo, davvero.»
     «M'incresce per lei; patirà al doppio la solitudine...»
     E vedendo ch'io non mutava proposito, uscì; ed in meno di mezz'ora ebbi il pranzo. Mangiai pochi bocconi, tracannai un bicchier d'acqua, e fui lasciato solo.
     La stanza era a pian terreno, e metteva sul cortile. Carceri di qua, carceri di là, carceri di sopra, carceri dirimpetto. Mi appoggiai alla finestra, e stetti qualche tempo ad ascoltare l'andare e venire de' carcerieri, ed il frenetico canto di parecchi de' rinchiusi.
     Pensava: «Un secolo fa, questo era un monastero: avrebbero mai le sante e penitenti vergini che lo abitavano, immaginato che le loro celle sonerebbero oggi, non più di femminei gemiti e d'inni divoti, ma di bestemmie e di canzoni invereconde, e che conterrebbero uomini d'ogni fatta, e per lo più destinati agli ergastoli o alle forche? E fra un secolo, chi respirerà in queste celle? Oh fugacità del tempo! oh mobilità perpetua delle cose! Può chi vi considera affliggersi, se fortune cessò di sorridergli, se vien sepolto in prigione, se gli si minaccia il patibolo? Ieri, io era uno de' più felici mortali del mondo: oggi non ho più alcuna delle dolcezze che confortavano la mia vita; non più libertà, non più consorzio d'amici, non più speranze! No; il lusingarsi sarebbe follia. Di qui non uscirò se non per essere gettato ne' più orribili covili, o consegnato al carnefice! Ebbene, il giorno dopo la mia morte, sarà come s'io fossi spirato in un palazzo, e portato alla sepoltura co' più grandi onori.»
     Così il riflettere alla fugacità del tempo m'invigoriva l'animo. Ma mi ricorsero alla mente il padre, la madre, due fratelli, due sorelle, un'altra famiglia ch'io amava quasi fosse la mia; ed i ragionamenti filosofici nulla più valsero. M'intenerii, e piansi come un fanciullo.

CAPO II

Tre mesi prima, io era andato a Torino, ed avea riveduto, dopo parecchi anni di separazione, i miei cari genitori, uno de' fratelli e le due sorelle. Tutta la nostra famiglia si era sempre tanto amata! Niun figliuolo era stato più di me colmato di benefizi dal padre e dalla madre! Oh come al rivedere i venerati vecchi io m'era commosso, trovandoli notabilmente più aggravati dall'età che non m'immaginava! Quanto avrei allora voluto non abbandonarli più, consacrarmi a sollevare colle mie cure la loro vecchiaia! Quanto mi dolse, ne' brevi giorni ch'io stetti a Torino, di aver parecchi doveri che mi portavano fuori del tetto paterno, e di dare così poca parte del mio tempo agli amati congiunti! La povera madre diceva con melanconica amarezza: «Ah, il nostro Silvio non è venuto a Torino per veder noi!». Il mattino che ripartii per Milano, la separazione fu dolorosissima. Il padre entrò in carrozza con me, e m'accompagnò per un miglio; tornò indietro soletto. Io mi voltava a guardarlo, e piangeva, e baciava un anello che la madre m'avea dato, e mai non mi sentii così angosciato di allontanarmi da' parenti. Non credulo a' presentimenti, io stupiva di non poter vincere il mio dolore, ed era forzato a dire con ispavento: «D'onde questa mia straordinaria inquietudine?». Pareami pur di prevedere qualche grande sventura.
     Ora, nel carcere, mi risovvenivano quello spavento, quell'angoscia; mi risovvenivano tutte le parole udite, tre mesi innanzi, da' genitori. Quel lamento della madre: «Ah, il nostro Silvio non è venuto a Torino per veder noi!» mi ripiombava sul cuore. Io mi rimproverava di non essermi mostrato loro mille volte più tenero. «Li amo cotanto, e ciò dissi loro così debolmente! Non dovea mai più vederli, e mi saziai così poco de' loro cari volti! e fui così avaro delle testimonianze dell'amor mio!» Questi pensieri mi straziavano l'anima
     Chiusi la finestra, passeggiai un'ora, credendo di non aver requie tutta la notte. Mi posi a letto, e la stanchezza m'addormentò.

CAPO III

Lo svegliarsi la prima notte in carcere è cosa orrenda! «Possibile!» dissi ricordandomi dove io fossi «possibile! Io qui? E non è ora un sogno il mio? Ieri dunque m'arrestarono? Ieri mi fecero quel lungo interrogatorio, che domani, e chi sa fin quando dovrà continuarsi? Ieri sera, avanti di addormentarmi, io piansi tanto, pensando a' miei genitori?»
     Il riposo, il perfetto silenzio, il breve sonno che avea ristorato le mie forze mentali, sembravano avere centuplicato in me la possa del dolore. In quell'assenza totale di distrazioni, l'affanno di tutti i miei cari, ed in particolare del padre e della madre allorché udrebbero il mio arresto, mi si pingea nella fantasia con una forza incredibile.
     «In quest'istante» diceva io «dormono ancora tranquilli, o vegliano pensando forse con dolcezza a me, non punto presaghi del luogo ov'io sono! Oh felici, se Dio li togliesse dal mondo, avanti che giunga a Torino la notizia della mia sventura! Chi darà loro la forza di sostenere questo colpo?»
     Una voce interna parea rispondermi: «Colui che tutti gli afflitti invocano ed amano e sentono in se stessi! Colui che dava la forza ad una Madre di seguire il Figlio al Golgota, e di stare sotto la sua croce! l'amico degl'infelici, l'amico dei mortali!».
     Quello fu il primo momento, che la religione trionfò del mio cuore, ed all'amor filiale debbo questo benefizio.
     Per l'addietro, senza essere avverso alla religione, io poco e male la seguiva. Le volgari obbiezioni, con cui suole essere combattuta, non mi parevano un gran che, e tuttavia mille sofistici dubbi infievolivano la mia fede. Già da lungo tempo questi dubbi non cadevano più sull'esistenza di Dio, e m'andava ridicendo che se Dio esiste, una conseguenza necessaria della sua giustizia è un'altra vita per l'uomo, che patì in un mondo così ingiusto: quindi la somma ragionevolezza di aspirare ai beni di quella seconda vita; quindi un culto di amore di Dio e del prossimo, un perpetuo aspirare a nobilitarsi con generosi sacrifizi. Già da lungo tempo m'andava ridicendo tutto ciò, e soggiungeva: «E che altro è il Cristianesimo se non questo perpetuo aspirare a nobilitarsi?». E mi meravigliava come sì pura, sì filosofica, sì inattaccabile manifestandosi l'essenza del Cristianesimo, fosse venuta un'epoca in cui la filosofia osasse dire: «Farò io d'or innanzi le sue veci.» Ed in qual modo farai tu le sue veci? Insegnando il vizio? No certo. Insegnando la virtù? Ebbene sarà amore di Dio e del prossimo; sarà ciò che appunto il Cristianesimo insegna.
     Ad onta ch'io così da parecchi anni sentissi, sfuggiva di conchiudere: «Sii dunque conseguente! sii cristiano! non ti scandalezzar più degli abusi! non malignar più su qualche punto difficile della dottrina della Chiesa, giacché il punto principale è questo, ed è lucidissimo: ama Dio e il prossimo.»
     In prigione deliberai finalmente di stringere tale conclusione, e la strinsi. Esitai alquanto, pensando che se taluno veniva a sapermi più religioso di prima, si crederebbe in dovere di reputarmi bacchettone, ed avvilito dalla disgrazia. Ma sentendo ch'io non era né bacchettone né avvilito, mi compiacqui di non punto curare i possibili biasimi non meritati, e fermai d'essere e di dichiararmi d'or in avanti cristiano.

CAPO IV

Rimasi stabile in questa risoluzione più tardi, ma cominciai a ruminarla e quasi volerla in quella prima notte di cattura. Verso il mattino le mie smanie erano calmate, ed io ne stupiva. Ripensava a' genitori ed agli altri amati, e non disperava più della loro forza d'animo, e la memoria de' virtuosi sentimenti, ch'io aveva altre volte conosciuti in essi, mi consolava.
     Perché dianzi cotanta perturbazione in me, immaginando la loro, ed or cotanta fiducia nell'altezza del loro coraggio? Era questo felice cangiamento un prodigio? era un naturale effetto della mia ravvivata credenza in Dio? - E che importa chiamar prodigi, o no, i reali sublimi benefizi della religione?
     A mezzanotte, due secondini (così chiamansi i carcerieri dipendenti dal custode) erano venuti a visitarmi, e m'aveano trovato di pessimo umore. All'alba tornarono, e mi trovarono sereno e cordialmente scherzoso.
     «Stanotte, signore, ella aveva una faccia da basilisco» disse il Tirola «ora è tutt'altro, e ne godo, segno che non è... perdoni l'espressione... un birbante: perché i birbanti (io sono vecchio del mestiere, e le mie osservazioni hanno qualche peso), i birbanti sono più arrabbiati il secondo giorno del loro arresto, che il primo. Prende tabacco?»
     «Non ne soglio prendere, ma non vo' ricusare le vostre grazie. Quanto alla vostra osservazione, scusatemi, non è da quel sapiente che sembrate. Se stamane non ho più faccia da basilisco, non potrebb'egli essere che il mutamento fosse prova d'insensatezza, di facilità ad illudermi, a sognar prossima la mia libertà?»
     «Ne dubiterei, signore, s'ella fosse in prigione per altri motivi; ma per queste cose di stato, al giorno d'oggi, non è possibile di credere che finiscano così su due piedi. Ed ella non è siffattamente gonzo da immaginarselo. Perdoni sa: vuole un'altra presa?»
     «Date qua. Ma come si può avere una faccia così allegra, come avete, vivendo sempre fra disgraziati?»
     «Crederà che sia per indifferenza sui dolori altrui: non lo so nemmeno positivamente io, a dir vero; ma l'assicuro che spesse volte il veder piangere mi fa male. E talora fingo d'essere allegro affinché i poveri prigionieri sorridano anch'essi.»
     «Mi viene, buon uomo, un pensiero che non ho mai avuto: che si possa fare il carceriere ed essere d'ottima pasta.»
     «Il mestiere non fa niente, signore. Al di là di quel voltone ch'ella vede, oltre il cortile, v'è un altro cortile ed altre carceri, tutte per donne. Sono... non occorre dirlo... donne di mala vita. Ebbene, signore, ve n'è che sono angeli, quanto al cuore. E s'ella fosse secondino...»
     «Io?» e scoppiai dal ridere.
     Tirola restò sconcertato dal mio riso, e non proseguì. Forse intendea, che s'io fossi stato secondino mi sarebbe riuscito malagevole non affezionarmi ad alcuna di quelle disgraziate.
     Mi chiese ciò ch'io volessi per colezione. Uscì, e qualche minuto dopo mi portò il caffè.
     Io lo guardava in faccia fissamente, con un sorriso malizioso che voleva dire: «Porteresti tu un mio viglietto ad altro infelice, al mio amico Pietro?». Ed egli mi rispose con un altro sorriso che voleva dire: «No, signore; e se vi dirigete ad alcuno de' miei compagni, il quale vi dica di si, badate che vi tradirà.»
     Non sono veramente certo ch'egli mi capisse, né ch'io capissi lui. So bensì ch'io fui dieci volte sul punto di dimandargli un pezzo di carta ed una matita, e non ardii, perché v'era alcun che negli occhi suoi, che sembrava avvertirmi di non fidarmi di alcuno, e meno d'altri che di lui.

CAPO V

Se Tirola, colla sua espressione di bontà, non avesse anche avuto quegli sguardi così furbi, se fosse stata una fisionomia più nobile, io avrei ceduto alla tentazione di farlo mio ambasciatore, e forse un mio viglietto giunto a tempo all'amico gli avrebbe data la forza di riparare qualche sbaglio, - e forse ciò salvava, non lui, poveretto, che già troppo era scoperto, ma parecchi altri e me!
     Pazienza! doveva andar così.
     Fui chiamato alla continuazione dell'interrogatorio, e ciò durò tutto quel giorno, e parecchi altri, con nessun altro intervallo che quello de' pranzi.
     Finché il processo non si chiuse, i giorni volavano rapidi per me, cotanto era l'esercizio della mente in quell'interminabile rispondere a sì varie dimande, e nel raccogliermi, alle ore di pranzo ed a sera, per riflettere a tutto ciò che mi s'era chiesto e ch'io aveva risposto, ed a tutto ciò su cui probabilmente sarei ancora interrogato.
     Alla fine della prima settimana m'accadde un gran dispiacere. Il mio povero Piero, bramoso, quanto lo era io, che potessimo metterci in comunicazione, mi mandò un viglietto, e si servì non d'alcuno de' secondini, ma d'un disgraziato prigioniero che veniva con essi a fare qualche servigio nelle nostre stanze. Era questi un uomo dai sessanta ai settant'anni, condannato a non so quanti mesi di detenzione.
     Con una spilla ch'io aveva, mi forai un dito, e feci col sangue poche linee di risposta, che rimisi al messaggero. Egli ebbe la mala ventura d'essere spiato, frugato, colto col viglietto addosso, e, se non erro, bastonato. Intesi alte urla che mi parvero del misero vecchio, e nol rividi mai più.
     Chiamato a processo, fremetti al vedermi presentata la mia cartolina vergata col sangue (la quale, grazie al cielo, non parlava di cose nocive, ed avea l'aria d'un semplice saluto). Mi si chiese con che mi fossi tratto sangue, mi si tolse la spilla, e si rise dei burlati. Ah, io non risi! Io non poteva levarmi dagli occhi il vecchio messaggero. Avrei volentieri sofferto qualunque castigo, purché gli perdonassero. E quando mi giunsero quelle urla, che dubitai essere di lui, il cuore mi s'empì di lagrime.
     Invano chiesi parecchie volte di esso al custode e a' secondini. Crollavano il capo, e dicevano: «L'ha pagata cara colui... non ne farà più di simili... gode un po' più di riposo». Né volea no spiegarsi di più.
     Accennavano essi a prigionia ristretta in cui veniva tenuto quell'infelice, o parlavano così perch'egli fosse morto sotto le bastonate od in conseguenza di quelle?
     Un giorno mi parve di vederlo, al di là del cortile, sotto il portico, con un fascio di legna sulle spalle. Il cuore mi palpitò come s'io rivedessi un fratello.

CAPO VI

Quando non fui più martirato dagl'interrogatorii, e non ebbi più nulla che occupasse le mie giornate, allora sentii amaramente il peso della solitudine.
     Ben mi si permise ch'io avessi una Bibbia ed il Dante; ben fu messa a mia disposizione dal custode la sua biblioteca, consistente in alcuni romanzi di Scuderi, del Piazzi, e peggio; ma il mio spirito era troppo agitato, da potersi applicare a qualsiasi lettura. Imparava ogni giorno un canto di Dante a memoria, e questo esercizio era tuttavia sì macchinale, ch'io lo faceva pensando meno a que' versi che a' casi miei. Lo stesso mi avveniva leggendo altre cose, eccettuato alcune volte qualche passo della Bibbia. Questo divino libro ch'io aveva sempre amato molto, anche quando pareami d'essere incredulo, veniva ora da me studiato con più rispetto che mai. Se non che, ad onta del buon volere, spessissimo io lo leggea colla mente ad altro, e non capiva. A poco a poco divenni capace di meditarvi più fortemente, e di sempre meglio gustarlo.
     Siffatta lettura non mi diede mai la minima disposizione alla bacchettoneria, cioè a quella divozione malintesa che rende pusillanime o fanatico. Bensì m'insegnava ad amar Dio e gli uomini, a bramare sempre più il regno della giustizia, ad abborrire l'iniquità, perdonando agl'iniqui. Il Cristianesimo, invece di disfare in me ciò che la filosofia potea avervi fatto di buono, lo confermava, lo avvalorava di ragioni più alte, più potenti.
     Un giorno avendo letto che bisogna pregare incessantemente, e che il vero pregare non è borbottare molte parole alla guisa de' pagani, ma adorar Dio con semplicità, sì in parole, sì in azioni, e fare che le une e le altre sieno l'adempimento del suo santo volere, mi proposi di cominciare davvero quest'incessante preghiera: cioè di non permettermi più neppure un pensiero che non fosse animato dal desiderio di conformarmi ai decreti di Dio.
     Le formole di preghiera da me recitate in adorazione furono sempre poche, non già per disprezzo (ché anzi le credo salutarissime, a chi più, a chi meno, per fermare l'attenzione nel culto), ma perché io mi sento così fatto, da non essere capace di recitarne molte senza vagare in distrazioni e porre l'idea del culto in obblio.
     L'intento di stare di continuo alla presenza di Dio, invece di essere un faticoso sforzo della mente, ed un soggetto di tremore, era per me soavissima cosa. Non dimenticando che Dio è sempre vicino a noi, ch'egli è in noi, o piuttosto che noi siamo in esso, la solitudine perdeva ogni giorno più il suo orrore per me: «Non sono io in ottima compagnia?» mi andava dicendo. E mi rasserenava, e canterellava, e zufolava con piacere e con tenerezza.
     «Ebbene,» pensai «non avrebbe potuto venirmi una febbre e portarmi in sepoltura? Tutti i miei cari, che si sarebbero abbandonati al pianto, perdendomi, avrebbero pure acquistato a poco a poco la forza di rassegnarsi alla mia mancanza. Invece d'una tomba, mi divorò una prigione: degg'io credere che Dio non li munisca d'egual forza?»
     Il mio cuore alzava i più fervidi voti per loro, talvolta con qualche lagrima; ma le lagrime stesse erano miste di dolcezza. Io aveva piena fede che Dio sosterrebbe loro e me. Non mi sono ingannato.

CAPO VII

Il vivere libero è assai più bello del vivere in carcere; chi ne dubita? Eppure anche nelle miserie d'un carcere, quando ivi si pensa che Dio è presente, che le gioie del mondo sono fugaci, che il vero bene sta nella coscienza e non negli oggetti esteriori, puossi con piacere sentire la vita. Io in meno d'un mese avea pigliato, non dirò perfettamente, ma in comportevole guisa, il mio partito. Vidi che non volendo commettere l'indegna azione di comprare l'impunità col procacciare la rovina altrui, la mia sorte non poteva essere se non il patibolo od una lunga prigionia. Era necessità adattarvisi. «Respirerò finché mi lasciano fiato» dissi «e quando me lo torranno, farò come tutti i malati allorché son giunti all'ultimo momento. Morrò.»
     Mi studiava di non lagnarmi di nulla, e di dare all'anima mia tutti i godimenti possibili. Il più consueto godimento si era di andarmi rinnovando l'enumerazione dei beni che avevano abbelliti i miei giorni: un ottimo padre, un'ottima madre, fratelli e sorelle eccellenti, i tali e tali amici, una buona educazione, l'amore delle lettere, ecc. Chi più di me era stato dotato di felicità? Perché non ringraziarne Iddio, sebbene ora mi fosse temperata dalla sventura? Talora facendo quell'enumerazione m'inteneriva e piangeva un istante; ma il coraggio e la letizia tornavano.
     Fin da' primi giorni io aveva acquistato un amico. Non era il custode, non alcuno de' secondini, non alcuno de' signori processanti. Parlo per altro d'una creatura umana. Chi era? - Un fanciullo, sordo e muto, di cinque o sei anni. Il padre e la madre erano ladroni, e la legge li aveva colpiti. Il misero orfanello veniva mantenuto dalla Polizia con parecchi altri fanciulli della stessa condizione. Abitavano tutti in una stanza in faccia alla mia, ed a certe ore aprivasi loro la porta affinché uscissero a prender aria nel cortile.
     Il sordo e muto veniva sotto la mia finestra, e mi sorrideva, e gesticolava. Io gli gettava un bel pezzo di pane: ei lo prendeva facendo un salto di gioia, correva a' suoi compagni, ne dava a tutti, e poi veniva a mangiare la sua porzioncella presso la mia finestra, esprimendo la sua gratitudine col sorriso de' suoi begli occhi.
     Gli altri fanciulli mi guardavano da lontano, ma non ardìano avvicinarsi: il sordo-muto aveva una gran simpatia per me, né già per sola cagione d'interesse. Alcune volte ei non sapea che fare del pane ch'io gli gettava, e facea segni ch'egli e i suoi compagni aveano mangiato bene, e non potevano prendere maggior cibo. S'ei vedea venire un secondino nella mia stanza, ei gli dava il pane perché me lo restituisse. Benché nulla aspettasse allora da me, ei continuava a ruzzare innanzi alla finestra, con una grazia amabilissima, godendo ch'io lo vedessi. Una volta un secondino permise al fanciullo d'entrare nella mia prigione: questi, appena entrato, corse ad abbracciarmi le gambe mettendo un grido di gioia. Lo presi fra le braccia, ed è indicibile il trasporto con cui mi colmava di carezze. Quanto amore in quella cara animetta! Come avrei voluto poterlo far educare e salvarlo dall'abbiezione in che si trovava!
     Non ho mai saputo il suo nome. Egli stesso non sapeva di averne uno. Era sempre lieto, e non lo vidi mai piangere se non una volta che fu battuto, non so perché, dal carceriere. Cosa strana! Vivere in luoghi simili sembra il colmo dell'infortunio, eppure quel fanciullo avea certamente tanta felicità quanta possa averne a quell'età il figlio d'un principe. Io facea questa riflessione, ed imparava che puossi rendere l'umore indipendente dal luogo. Governiamo l'immaginativa, e staremo bene quasi dappertutto. Un giorno è presto passato, e quando la sera uno si mette a letto senza fame e senza acuti dolori, che importa se quel letto è piuttosto fra mura che si chiamino prigione, o fra mura che si chiamino casa o palazzo?
     Ottimo ragionamento! Ma come si fa a governare l'immaginativa? Io mi vi provava, e ben pareami talvolta di riuscirvi a meraviglia: ma altre volte la tirannia trionfava, ed io indispettito stupiva della mia debolezza.

CAPO VIII

«Nella mia sventura sono pur fortunato,» diceva io «che m'abbiano data una prigione a pian terreno, su questo cortile, ove a quattro passi da me viene quel caro fanciullo, con cui converso alla muta sì dolcemente! Mirabile intelligenza umana! Quante cose ci diciamo egli ed io colle infinite espressioni degli sguardi e della fisionomia! Come compone i suoi moti con grazia, quando gli sorrido! Come li corregge quando vede che mi spiacciono! Come capisce che lo amo, quando accarezza o regala alcuno de' suoi compagni! Nessuno al mondo se lo immagina, eppure io, stando alla finestra, posso essere una specie d'educatore per quella povera creaturina. A forza di ripetere il mutuo esercizio de' segni, perfezioneremo la comunicazione delle nostre idee. Più sentirà d'istruirsi e di ingentilirsi con me, più mi s'affezionerà. Io sarò per lui il genio della ragione e della bontà; egli imparerà a confidarmi i suoi dolori, i suoi piaceri, le sue brame: io a consolarlo, a nobilitarlo, a dirigerlo in tutta la sua condotta. Chi sa che tenendosi indecisa la mia sorte di mese in mese, non mi lascino invecchiar qui? Chi sa che quel fanciullo non cresca sotto a' miei occhi, e non sia adoperato a qualche servizio in questa casa? Con tanto ingegno quanto mostra d'avere, che potrà egli riuscire? Ahimè! niente di più che un ottimo secondino o qualch'altra cosa di simile. Ebbene, non avrò io fatto buon'opera, se avrò contribuito ad ispirargli il desiderio di piacere alla gente onesta ed a se stesso, a dargli l'abitudine de' sentimenti amorevoli?»
     Questo soliloquio era naturalissimo. Ebbi sempre molta inclinazione pe' fanciulli, e l'ufficio d'educatore mi parea sublime. Io adempiva simile ufficio da qualche anno verso Giacomo e Giulio Porro, due giovinetti di belle speranze ch'io amava come figli miei e come tali amerò sempre. Dio sa, quante volte in carcere io pensassi a loro! quanto m'affliggessi di non poter compiere la loro educazione! quanti ardenti voti formassi perché incontrassero un nuovo maestro che mi fosse eguale nell'amarli!
     Talvolta esclamava tra me: «Che brutta parodia è questa! Invece di Giacomo e Giulio, fanciulli ornati de' più splendidi incanti che natura e fortuna possano dare, mi tocca per discepolo un poveretto, sordo, muto, stracciato, figlio d'un ladrone!... che al più diverrà secondino, il che in termine un po' meno garbato si direbbe sbirro.
     Queste riflessioni mi confondeano, mi sconfortavano. Ma appena sentiva io lo strillo del mio mutolino, che mi si rimescolava il sangue, come ad un padre che sente la voce del figlio. E quello strillo e la sua vista dissipavano in me ogni idea di bassezza a suo riguardo. «E che colpa ha egli s'è stracciato e difettoso, e di razza di ladri? Un'anima umana, nell'età dell'innocenza, è sempre rispettabile.» Così diceva io; e lo guardava ogni giorno più con amore, e mi parea che crescesse in intelligenza, e confermavami nel dolce divisamento d'applicarmi ad ingentilirlo; e fantasticando su tutte le possibilità, pensava che forse sarei un giorno uscito di carcere ed avrei avuto mezzo di far mettere quel fanciullo nel collegio de' sordi e muti, e di aprirgli così la via ad una fortuna più bella che d'essere sbirro.
     Mentre io m'occupava così deliziosamente del suo bene, un giorno due secondini vengono a prendermi.
     «Si cangia alloggio, signore.»
     «Che intendete dire?»
     «C'è comandato di trasportarla in un'altra camera.»
     «Perché?»
     «Qualch'altro grosso uccello è stato preso, e questa essendo la miglior camera... capisce bene...»
     «Capisco: è la prima posa de' nuovi arrivati.»
     E mi trasportarono alla parte del cortile opposta, ma, ohimè! non più a pian terreno, non più atta al conversare col mutolino. Traversando quel cortile, vidi quel caro ragazzo seduto a terra, attonito, mesto: capì ch'ei mi perdeva. Dopo un istante s'alzò, mi corse incontro; i secondini volevano cacciarlo, io lo presi fra le braccia, e, sudicetto com'egli era, lo baciai e ribaciai con tenerezza, e mi staccai da lui - debbo dirlo? - cogli occhi grondanti di lagrime.

CAPO IX

Povero mio cuore! tu ami sì facilmente e sì caldamente, ed oh a quante separazioni sei già stato condannato! Questa non fu certo la men dolorosa; e la sentii tanto più che il nuovo mio alloggio era tristissimo. Una stanzaccia, oscura, lurida, con finestra avente non vetri alle imposte, ma carta, con pareti contaminate da goffe pitturacce di colore, non oso dir quale; e ne' luoghi non dipinti erano iscrizioni. Molte portavano semplicemente nome, cognome e patria di qualche infelice, colla data del giorno funesto della sua cattura. Altre aggiungeano esclamazioni contro falsi amici, contro se stesso, contro una donna, contro il giudice, ecc. Altre erano compendi d'autobiografia. Altre contenevano sentenze morali. V'erano queste parole di Pascal:
     «Coloro che combattono la religione imparino almeno qual ella sia, prima di combatterla. Se questa religione si vantasse d'avere una veduta chiara di Dio, e di possederlo senza velo, sarebbe un combatterla il dire che non si vede niente nel mondo che lo mostri con tanta evidenza. Ma poiché dice, anzi, essere gli uomini nelle tenebre e lontani da Dio, il quale s'è nascosto alla loro cognizione, ed essere appunto il nome ch'egli si dà nelle Scritture, Deus absconditus... qual vantaggio possono essi trarre, allorché nella negligenza che professano quanto alla scienza della verità, gridano che la verità non vien loro mostrata?»
     Più sotto era scritto (parole dello stesso autore):
     «Non trattasi qui del lieve interesse di qualche persona straniera; trattasi di noi medesimi e del nostro tutto. L'immortalità dell'anima è cosa che tanto importa, e che toccaci sì profondamente, che bisogna aver perduto ogni senno per essere nell'indifferenza di saper che ne sia.»
     Un altro scritto diceva:
     «Benedico la prigione, poiché m'ha fatto conoscere l'ingratitudine degli uomini, la mia miseria, e la bontà di Dio.»
     Accanto a queste umili parole erano le più violente e superbe imprecazioni d'uno che si diceva ateo, e che si scagliava contro Dio come se si dimenticasse di aver detto che non v'era Dio.
     Dopo una colonna di tai bestemmie, ne seguiva una di ingiurie contro i vigliacchi, così li chiamava egli, che la sventura del carcere fa religiosi.
     Mostrai quelle scelleratezze ad uno de' secondini, e chiesi chi l'avesse scritte.
     «Ho piacere d'aver trovata quest'iscrizione:» disse «ve ne son tante, ed ho sì poco tempo da cercare!»
     E senz'altro, diessi con un coltello a grattare il muro per farla sparire.
     «Perché ciò?» dissi.
     «Perché il povero diavolo che l'ha scritta, e fu condannato a morte per omicidio premeditato, se ne pentì, e mi fece pregare di questa carità.»
     «Dio gli perdoni!» sclamai. «Qual omicidio era il suo?»
     «Non potendo uccidere un suo nemico, si vendicò uccidendogli il figlio, il più bel fanciullo che si desse sulla terra.»
     Inorridii. A tanto può giungere la ferocia? E siffatto mostro teneva il linguaggio insultante d'un uomo superiore a tutte le debolezze umane! Uccidere un innocente! un fanciullo!

CAPO X

In quella mia nuova stanza, così tetra e così immonda, privo della compagnia del caro muto, io era oppresso di tristezza.
     Stava molte ore alla finestra la quale metteva sopra una galleria, e al di là della galleria vedeasi l'estremità del cortile e la finestra della mia prima stanza. Chi erami succeduto colà? Io vi vedeva un uomo che molto passeggiava colla rapidità di chi è pieno d'agitazione. Due o tre giorni dappoi, vidi che gli avevano dato da scrivere, ed allora se ne stava tutto il dì al tavolino.
     Finalmente lo riconobbi. Egli usciva della sua stanza accompagnato dal custode: andava agli esami. Era Melchiorre Gioia!
     Mi si strinse il cuore. «Anche tu, valentuomo, sei qui!» (Fu più fortunato di me. Dopo alcuni mesi di detenzione venne rimesso in libertà.)
     La vista di qualunque creatura buona mi consola, m'affeziona, mi fa pensare. Ah! pensare ed amare sono un gran bene. Avrei dato la mia vita per salvar Gioia di carcere; eppure il vederlo mi sollevava.
     Dopo essere stato lungo tempo a guardarlo, a congetturare da' suoi moti se fosse tranquillo d'animo od inquieto, a far voti per lui, io mi sentiva maggior forza, maggiore abbondanza d'idee, maggior contento di me. Ciò vuol dire che lo spettacolo d'una creatura umana, alla quale s'abbia amore, basta a temprare la solitudine. M'avea dapprima recato questo benefizio un povero bambino muto, ed or me lo recava la lontana vista d'un uomo di gran merito.
     Forse qualche secondino gli disse dov'io era. Un mattino, aprendo la sua finestra, fece sventolare il fazzoletto in atto di saluto. Io gli risposi collo stesso segno. Oh quale piacere mi inondò l'anima in quel momento! Mi pareva che la distanza fosse sparita, che fossimo insieme. Il cuore mi balzava come ad un innamorato che rivede l'amata. Gesticolavamo senza capirci, e colla stessa premura, come se ci capissimo: o piuttosto ci capivamo realmente; que' gesti voleano dire tutto ciò che le nostre anime sentivano, e l'una non ignorava ciò che l'altra sentisse.
     Qual conforto sembravanmi dover essere in avvenire quei saluti! E l'avvenire giunse, ma que' saluti non furono più replicati! Ogni volta ch'io rivedea Gioia alla finestra, io faceva sventolare il fazzoletto. Invano! I secondini mi dissero che gli era stato proibito d'eccitare i miei gesti o di rispondervi. Bensì guardavami egli spesso, ed io guardava lui, e così ci dicevamo ancora molte cose.

CAPO XI

Sulla galleria ch'era sotto la finestra, al livello medesimo della mia prigione, passavano e ripassavano da mattina a sera altri prigionieri, accompagnati da secondini; andavano agli esami, e ritornavano. Erano per lo più gente bassa. Vidi nondimeno anche qualcheduno che parea di condizione civile. Benché non potessi gran fatto fissare gli occhi su loro, tanto era fuggevole il loro passaggio, pure attraevano la mia attenzione; tutti qual più qual meno mi commoveano. Questo triste spettacolo, a' primi giorni, accresceva i miei dolori; ma a poco a poco mi v'assuefeci, e finì per diminuire anch'esso l'orrore della mia solitudine.
     Mi passavano parimente sotto gli occhi molte donne arrestate. Da quella galleria s'andava, per un voltone, sopra un altro cortile, e là erano le carceri muliebri e l'ospedale delle sifilitiche. Un muro solo, ed assai sottile, mi dividea da una delle stanze delle donne. Spesso le poverette mi assordavano colle loro canzoni, talvolta colle loro risse. A tarda sera, quando i romori erano cessati, io le udiva conversare.
     Se avessi voluto entrare in colloquio, avrei potuto. Me n'astenni, non so perché. Per timidità? per alterezza? per prudente riguardo di non affezionarmi a donne degradate? Dovevano esservi questi motivi tutti tre. La donna, quando è ciò che debb'essere, è per me una creatura sì sublime! Il vederla, l'udirla, il parlarle, mi arricchisce la mente di nobili fantasie. Ma avvilita, spregevole, mi perturba, m'affligge, mi spoetizza iI cuore.
     Eppure... (gli eppure sono indispensabili per dipingere l'uomo, ente sì composto) fra quelle voci femminili ve n'avea di soavi, e queste - e perché non dirlo? - m'erano care. Ed una di quelle era più soave delle altre, e s'udiva più di rado, e non proferiva pensieri volgari. Cantava poco, e per lo più questi soli due patetici versi:

     Chi rende alla meschina
     la sua felicità?

Alcune volte cantava le litanie. Le sue compagne la secondavano, ma io aveva il dono di discernere la voce di Maddalena dalle altre, che pur troppo sembravano accanite a rapirmela.
     Sì, quella disgraziata chiamavasi Maddalena. Quando le sue compagne raccontavano i loro dolori, ella compativale e gemeva, e ripeteva: «Coraggio, mia cara; il Signore non abbandona alcuno».
     Chi poteva impedirmi d'immaginarmela più bella e più infelice che colpevole, nata per la virtù, capace di ritornarvi, s'erasene scostata? Chi potrebbe biasimarmi s'io m'inteneriva udendola, s'io l'ascoltava con venerazione, s'io pregava per lei con un fervore particolare?
     L'innocenza è veneranda, ma quanto lo è pure il pentimento! Il migliore degli uomini, l'uomo-Dio, sdegnava egli di porre il suo pietoso sguardo sulle peccatrici, di rispettare la loro confusione, d'aggregarle fra le anime ch'ei più onorava? Perché disprezziamo noi tanto la donna caduta nell'ignominia?
     Ragionando così, fui cento volte tentato di alzar la voce e fare una dichiarazione d'amor fraterno a Maddalena. Una volta avea già cominciato la prima sillaba vocativa: «Mai!...». Cosa strana! il cuore mi batteva, come ad un ragazzo di quindici anni innamorato; e sì ch'io n'avea trentuno, che non è più l'età dei palpiti infantili.
     Non potei andar avanti. Ricominciai: «Mad!... Mad!...». E fu inutile. Mi trovai ridicolo, e gridai dalla rabbia: «Matto! e non Mad!».

CAPO XII

Così finì il mio romanzo con quella poveretta. Se non che le fui debitore di dolcissimi sentimenti per parecchie settimane. Spesso io era melanconico, e la sue voce m'esilarava: spesso, pensando alla viltà ed all'ingratitudine degli uomini, io m'irritava contro loro, io disamava l'universo, e la voce di Maddalena tornava a dispormi a compassione ed indulgenza.
     Possa tu, o incognita peccatrice, non essere state condannata a grave pena! Od a qualunque pena sii tu stata condannata, posse tu profittarne e rinobilitarti, e vivere e morir care al Signore! Possa tu essere compianta e rispettata da tutti quelli che ti conoscono, come lo fosti da me che non ti conobbi! Possa tu ispirare, in ognuno che ti vegga, la pazienza, la dolcezza, la brama della virtù, la fiducia in Dio, come le ispiravi in colui che ti amò senza vederti! La mia immaginativa può errare figurandoti bella di corpo, ma l'anima tua, ne son certo, era bella. Le tue compagne parlavano grossolanamente, e tu con pudore e gentilezza; bestemmiavano, e tu benedicevi Dio; garrivano, e tu componevi le loro liti. Se alcuno t'ha porto la mano per sottrarti dalla carriera del disonore, se t'ha beneficata con delicatezza, se ha asciugate le tue lagrime, tutte le consolazioni piovano su lui, su' suoi figli, e sui figli de' suoi figli!
     Contigua alla mia, era una prigione abitata da parecchi uomini. Io li udiva anche parlare. Uno di loro superava gli altri in autorità, non forse per maggiore finezza di condizione, ma per maggior facondia ed audacia. Questi facea, come si dice, il dottore. Rissava e metteva in silenzio i contendenti coll'imperiosità della voce e colla foga delle parole; dettava loro ciò che doveano pensare e sentire, e quelli, dopo qualche renitenza, finivano per dargli ragione in tutto.
     Infelici! non uno di loro che temperasse le spiacevolezze della prigione esprimendo qualche soave sentimento, qualche poco di religione e d'amore!
     Il caporione di que' vicini mi salutò, e risposi. Mi chiese come io passassi quella maledetta vita. Gli dissi che, sebben trista, niuna vita era maledetta per me, e che, sino alla morte, bisognava procacciar di godere il piacer di pensare e d'amare.
     «Si spieghi, signore, si spieghi.»
     Mi spiegai, e non fui capito. E quando, dopo ingegnose ambagi preparatorie, ebbi il coraggio d'accennare, come esempio, la tenerezza carissima che in me veniva destata dalla voce di Maddalena, il caporione diede in una grandissima risata.
     «Che cos'è? che cos'è?» gridarono i suoi compagni. Il profano ridisse con caricature le mie parole, e le risate scoppiarono in coro, ed io feci lì pienamente la figure dello sciocco.
     Avviene in prigione come nel mondo. Quelli che pongono la lor saviezza nel fremere, nel lagnarsi, nel vilipendere, credono follia il compatire, l'amare, il consolarsi con belle fantasie che onorino l'umanità ed il suo Autore.

CAPO XIII

Lasciai ridere, e non opposi sillaba. I vicini mi diressero due o tre volte la parole; io stetti zitto.
     «Non sarà più alla finestra... se ne sarà ito... tenderà l'orecchio ai sospiri di Maddalena... si sarà offeso delle nostre risa.»
     Così andarono dicendo per un poco. E finalmente il caporione impose silenzio agli altri che susurravano sul mio conto.
     «Tacete, bestioni, che non sapete quel che diavolo vi dite. Qui il vicino non è un sì grand'asino come credete. Voi non siete capaci di riflettere su niente. Io sghignazzo, ma poi rifletto, io. Tutti i villani mascalzoni sanno far gli arrabbiati, come facciamo noi. Un po' più di dolce allegria, un po' più di carità, un po' più di fede ne' benefizi del Cielo, di che cosa vi pare sinceramente che sia indizio?»
     «Or che ci rifletto anch'io,» rispose uno «mi pare che sia indizio d'essere alquanto meno mascalzone.»
     «Bravo!» gridò il caporione con urlo stentoreo «questa volta torno ad aver qualche stima della tua zucca.»i
     Io non insuperbiva molto d'essere solamente reputato alquanto meno mascalzone di loro; eppure provava una specie di gioia, che que' disgraziati si ricredessero circa l'importanza di coltivare i sentimenti benevoli.
     Mossi l'imposta della finestra, come se tornassi allora. Il caporione mi chiamò. Risposi, sperando che avesse voglia di moralizzare a modo mio. M'ingannai. Gli spiriti volgari sfuggono i ragionamenti serii: se una nobile verità traluce loro, sono capaci di applaudirla un istante, ma tosto dopo ritorcono da essa lo sguardo, e non resistono alla libidine d'ostentar senno ponendo quella verità in dubbio e scherzando.
     Mi chiese poscia s'io era in prigione per debiti.
     «No.»
     «Forse accusato di truffa? Intendo accusato falsamente sa.»
     «Sono accusato di tutt'altro.»
     «Di cose d'amore?»
     «No.»
     «D'omicidio?»
     «No.»
     «Di carboneria?»
     «Appunto.»
     «E che sono questi carbonari?»
     «Li conosco così poco che non saprei dirvelo.»
     Un secondino c'interruppe con gran collera, e dopo d'aver colmato d'improperii i miei vicini si volse a me colla gravità non d'uno sbirro, ma d'un maestro, e disse: «Vergogna, signore! degnarsi di conversare con ogni sorta di gente! Sa ella che costoro son ladri?».
     Arrossii e poi arrossii d'aver arrossito, e mi parve che il degnarsi di conversare con ogni specie d'infelici sia piuttosto bontà che colpa.

CAPO XIV

Il mattino seguente andai alla finestra per vedere Melchiorre Gioia, ma non conversai più co' ladri. Risposi al loro saluto, e dissi che m'era vietato di parlare.
     Venne l'attuario che m'avea fatto gl'interrogatorii, e m'annunciò con mistero una visita che m'avrebbe recato piacere. E quando gli parve d'avermi abbastanza preparato disse: «Insomma, è suo padre; si compiaccia di seguirmi».
     Lo seguii abbasso negli uffici, palpitando di contento e di tenerezza, e sforzandomi d'avere un aspetto sereno che tranquillasse il mio povero padre.
     Allorché avea saputo il mio arresto, egli avea sperato che ciò fosse per sospetti da nulla, e ch'io tosto uscissi. Ma vedendo che la detenzione durava, era venuto a sollecitare il Governo austriaco per la mia liberazione. Misere illusioni dell'amor paterno! Ei non poteva credere ch'io fossi stato così temerario da espormi al rigor delle leggi, e la studiata ilarità con che gli parlai lo persuase ch'io non aveva sciagure a temere.
     Il breve colloquio che ci fu conceduto m'agitò indicibilmente; tanto più ch'io reprimeva ogni apparenza d'agitazione. Il più difficile fu di non manifestarla quando convenne separarci.
     Nelle circostanze in cui era l'Italia, io tenea per fermo che l'Austria avrebbe dato esempi straordinarii di rigore, e ch'io sarei stato condannato a morte od a molti anni di prigionia. Dissimulare questa credenza ad un padre! lusingarlo colla dimostrazione di fondate speranze di prossima libertà! non prorompere in lagrime abbracciandolo, parlandogli della madre, de' fratelli e delle sorelle, ch'io pensava non riveder più mai sulla terra! pregarlo con voce non angosciata che venisse ancora a vedermi, se poteva! Nulla mai mi costò tanta violenza.
     Egli si divise consolatissimo da me, ed io tornai nel mio carcere col cuore straziato. Appena mi vidi solo, sperai di potermi sollevare abbandonandomi al pianto. Questo sollievo mi mancò. Io scoppiava in singhiozzi, e non potea versare una lagrima. La disgrazia di non piangere è una delle più crudeli ne' sommi dolori, ed oh quante volte l'ho provata!
     Mi prese una febbre ardente con fortissimo mal di capo. Non inghiottii un cucchiaio di minestra in tutto il giorno. «Fosse questa una malattia mortale» diceva io «che abbreviasse i miei martirii!»
     Stolta e codarda brama! Iddio non l'esaudì, ed or ne lo ringrazio. E ne lo ringrazio, non solo perché dopo dieci anni di carcere ho riveduto la mia cara famiglia e posso dirmi felice; ma anche perché i patimenti aggiungono valore all'uomo, e voglio sperare che non sieno stati inutili per me.

CAPO XV

Due giorni appresso, mio padre tornò. Io aveva dormito bene la notte, ed era senza febbre. Mi ricomposi a disinvolte e liete maniere, e niuno dubitò di ciò che il mio cuore avesse sofferto e soffrisse ancora.
     «Confido» mi disse il padre «che fra pochi giorni sarai mandato a Torino. Già t'abbiamo apparecchiata la stanza, e t'aspettiamo con grande ansietà. I miei doveri d'impiego mi obbligano a ripartire. Procura, te ne prego, procura di raggiungermi presto.»
     La sua tenera e melanconica amorevolezza mi squarciava l'anima. Il fingere mi pareva comandato da pietà, eppure io fingeva con una specie di rimorso. Non sarebbe stata cosa più degna di mio padre e di me, s'io gli avessi detto: «Probabilmente non ci vedremo più in questo mondo! Separiamoci da uomini, senza mormorare, senza gemere; e ch'io oda pronunciare sul mio capo la paterna benedizione?»
     Questo linguaggio mi sarebbe mille volte più piaciuto della finzione. Ma io guardava gli occhi di quel venerando vecchio, i suoi lineamenti, i suoi grigi capelli, e non mi sembrava che l'infelice potesse aver la forza d'udire tai cose.
     E se per non volerlo ingannare io l'avessi veduto abbandonarsi alla disperazione, forse svenire, forse (orribile idea!) essere colpito da morte nelle mie braccia?
     Non potei dirgli il vero, né lasciarglielo tralucere! La mia foggiata serenità lo illuse pienamente. Ci dividemmo senza lagrime. Ma ritornato nel carcere, fui angosciato come l'altra volta, o più fieramente ancora; ed invano pure invocai il dono del pianto.
     Rassegnarmi a tutto l'orrore d'una lunga prigionia, rassegnarmi al patibolo, era nella mia forza. Ma rassegnarmi all'immenso dolore che ne avrebbero provato padre, madre, fratelli e sorelle, ah! questo era quello a cui la mia forza non bastava.
     Mi prostrai allora in terra con un fervore quale io non aveva mai avuto si forte, e pronunciai questa preghiera:
     «Mio Dio, accetto tutto dalla tua mano; ma invigorisci sì prodigiosamente i cuori a cui io era necessario, ch'io cessi d'esser loro tale, e la vita d'alcun di loro non abbia perciò ad abbreviarsi pur d'un giorno!»
     Oh beneficio della preghiera! Stetti più ore colla mente elevata a Dio, e la mia fiducia cresceva a misura ch'io meditava sulla bontà divina, a misura ch'io meditava sulla grandezza dell'anima umana, quando esce del suo egoismo e si sforza di non aver più altro volere che il volere dell'infinita Sapienza.
     Sì, ciò si può! ciò è il dovere dell'uomo! La ragione, che è la voce di Dio, la ragione ne dice che bisogna tutto sacrificare alla virtù. E sarebbe compiuto il sacrificio di cui siamo debitori alla virtù, se nei casi più dolorosi luttassimo contro il volere di Colui che d'ogni virtù è il principio?
     Quando il patibolo o qualunque altro martirio è inevitabile, il temerlo codardamente, il non saper muovere ad esso benedicendo il Signore, è segno di miserabile degradazione od ignoranza. Ed è non solamente d'uopo consentire alla propria morte, ma all'afflizione che ne proveranno i nostri cari. Altro non lice se non dimandare che Dio la temperi, che Dio tutti ci regga: tal preghiera è sempre esaudita.

CAPO XVI

Volsero alcuni giorni, ed io era nel medesimo stato; cioè in una mestizia dolce, piena di pace e di pensieri religiosi. Pareami d'aver trionfato d'ogni debolezza, e di non essere più accessibile ad alcuna inquietudine. Folle illusione! L'uomo dee tendere alla perfetta costanza, ma non vi giunge mai sulla terra. Che mi turbò? La vista d'un amico infelice; la vista del mio buon Piero, che passò pochi palmi di distanza da me, sulla galleria, mentr'io era alla finestra. L'aveano tratto dal suo covile per condurlo alle carceri criminali.
     Egli, e coloro che l'accompagnavano, passarono così presto, che appena ebbi campo a riconoscerlo, a vedere un suo cenno di saluto, ed a restituirglielo.
     Povero giovane! Nel fiore dell'età, con un ingegno di splendide speranze, con un carattere onesto, delicato, amantissimo, fatto per godere gloriosamente della vita, precipitato in prigione per cose politiche, in tempo da non poter certamente evitare i più severi fulmini della legge!
     Mi prese tal compassione di lui, tale affanno di non poterlo redimere, di non poterlo almeno confortare colla mia presenza e colle mie parole, che nulla valeva a rendermi un poco di calma. Io sapeva quant'egli amasse sua madre, suo fratello, le sue sorelle, il cognato, i nipotini; quant'egli agognasse contribuire alla loro felicità, quanto fosse riamato da tutti quei cari oggetti. Io sentiva qual dovesse essere l'afflizione di ciascun di loro a tanta disgrazia. Non vi sono termini per esprimere la smania che allora s'impadroni di me. E questa smania si prolungò cotanto, ch'io disperava di più sedarla.
     Anche questo spavento era un'illusione. O afflitti, che vi credete preda d'un ineluttabile, orrendo, sempre crescente dolore, pazientate alquanto, e vi disingannerete! Né somma pace, né somma inquietudine possono durare quaggiù. Conviene persuadersi di questa verità, per non insuperbire nelle ore felici e non avvilirsi in quelle del perturbamento.
     A lunga smania successe stanchezza ed apatia. Ma l'apatia neppure non è durevole, e temetti di dover, quindi in poi, alternare senza rifugio tra questa e l'opposto eccesso. Inorridii alla prospettiva di simile avvenire, e ricorsi anche questa volta ardentemente alla preghiera.
     Io dimandai a Dio d'assistere il mio misero Pietro come me, e la sua casa come la mia. Solo ripetendo questi voti potei veramente tranquillarmi.

CAPO XVII

Ma quando l'animo era quetato io rifletteva alle smanie sofferte, e adirandomi della mia debolezza, studiava il modo di guarirne. Giovommi a tal uopo questo espediente. Ogni mattina mia prima occupazione, dopo breve omaggio al Creatore, era il fare una diligente e coraggiosa rassegna d'ogni possibile evento atto a commuovermi. Su ciascuno fermava vivamente la fantasia, e mi vi preparava: dalle più care visite, fino alla visita del carnefice, io le immaginava tutte. Questo tristo esercizio sembrava per alcuni giorni incomportevole, ma volli essere perseverante, ed in breve ne fui contento.
     Al primo dell'anno (1821) il conte Luigi Porro ottenne di venirmi a vedere. La tenera e calda amicizia ch'era tra noi, il bisogno che avevamo di dirci tante cose, l'impedimento che a questa effusione era posto dalla presenza d'un attuario, il troppo breve tempo che ci fu dato di stare insieme, i sinistri presentimenti che mi angosciavano, lo sforzo che facevamo egli ed io di parer tranquilli, tutto ciò parea dovermi mettere una delle più terribili tempeste nel cuore. Separato da quel caro amico, mi sentii in calma; intenerito, ma in calma.
     Tale è l'efficacia del premunirsi contro le forti emozioni.
     Il mio impegno di acquistare una calma costante non movea tanto dal desiderio di diminuire la mia infelicità, quanto dall'apparirmi brutta, indegna dell'uomo, l'inquietudine. Una mente agitata non ragiona più: avvolta fra un turbine irresistibile d'idee esagerate, si forma una logica sciocca, furibonda, maligna: è in uno stato assolutamente antifilosofico, anticristiano.
     S'io fossi predicatore, insisterei spesso sulla necessità di bandire l'inquietudine: non si può esser buono ad altro patto. Com'era pacifico con sé e cogli altri Colui che dobbiamo tutti imitare! Non v'è grandezza d'animo, non v'è giustizia senza idee moderate, senza uno spirito tendente più a sorridere che ad adirarsi degli avvenimenti di questa breve vita. L'ira non ha qualche valore se non nel caso rarissimo che sia presumibile d'umiliare con essa un malvagio e di ritrarlo dall'iniquità.
     Forse si dànno smanie di natura diversa da quelle ch'io conosco, e meno condannevoli. Ma quella che m'aveva fin allora fatto suo schiavo, non era una smania di pura afflizione: vi si mescolava sempre molto odio, molto prurito di maledire, di dipingermi la società o questi o quegli individui coi colori più esecrabili. Malattia epidemica nel mondo! L'uomo si reputa migliore, abborrendo gli altri. Pare che tutti gli amici si dicano all'orecchio: «Amiamoci solamente fra noi; gridando che tutti sono ciurmaglia, sembrerà che siamo semidei».
     Curioso fatto, che il vivere arrabbiato piaccia tanto! Vi si pone una specie d'eroismo. Se l'oggetto contro cui ieri si fremeva è morto, se ne cerca subito un altro. «Di chi mi lamenterò oggi? chi odierò? sarebbe mai quello il mostro?... Oh gioia! l'ho trovato. Venite, amici, laceriamolo!»
     Così va il mondo: e, senza lacerarlo, posso ben dire che va male.

CAPO XVIII

Non v'era molta malignità nel lamentarmi dell'orridezza della stanza ove m'aveano posto. Per buona ventura, restò vota una migliore, e mi si fece l'amabile sorpresa di darmela.
     Non avrei io dovuto esser contentissimo a tale annunzio? Eppure... Tant'è; non ho potuto pensare a Maddalena senza rincrescimento. Che fanciullaggine! affezionarsi sempre a qualche cosa, anche con motivi, per verità, non molto forti! Uscendo di quella cameraccia, voltai indietro lo sguardo, verso la parete alla quale io m'era sì sovente appoggiato, mentre, forse un palmo più in là, vi s'appoggiava dal lato opposto la misera peccatrice. Avrei voluto sentire ancora una volta que' due patetici versi:

     Chi rende alla meschina
     la sua felicità?

Vano desiderio! Ecco una separazione di più nella mia sciagurata vita. Non voglio parlarne lungamente, per non far ridere di me; ma sarei un ipocrita se non confessassi che ne fui mesto per più giorni.
     Nell'andarmene, salutai due de' poveri ladri, miei vicini, ch'erano alla finestra. Il caporione non v'era, ma avvertito dai compagni v'accorse, e mi risalutò anch'egli. Si mise quindi a cantarellare l'aria: «Chi rende alla meschina...». Voleva egli burlarsi di me? Scommetto che se facessi questa dimanda a cinquanta persone, quarantanove risponderebbero: «Sì». Ebbene, ad onta di tanta pluralità di voti, inclino a credere che il buon ladro intendea di farmi una gentilezza. Io la ricevetti come tale, e gliene fui grato, e gli diedi ancora un'occhiata: ed egli, sporgendo il braccio fuori de' ferri col berretto in mano, faceami ancor cenno allorch'io voltava per discendere la scala.
     Quando fui nel cortile, ebbi una consolazione. V'era il mutolino sotto il portico. Mi vide, mi riconobbe, e volea corrermi incontro. La moglie del custode, chi sa perché? l'afferrò pel collare e lo cacciò in casa. Mi spiacque di non poterlo abbracciare, ma i saltetti ch'ei fece per correre a me mi commossero deliziosamente. » cosa sì dolce l'essere amato!
     Era giornata di grandi avventure. Due passi più in là, mossi vicino alla finestra della stanza già mia, e nella quale ora stava Gioia. «Buon giorno, Melchiorre!» gli dissi passando. Alzò il capo, e balzando verso me, gridò: «Buon giorno, Silvio!»
     Ahi! non mi fu dato di fermarmi un istante. Voltai sotto il portone, salii una scaletta, e venni posto in una cameruccia pulita, al di sopra di quella di Gioia.
     Fatto portare il letto, e lasciato solo dai secondini, mio primo affare fu di visitare i muri. V'erano alcune memorie scritte, quali con matita, quali con carbone, quali con punta incisiva. Trovai graziose due strofe francesi, che or m'incresce di non avere imparate a memoria. Erano firmate Le duc de Normandie. Presi a cantarle, adattandovi alla meglio l'aria della mia povera Maddalena: ma ecco una voce vicinissima che le ricanta con altr'aria. Com'ebbe finito, gli gridai: «Bravo!». Ed egli mi salutò gentilmente, chiedendomi s'io era Francese.
     «No; sono Italiano, e mi chiamo Silvio Pellico.»
     «L'autore della Francesca da Rimini?»
     «Appunto.»
     E qui un gentile complimento, e le naturali condoglianze sentendo ch'io fossi in carcere.
     Mi dimandò di qual parte d'Italia fossi nativo.
     «Di Piemonte,» dissi «sono Saluzzese.»
     E qui nuovo gentile complimento sul carattere e sull'ingegno de' Piemontesi, e particolare menzione de' valentuomini Saluzzesi, e in ispecie di Bodoni.
     Quelle poche lodi erano fine, come si fanno da persona di buona educazione.
     «Or mi sia lecito» gli dissi «di chiedere a voi, signore, chi siete.»
     «Avete cantata una mia canzoncina.»
     «Quelle due belle strofette che stanno sul muro, sono vostre?»
     «Sì, signore.»
     «Voi siete dunque...»
     «L'infelice duca di Normandia.»

CAPO XIX

Il custode passava sotto le nostre finestre, e ci fece tacere
     «Quale infelice duca di Normandia?» andava io ruminando. «Non è questo il titolo che davasi al figlio di Luigi XVI? Ma quel povero fanciullo è indubitatamente morto. Ebbene, il mio vicino sarà uno dei disgraziati che si sono provati a farlo rivivere. Già parecchi si spacciarono per Luigi XVII, e furono riconosciuti impostori: qual maggior credenza dovrebbe questi ottenere?»
     Sebbene io cercassi di stare in dubbio, un'invincibile incredulità prevaleva in me, ed ognor continuò a prevalere. Nondimeno determinai di non mortificare l'infelice, qualunque frottola fosse per raccontarmi.
     Pochi istanti dappoi, ricominciò a cantare, indi ripigliammo la conversazione.
     Alla mia dimanda sull'esser suo, rispose ch'egli era appunto Luigi XVII, e si diede a declamare con forza contro Luigi XVIII, suo zio, usurpatore de' suoi diritti.
     «Ma questi diritti, come non li faceste valere al tempo della Ristorazione?»
     «Io mi trovava allora mortalmente ammalato a Bologna. Appena risanato, volai a Parigi, mi presentai alle Alte Potenze, ma quel ch'era fatto era fatto: l'iniquo mio zio non volle riconoscermi; mia sorella s'unì a lui per opprimermi. Il solo buon principe di Condé m'accolse a braccia aperte, ma la sua amicizia nulla poteva. Una sera, per le vie di Parigi, fui assalito da sicarii armati di pugnali, ed a stento mi sottrassi a' loro colpi. Dopo aver vagato qualche tempo in Normandia, tornai in Italia, e mi fermai a Modena. Di lì, scrivendo incessantemente ai monarchi d'Europa, e particolarmente all'imperatore Alessandro, che mi rispondea colla massima gentilezza, io non disperava d'ottenere finalmente giustizia, o se, per politica, voleano sacrificare i miei diritti al trono di Francia, che almeno mi s'assegnasse un decente appannaggio. Venni arrestato, condotto ai confini del ducato di Modena, e consegnato al Governo austriaco. Or, da otto mesi, sono qui sepolto, e Dio sa quando uscirò!»
     Non prestai fede a tutte le sue parole. Ma ch'ei fosse lì sepolto era una verità, e m'ispirò una viva compassione.
     Lo pregai di raccontarmi in compendio la sua vita. Mi disse con minutezza tutti i particolari ch'io già sapeva intorno Luigi XVII, quando lo misero collo scellerato Simon, calzolaio; quando lo indussero ad attestare un'infame calunnia contro i costumi della povera regina sua madre, ecc., ecc. E finalmente, che essendo in carcere, venne gente una notte a prenderlo; un fanciullo stupido per nome Mathurin fu posto in sua vece, ed ei fu trafugato. V'era nella strada una carrozza a quattro cavalli, ed uno de' cavalli era una macchina di legno, nella quale ei fu celato. Andarono felicemente al Reno, e passati i confini, il generale... (mi disse il nome, ma non me lo ricordo) che l'avea liberato gli fece per qualche tempo da educatore, da padre; lo mandò o condusse quindi in America. Là il giovine re senza regno ebbe molte peripezie, patì la fame ne' deserti, militò, visse onorato e felice alla corte del re del Brasile, fu calunniato, perseguitato, costretto a fuggire. Tornò in Europa in sul finire dell'impero napoleonico; fu tenuto prigione a Napoli da Giovacchino Murat, e quando si rivide libero ed in procinto di reclamare il trono di Francia, lo colpì a Bologna quella funesta malattia, durante la quale Luigi XVIII fu incoronato.

CAPO XX

Ei raccontava questa storia con una sorprendente aria di verità. Io, non potendo crederlo, pur l'ammirava. Tutti i fatti della rivoluzione francese gli erano notissimi; ne parlava con molta spontanea eloquenza, e riferiva ad ogni proposito aneddoti curiosissimi. V'era alcun che di soldatesco nel suo dire, ma senza mancare di quella eleganza ch'è data dall'uso della fina società.
     «Mi permetterete» gli dissi «ch'io vi tratti alla buona, ch'io non vi dia titoli.»
     «Questo è ciò che desidero» rispose. «Dalla sventura ho almeno tratto questo guadagno, che so sorridere di tutte le vanità. V'assicuro che mi pregio più d'esser uomo che d'esser re.»
     Mattina e sera, conversavamo lungamente insieme; e, ad onta di ciò ch'io reputava esser commedia in lui, l'anima sua mi pareva buona, candida, desiderosa d'ogni bene morale. Più volte fui per dirgli: «Perdonate, io vorrei credere che foste Luigi XVII, ma sinceramente vi confesso che la persuasione contraria domina in me, abbiate tanta franchezza da rinunciare a questa finzione.» E ruminava tra me una bella predicuccia da fargli sulla vanità d'ogni bugia, anche delle bugie che sembrano innocue.
     Di giorno in giorno differiva; sempre aspettava che l'intimità nostra crescesse ancora di qualche grado, e mai non ebbi ardire d'eseguire il mio intento.
     Quando rifletto a questa mancanza d'ardire, talvolta la scuso come urbanità necessaria, onesto timore d'affliggere, e che so io. Ma queste scuse non m'accontentano, e non posso dissimulare che sarei più soddisfatto di me se non mi fossi tenuta nel gozzo l'ideata predicuccia. Fingere di prestar fede ad una impostura, è pusillanimità: parmi che nol farei più.
     Sì, pusillanimità! Certo, che per quanto s'involva in delicati preamboli, è aspra cosa il dire ad uno: «Non vi credo». Ei si sdegnerà, perderemo il piacere della sua amicizia, ci colmerà forse d'ingiurie. Ma ogni perdita è più onorevole del mentire. E forse il disgraziato che ci colmerebbe d'ingiurie vedendo che una sua impostura non è creduta, ammirerebbe poscia in secreto la nostra sincerità, e gli sarebbe motivo di riflessioni che il ritrarrebbero a miglior via.
     I secondini inclinavano a credere ch'ei fosse veramente Luigi XVII, ed avendo già veduto tante mutazioni di fortune, non disperavano che costui non fosse per ascendere un giorno al trono di Francia e si ricordasse della loro devotissima servitù. Tranne il favorire la sua fuga, gli usavano tutti i riguardi ch'ei desiderava.
     Fui debitore a ciò, dell'onore di vedere il gran personaggio. Era di statura mediocre, dai quaranta ai quarantacinque anni, alquanto pingue, e di fisionomia propriamente borbonica. Egli è verosimile che un'accidentale somiglianza coi Borboni l'abbia indotto a rappresentare quella trista parte.

CAPO XXI

D'un altro indegno rispetto umano bisogna ch'io m'accusi. Il mio vicino non era ateo, ed anzi parlava talvolta dei sentimenti religiosi come uomo che li apprezza e non v'è straniero; ma serbava tuttavia molte prevenzioni irragionevoli contro il Cristianesimo, il quale ei guardava meno nella sua vera essenza, che nei suoi abusi. La superficiale filosofia che in Francia precedette e seguì la rivoluzione, l'aveva abbagliato. Gli pareva che si potesse adorar Dio con maggior purezza, che secondo la religione del Vangelo. Senza aver gran cognizione di Condillac e di Tracy, li venerava come sommi pensatori, e s'immaginava che quest'ultimo avesse dato il compimento a tutte le possibili indagini metafisiche.
     Io che aveva spinto più oltre i miei studi filosofici, che sentiva la debolezza della dottrina sperimentale, che conosceva i grossolani errori di critica con cui il secolo di Voltaire aveva preso a voler diffamare il Cristianesimo; io che avea letto Guénée ed altri valenti smascheratori di quella falsa critica; io ch'era persuaso non potersi con rigore di logica ammettere Dio e ricusare il Vangelo; io che trovava tanto volgar cosa il seguire la corrente delle opinioni anticristiane e non sapersi elevare a conoscere quanto il cattolicismo, non veduto in caricatura, sia semplice e sublime; io ebbi la viltà di sacrificare al rispetto umano. Le facezie del mio vicino mi confondevano, sebbene non potesse sfuggirmi la loro leggerezza. Dissimulai la mia credenza, esitai, riflettei se fosse o no tempestivo il contraddire, mi dissi ch'era inutile, e volli persuadermi d'essere giustificato.
     Viltà! viltà! Che importa il baldanzoso vigore d'opinioni accreditate, ma senza fondamento? » vero che uno zelo intempestivo è indiscrezione, e può maggiormente irritare chi non crede. Ma il confessare con franchezza, e modestia ad un tempo, ciò che fermamente si tiene per importante verità, il confessarlo anche laddove non è presumibile d'essere approvato, né d'evitare un poco di scherno, egli è preciso dovere. E siffatta nobile confessione può sempre adempirsi, senza prendere inopportunamente il carattere di missionario.
     Egli è dovere di confessare un'importante verità in ogni tempo, perocché se non è sperabile che venga subito riconosciuta, può pure dare tal preparamento all'anima altrui, il quale produca un giorno maggiore imparzialità di giudizi ed il conseguente trionfo della luce.

CAPO XXII

Stetti in quella stanza un mese e qualche dì. La notte dai 18 ai 19 di febbraio (1821) sono svegliato da romore di catenacci e di chiavi; vedo entrare parecchi uomini con lanterna: la prima idea che mi si presentò, fu che venissero a scannarmi. Ma mentre io guardava perplesso quelle figure, ecco avanzarsi gentilmente il conte B., il quale mi dice ch'io abbia la compiacenza di vestirmi presto per partire.
     Quest'annunzio mi sorprese, ed ebbi la follia di sperare che mi si conducesse ai confini del Piemonte. Possibile che sì gran tempesta si dileguasse così? Io racquisterei ancora la dolce libertà? Io rivedrei i miei carissimi genitori, i fratelli, le sorelle?
     Questi lusinghevoli pensieri m'agitarono brevi istanti. Mi vestii con grande celerità, e seguii i miei accompagnatori senza pur poter salutare ancora il mio vicino. Mi pare d'aver udito la sua voce, e m'increbbe di non potergli rispondere.
     «Dove si va?» dissi al conte, montando in carrozza con lui e con un uffiziale di gendarmeria.
     «Non posso significarglielo finché non siamo un miglio al di là di Milano.»
     Vidi che la carrozza non andava verso porta Vercellina, e le mie speranze furono svanite!
     Tacqui. Era una bellissima notte con lume di luna. Io guardava quelle care vie, nelle quali io aveva passeggiato tanti anni così felice; quelle case, quelle chiese. Tutto mi rinnovava mille soavi rimembranze.
     Oh corsia di porta Orientale! Oh pubblici giardini, ov'io avea tante volte vagato con Foscolo, con Monti, con Lodovico di Breme, con Pietro Borsieri, con Porro e co' suoi figliuoli, con tanti altri diletti mortali, conversando in sì gran pienezza di vita e di speranze! Oh come nel dirmi ch'io vi vedeva per l'ultima volta, oh come al vostro rapido fuggire a' miei sguardi, io sentiva d'avervi amato e d'amarvi! Quando fummo usciti dalla porta, tirai alquanto il cappello sugli occhi, e piansi, non osservato.
     Lasciai passare più d'un miglio, poi dissi al conte B.:
     «Suppongo che si vada a Verona.»
     «Si va più in là;» rispose «andiamo a Venezia, ove debbo consegnarla ad una Commissione speciale.»
     Viaggiammo per posta senza fermarci, e giungemmo il 20 febbraio a Venezia.
     Nel settembre dell'anno precedente, un mese prima che m'arrestassero, io era a Venezia, ed aveva fatto un pranzo in numerosa e lietissima compagnia all'albergo della Luna. Cosa strana! Sono appunto dal conte e dal gendarme condotto all'albergo della Luna.
     Un cameriere strabiliò vedendomi, ed accorgendosi (sebbene il gendarme e i due satelliti, che faceano figura di servitori, fossero travestiti) ch'io era nelle mani della forza. Mi rallegrai di quest'incontro, persuaso che il cameriere parlerebbe del mio arrivo a più d'uno.
     Pranzammo, indi fui condotto al palazzo del Doge, ove ora sono i tribunali. Passai sotto quei cari portici delle Procuratie ed innanzi al caffè Florian, ov'io avea goduto sì belle sere nell'autunno trascorso: non m'imbattei in alcuno de' miei conoscenti.
     Si traversa la piazzetta... E su quella piazzetta, nel settembre addietro, un mendico mi avea detto queste singolari parole «Si vede ch'ella è forestiero, signore; ma io non capisco com'ella e tutti i forestieri ammirino questo luogo: per me è un luogo di disgrazia, e vi passo unicamente per necessità».
     «Vi sarà qui accaduto qualche malanno?»
     «Sì, signore; un malanno orribile, e non a me solo. Iddio la scampi, signore, Iddio la scampi!»
     E se n'andò in fretta.
     Or, ripassando io colà, era impossibile che non mi sovvenissero le parole del mendico. E fu ancora su quella piazzetta, che l'anno seguente io ascesi il palco donde intesi leggermi la sentenza di morte e la commutazione di questa pena in quindici anni di carcere duro!
     S'io fossi testa un po' delirante di misticismo, farei gran caso di quel mendico, predicentemi così energicamente esser quello un luogo di disgrazia. Io non noto questo fatto se non come uno strano accidente.
     Salimmo al palazzo; il conte B. parlò co' giudici, indi mi consegnò al carceriere, e, congedandosi da me, m'abbracciò intenerito.

CAPO XXIII

Seguii in silenzio il carceriere. Dopo aver traversato parecchi ànditi e parecchie sale, arrivammo ad una scaletta che ci condusse sotto i Piombi, famose prigioni di Stato fin dal tempo della Repubblica Veneta.
     Ivi il carceriere prese registro del mio nome, indi mi chiuse nella stanza destinatami.
     I così detti Piombi sono la parte superiore del già palazzo del Doge, coperta tutta di piombo.
     La mia stanza avea una gran finestra, con enorme inferriata, e guardava sul tetto parimente di piombo della chiesa di San Marco. Al di là della chiesa, io vedeva in lontananza il termine della piazza, e da tutte parti un'infinità di cupole e di campanili. Il gigantesco campanile di San Marco era solamente separato da me dalla lunghezza della chiesa, ed io udiva coloro che in cima di esso parlavano alquanto forte. Vedevasi anche, al lato sinistro della chiesa, una porzione del gran cortile del palazzo ed una delle entrate. In quella porzione di cortile sta un pozzo pubblico, ed ivi continuamente veniva gente a cavare acqua. Ma la mia prigione essendo così alta, gli uomini laggiù mi parevano fanciulli, ed io non discerneva le loro parole se non quando gridavano. Io mi trovava assai più solitario che non era nelle carceri di Milano.
     Ne' primi giorni le cure del processo criminale che dalla Commissione speciale mi veniva intentato m'attristarono alquanto, e vi s'aggiungea forse quel penoso sentimento di maggior solitudine. Inoltre io era più lontano dalla mia famiglia, e non avea più di essa notizie. Le facce nuove ch'io vedeva non m'erano antipatiche, ma serbavano una serietà quasi spaventata. La fama aveva esagerato loro le trame dei Milanesi e del resto d'Italia per l'indipendenza, e dubitavano ch'io fossi uno dei più imperdonabili motori di quel delirio. La mia piccola celebrità letteraria era nota al custode, a sua moglie, alla figlia, ai due figli maschi, e persino ai due secondini: i quali tutti, chi sa che non s'immaginassero che un autore di tragedie fosse una specie di mago?
     Erano serii, diffidenti, avidi ch'io loro dessi maggior contezza di me, ma pieni di garbo.
     Dopo i primi giorni si mansuefecero tutti, e li trovai buoni. La moglie era quella che più manteneva il contegno ed il carattere di carceriere. Era una donna di viso asciutto asciutto, verso i quarant'anni, di parole asciutte asciutte, non dante il minimo segno d'essere capace di qualche benevolenza ad altri che ai suoi figli.
     Solea portarmi il caffè, mattina e dopo pranzo, acqua, biancheria, ecc. La seguivano ordinariamente sua figlia, fanciulla di quindici anni, non bella ma di pietosi sguardi, e i due figliuoli, uno di tredici, l'altro di dieci. Si ritiravano quindi colla madre, ed i tre giovani sembianti si rivoltavano dolcemente a guardarmi chiudendo la porta. Il custode non veniva da me se non quando aveva da condurmi nella sala ove si adunava la Commissione per esaminarmi. I secondini venivano poco perché attendevano alle prigioni di polizia, collocate ad un piano inferiore, ov'erano sempre molti ladri. Uno di que' secondini era un vecchio di più di settant'anni, ma atto ancora a quella faticosa vita di correre sempre su e giù per le scale ai diversi carceri. L'altro era un giovinotto di ventiquattro o venticinque anni, più voglioso di raccontare i suoi amori che di badare al suo servizio,

CAPO XXIV

Ah sì! le cure d'un processo criminale sono orribili per un prevenuto d'inimicizia allo Stato! Quanto timore di nuocere altrui! quanta difficoltà di lottare contro tante accuse, contro tanti sospetti! quanta verosimiglianza che tutto non s'intrichi sempre più funestamente, se il processo non termina presto, se nuovi arresti vengono fatti, se nuove imprudenze si scoprono, anche di persone non conosciute ma della fazione medesima!
     Ho fermato di non parlare di politica, e bisogna quindi ch'io sopprima ogni relazione concernente il processo. Solo dirò che spesso, dopo essere stato lunghe ore al costituto, io tornava nella mia stanza così esacerbato, così fremente, che mi sarei ucciso, se la voce della religione e la memoria de' cari parenti non m'avessero contenuto.
     L'abitudine di tranquillità, che già mi pareva a Milano d'avere acquistato, era disfatta. Per alcuni giorni disperai di ripigliarla, e furono giorni d'inferno. Allora cessai di pregare, dubitai della giustizia di Dio, maledissi agli uomini ed all'universo, e rivolsi nella mente tutti i possibili sofismi sulla vanità della virtù.
     L'uomo infelice ed arrabbiato è tremendamente ingegnoso a calunniare i suoi simili e lo stesso Creatore. L'ira è più immorale, più scellerata che generalmente non si pensa. Siccome non si può ruggire dalla mattina alla sera, per settimane, e l'anima, la più dominata dal furore, ha di necessità i suoi intervalli di riposo, quegli intervalli sogliono risentirsi dell'immoralità che li ha preceduti. Allora sembra d'essere in pace, ma è una pace maligna, irreligiosa; un sorriso selvaggio, senza carità, senza dignità; un umore di disordine, d'ebbrezza, di scherno.
     In simile stato io cantava per ore intere con una specie d'allegrezza affatto sterile di buoni sentimenti; io celiava con tutti quelli che entravano nella mia stanza; io mi sforzava di considerare tutte le cose con una sapienza volgare, la sapienza de' cinici.
     Quell'infame tempo durò poco: sei o sette giorni.
     La mia Bibbia era polverosa. Uno de' ragazzi del custode, accarezzandomi, disse: «Dacché ella non legge più quel libraccio, non ha più tanta melanconia, mi pare».
     «Ti pare?» gli dissi.
     E presa la Bibbia, ne tolsi col fazzoletto la polvere, e sbadatamente apertala, mi caddero sotto gli occhi queste parole: «Et ait ad discipulos suos: Impossibile est ut non veniant scandala; vae autem illi per quem veniunt! Utilius est illi, si lapis molaris imponatur circa collum eius et projiciatur in mare, quam ut scandalizet unum de pusillis istis».
     Fui colpito di trovare queste parole, ed arrossii che quel ragazzo si fosse accorto, dalla polvere ch'ei sopra vedeavi, ch'io più non leggeva la Bibbia, e ch'ei presumesse ch'io fossi divenuto più amabile divenendo incurante di Dio.
     «Scapestratello!» gli dissi con amorevole rimprovero e dolendomi d'averlo scandalezzato. «Questo non è un libraccio, e da alcuni giorni che nol leggo, sto assai peggio. Quando tua madre ti permette di stare un momento con me, m'industrio di cacciar via il mal umore; ma se tu sapessi come questo mi vince, allorché son solo, allorché tu m'odi cantare qual forsennato!»
 
 
 
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