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B  I  B  L  I  O  T  H  E  C  A    A  U  G  U  S  T  A  N  A

 

 

 

 
Silvio Pellico
Le mie prigioni
 


 






 




C a p o  L  -  LXXIV

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CAPO L

Addì 11 gennaio (1822), verso le 9 del mattino, Tremerello coglie un'occasione per venire da me, e tutto agitato mi dice:
     «Sa ella che nell'isola di San Michele di Murano, qui poco lontano da Venezia, v'è una prigione dove sono forse più di cento carbonari?»
     «Me l'avete già detto altre volte. Ebbene... che volete dire?... Su, parlate. Havvene forse di condannati?»
     «Appunto.»
     «Quali?»
     «Non so.»
     «Vi sarebbe mai il mio infelice Maroncelli?»
     «Ah signore! non so, non so chi vi sia.»
     Ed andossene turbato, e guardandomi con atti di compassione.
     Poco appresso viene il custode, accompagnato da' secondini e da un uomo ch'io non avea mai veduto. Il custode parea confuso. L'uomo nuovo prese la parola:
     «Signore, la Commissione ha ordinato ch'ella venga con me.»
     «Andiamo;» dissi «e voi dunque chi siete?»
     «Sono il custode delle carceri di San Michele, dov'ella dev'essere tradotta.»
     Il custode de' Piombi consegnò a questo i denari miei, ch'egli avea nelle mani. Dimandai ed ottenni la permissione di far qualche regalo a' secondini. Misi in ordine la mia roba, presi la Bibbia sotto il braccio, e partii. Scendendo quelle infinite scale, Tremerello mi strinse furtivamente la mano; parea voler dirmi: «Sciagurato! tu sei perduto.»
     Uscimmo da una porta che mettea sulla laguna; e quivi era una gondola con due secondini del nuovo custode
     Entrai in gondola, ed opposti sentimenti mi commoveano: - un certo rincrescimento d'abbandonare il soggiorno dei Piombi, ove molto avea patito, ma ove pure io m'era affezionato ad alcuno, ed alcuno erasi affezionato a me, - il piacere di trovarmi, dopo tanti mesi di reclusione, all'aria aperta, di vedere il cielo e la città e le acque, senza l'infausta quadratura delle inferriate, - il ricordarmi la lieta gondola che in tempo tanto migliore mi portava per quella laguna medesima, e le gondole del lago di Como e quelle del lago Maggiore, e le barchette del Po, e quelle del Rodano e della Sonna!... Oh ridenti anni svaniti! E chi era stato, al mondo, felice al pari di me?
     Nato da' più amorevoli parenti, in quella condizione che non è povertà, e che avvicinandoti quasi egualmente al povero ed al ricco t'agevola il vero conoscimento de' due stati - condizione ch'io reputo la più vantaggiosa per coltivare gli affetti -; io, dopo un'infanzia consolata da dolcissime cure domestiche, era passato a Lione presso un vecchio cugino materno, ricchissimo e degnissimo delle sue ricchezze, ove tutto ciò che può esservi d'incanto per un cuore bisognoso d'eleganza e d'amore avea deliziato il primo fervore della mia gioventù: di lì tornato in Italia, e domiciliato co' genitori a Milano, avea proseguito a studiare ed amare la società ed i libri, non trovando che amici egregi, e lusinghevole plauso. Monti e Foscolo, sebbene avversarli fra loro, m'erano benevoli egualmente. M'affezionai più a quest'ultimo; e siffatto iracondo uomo, che colle sue asprezze provocava tanti a disamarlo, era per me tutto dolcezza e cordialità, ed io lo riveriva teneramente. Gli altri letterati d'onore m'amavano anch'essi, com'io li riamava. Niuna invidia, niuna calunnia m'assalì mai, od almeno erano di gente sì screditata che non potea nuocere. Alla caduta del regno d'Italia, mio padre avea riportato il suo domicilio a Torino, col resto della famiglia, ed io, procrastinando di raggiungere sì care persone, avea finito per rimanermi a Milano, ove tanta felicità mi circondava, da non sapermi indurre ad abbandonarla.
     Fra altri ottimi amici, tre, in Milano, predominavano sul mio cuore, D. Pietro Borsieri, Monsign. Lodovico di Breme, ed il conte Luigi Porro Lambertenghi. Vi s'aggiunse in appresso il conte Federigo Confalonieri. Fattomi educatore di due bambini di Porro, io era a quelli come un padre, ed al loro padre come un fratello. In quella casa affluiva tutto ciò non solo che avea di più colto la città, ma copia di ragguardevoli viaggiatori. Ivi conobbi la Stäel, Schlegel, Davis, Byron, Hobhouse, Brougham, e molti altri illustri di varie parti d'Europa. Oh quanto rallegra, e quanto stimola ad ingentilirsi, la conoscenza degli uomini di merito! Sì, io era felice! io non avrei mutata la mia sorte con quella d'un principe! - E da sorte sì gioconda balzare tra sgherri, passare di carcere in carcere, e finire per essere strozzato, o perire nei ceppi!

CAPO LI

Volgendo tai pensieri, giunsi a San Michele, e fui chiuso in una stanza che avea la vista d'un cortile, della laguna e della belle isola di Murano. Chiesi di Maroncelli al custode, alla moglie sua, a quattro secondini. Ma mi faceano visite brevi e piene di diffidenza, e non voleano dirmi niente
     Nondimeno, dove son cinque o sei persone egli è difficile che non se ne trovi una vogliosa di compatire e di parlare. Io trovai tal persona, e seppi quanto segue:
     Maroncelli, dopo essere stato lungamente solo, era stato messo col conte Camillo Laderchi: quest'ultimo era uscito di carcere, da pochi giorni, come innocente, ed il primo tornava ad esser solo. De' nostri compagni erano anche usciti, come innocenti, il professor Gian-Domenico Romagnosi, ed il conte Giovanni Arrivabene. Il capitano Rezia ed il signor Canova erano insieme. Il professor Ressi giacea moribondo, in un carcere vicino a quello di questi due.
     «Di quelli che non sono usciti» diss'io «le condanne son dunque venute. E che s'aspetta a palesarcele? Forse che il povero Ressi muoia, o sia in grado d'udire la sentenza, non è vero?»
     «Credo di sì.»
     Tutti i giorni io dimandava dell'infelice.
     «Ha perduto la parola; - l'ha riacquistata, ma vaneggia e non capisce; - dà pochi segni di vita; - sputa sovente sangue, e vaneggia ancora; - sta peggio; - sta meglio; - è in agonia.»
     Tali risposte mi si diedero per più settimane. Finalmente una mattina mi si disse: «» morto!».
     Versai una lagrima per lui, e mi consolai pensando ch'egli aveva ignorata la sua condanna!
     Il dì seguente, 21 febbraio (1822), il custode viene a prendermi: erano le dieci antimeridiane. Mi conduce nella sale della Commissione, e si ritira. Stavano seduti, e si alzarono, il presidente, l'inquisitore e i due giudici assistenti.
     Il presidente, con atto di nobile commiserazione, mi disse che la sentenza era venuta, e che il giudizio era stato terribile, ma già l'Imperatore l'aveva mitigato.
     L'inquisitore mi lesse la sentenza: «Condannato a morte». Poi lesse il rescritto imperiale: «La pena è commutata in quindici anni di carcere duro, da scontarsi nella fortezza di Spielberg».
     Risposi: «Sia fatta là volontà di Dio!».
     E mia intenzione era veramente di ricevere da cristiano questo orrendo colpo, e non mostrare né nutrire risentimento contro chicchessia.
     Il presidente lodò la mia tranquillità, e mi consigliò a serbarla sempre, dicendomi che da questa tranquillità potea dipendere l'essere forse, fra due o tre anni, creduto meritevole di maggior grazia. (Invece di due o tre, furono poi molti di più.)
     Anche gli altri giudici mi volsero parole di gentilezza e di speranza. Ma uno di loro che nel processo m'era ognora sembrato molto ostile, mi disse alcun che di cortese che pur pareami pungente; e quella cortesia giudicai che fosse smentita dagli sguardi, ne' quali avrei giurato essere un riso di gioia e d'insulto.
     Or non giurerei più che fosse così: posso benissimo essermi ingannato. Ma il sangue allora mi si rimescolò, e stentai a non prorompere in furore. Dissimulai, e mentre ancora mi lodavano della mia cristiana pazienza, io già l'aveva in segreto perduta.
     «Dimani» disse l'inquisitore «ci rincresce di doverle annunciare la sentenza in pubblico; ma è formalità impreteribile.»
     «Sia pure» dissi.
     «Da quest'istante le concediamo» soggiunse «la compagnia del suo amico.»
     E chiamato il custode, mi consegnarono di nuovo a lui, dicendogli che fossi messo con Maroncelli.

CAPO LII

Qual dolce istante fu per l'amico e per me il rivederci, dopo un anno e tre mesi di separazione e di tanti dolori! Le gioie dell'amicizia ci fecero quasi dimenticare per alcuni istanti la condanna.
     Mi strappai nondimeno tosto dalle sue braccia, per prendere la penna e scrivere a mio padre. Io bramava ardentemente che l'annuncio della mia triste sorte giungesse alla famiglia da me, piuttosto che da altri, affinché lo strazio di quegli amati cuori venisse temperato dal mio linguaggio di pace e di religione. I giudici mi promisero di spedir subito quella lettera.
     Dopo ciò Maroncelli mi parlò del suo processo, ed io del mio, ci confidammo parecchie carcerarie peripezie, andammo alla finestra, salutammo tre altri amici ch'erano alle finestre loro: due erano Canova e Rezia, che trovavansi insieme, il primo condannato a sei anni di carcere duro ed il secondo a tre; il terzo era il dottor Cesare Armari, che ne' mesi precedenti era stato mio vicino ne' Piombi. Questi non aveva avuto alcuna condanna, ed uscì poi dichiarato innocente.
     Il favellare cogli uni e cogli altri fu piacevole distrazione per tutto il dì e tutta la sera. Ma andati a letto, spento il lume, e fatto silenzio, non mi fu possibile dormire, la testa ardevami, ed il cuore sanguinava, pensando a casa mia. - Reggerebbero i miei vecchi genitori a tanta sventura? Basterebbero gli altri lor figli a consolarli? Tutti erano amati quanto io, e valeano più di me; ma un padre ed una madre trovano essi mai, ne' figli che lor restano, un compenso per quello che pèrdono?
     Avessi solo pensato a' congiunti ed a qualche altra diletta persona! La lor ricordanza mi affliggeva e m'inteneriva. Ma pensai anche al creduto riso di gioia e d'insulto di quel giudice, al processo, al perché delle condanne, alle passioni politiche, alla sorte di tanti miei amici... e non seppi più giudicare con indulgenza alcuno dei miei avversarii. Iddio mi metteva in una gran prova! Mio debito sarebbe stato di sostenerla con virtù. Non potei! non volli! La voluttà dell'odio mi piacque più del perdono: passai una notte d'inferno.
     Il mattino, non pregai. L'universo mi pareva opera d'una potenza nemica del bene. Altre volte era già stato così calunniatore di Dio; ma non avrei creduto di ridivenirlo, e ridivenirlo in poche ore! Giuliano ne' suoi massimi furori non poteva essere più empio di me. Ruminando pensieri di odio, principalmente quand'uno è percosso da somma sventura, la quale dovrebbe renderlo vieppiù religioso, foss'egli anche stato giusto, diventa iniquo. Si, foss'egli anche stato giusto; perocché non si può odiare senza superbia. E chi sei tu, o misero mortale, per pretendere che niuno tuo simile ti giudichi severamente? per pretendere che niuno ti possa far male di buona fede, credendo d'operare con giustizia? per lagnarti, se Dio permette che tu patisca piuttosto in un modo che in un altro?
     Io mi sentiva infelice di non poter pregare; ma ove regna superbia, non rinviensi altro Dio che sé medesimo.
     Avrei voluto raccomandare ad un supremo soccorritore i miei desolati parenti, e più in lui non credeva.

CAPO LIII

Alle 9 antimeridiane, Maroncelli ed io fummo fatti entrare in gondola, e ci condussero in città. Approdammo al palazzo del Doge, e salimmo alle carceri. Ci misero nella stanza ove pochi giorni prima era il signor Caporali; ignoro ove questi fosse stato tradotto. Nove o dieci sbirri sedeano a farci guardia, e noi passeggiando aspettavamo l'istante di esser tratti in piazza L'aspettazione fu lunga. Comparve soltanto a mezzodì l'inquisitore, ad annunciarci che bisognava andare. Il medico si presentò, suggerendoci di bere un bicchierino d'acqua di menta; accettammo, e fummo grati, non tanto di questa, quanto della profonda compassione che il buon vecchio ci dimostrava. Era il dottor Dosmo. S'avanzò quindi il capo-sbirro, e ci pose le manette. Seguimmo lui, accompagnati dagli altri sbirri.
     Scendemmo la magnifica scala de' giganti, ci ricordammo del doge Marin Faliero, ivi decapitato, entrammo nel gran portone che dal cortile del palazzo mette sulla piazzetta, e qui giunti voltammo verso la laguna. A mezzo della piazzetta era il palco ove dovemmo salire. Dalla scala de' giganti fino a quel palco stavano due file di soldati tedeschi; passammo in mezzo ad esse.
     Montati là sopra, guardammo intorno, e vedemmo in quell'immenso popolo il terrore. Per varie parti in lontananza schieravansi altri armati. Ci fu detto, esservi i cannoni colle micce accese dappertutto.
     Ed era quella piazzetta, ove nel settembre 1820, un mese prima del mio arresto, un mendico aveami detto: «Questo è luogo di disgrazia!».
     Sovvènnemi di quel mendico, e pensai: «Chi sa, che in tante migliaia di spettatori non siavi anch'egli, e forse mi ravvisi?».
     Il capitano tedesco gridò che ci volgessimo verso il palazzo e guardassimo in alto. Obbedimmo, e vedemmo sulla loggia un curiale con una carta in mano. Era la sentenza. La lesse con voce elevata.
     Regnò profondo silenzio sino all'espressione: condannati a morte. Allora s'alzò un generale mormorio di compassione. Successe nuovo silenzio per udire il resto della lettura. Nuovo mormorio s'alzò all'espressione: condannati a carcere duro, Maroncelli per vent'anni, e Pellico per quindici.
     Il capitano ci fe' cenno di scendere. Gettammo un'altra volta lo sguardo intorno, e scendemmo. Rientrammo nel cortile, risalimmo lo scalone, tornammo nella stanza donde eravamo stati tratti, ci tolsero le manette, indi fummo ricondotti a San Michele.

CAPO LIV

Quelli ch'erano stati condannati avanti noi, erano già partiti per Lubiana e per lo Spielberg, accompagnati da un commissario di polizia. Ora aspettavasi il ritorno del medesimo commissario, perché conducesse noi al destino nostro. Questo intervallo durò un mese.
     La mia vita era allora di molto favellare ed udir favellare, per distrarmi. Inoltre Maroncelli mi leggeva le sue composizioni letterarie, ed io gli leggeva le mie. Una sera lessi dalla finestra l'Ester d'Engaddi a Canova, Rezia ed Armari; e la sera seguente l'Iginia d'Asti.
     Ma la notte io fremeva e piangeva, e dormiva poco o nulla.
     Bramava, e paventava ad un tempo, di sapere come la notizia del mio infortunio fosse stata ricevuta da' miei parenti.
     Finalmente venne una lettera di mio padre. Qual fu il mio dolore, vedendo che l'ultima da me direttagli non gli era stata spedita subito, come io avea tanto pregato l'inquisitore! L'infelice padre, lusingatosi sempre che sarei uscito senza condanna, presa un giorno la «Gazzetta di Milano», vi trovò la mia sentenza! Egli stesso mi narrava questo crudele fatto, e mi lasciava immaginare quanto l'anima sua ne rimanesse straziata.
     Oh come, insieme all'immensa pietà che sentii di lui, della madre, e di tutta la famiglia, arsi di sdegno, perché la lettera mia non fosse stata sollecitamente spedita! Non vi sarà stata malizia in questo ritardo, ma io la supposi infernale; io credetti di scorgervi un raffinamento di barbarie, un desiderio che il flagello avesse tutta la gravezza possibile anche per gl'innocenti miei congiunti. Avrei voluto poter versare un mare di sangue, per punire questa sognata inumanità.
     Or che giudico pacatamente, non la trovo verisimile. Quel ritardo non nacque, senza dubbio, da altro che da noncuranza.
     Furibondo qual io era, fremetti udendo che i miei compagni si proponeano di far la Pasqua prima di partire, e sentii ch'io non dovea farla, stante la niuna mia volontà di perdonare. Avessi dato questo scandalo!

CAPO LV

Il commissario giunse alfine di Germania, e venne a dirci che fra due giorni partiremmo.
     «Ho il piacere» soggiunse «di poter dar loro una consolazione. Tornando dallo Spielberg, vidi a Vienna S.M. l'Imperatore, il quale mi disse che i giorni di pena di lor signori vuol valutarli non di 24 ore, ma di 12. Con questa espressione intende significare che la pena è dimezzata.»
     Questo dimezzamento non ci venne poi mai annunziato officialmente, ma non v'era alcuna probabilità che il commissario mentisse; tanto più che non ci diede già quella nuova in segreto, ma conscia la Commissione.
     Io non seppi neppur rallegrarmene. Nella mia mente erano poco meno orribili sett'anni e mezzo di ferri, che quindici anni. Mi pareva impossibile di vivere sì lungamente.
     La mia salute era di nuovo assai misera. Pativa dolori di petto gravi, con tosse, e credea lesi i polmoni. Mangiava poco, e quel poco nol digeriva.
     La partenza fu nella notte tra il 25 ed il 26 marzo. Ci fu permesso d'abbracciare il dottor Cesare Armari nostro amico. Uno sbirro c'incatenò trasversalmente la mano destra ed il piede sinistro, affinché ci fosse impossibile fuggire. Scendemmo in gondola, e le guardie remigarono verso Fusina.
     Ivi giunti, trovammo allestiti due legni. Montarono Rezia e Canova nell'uno; Maroncelli ed io nell'altro. In uno dei legni era co' due prigioni il commissario, nell'altro un sottocommissario cogli altri due. Compivano il convoglio sei o sette guardie di polizia, armate di schioppo e sciabola, distribuite parte dentro i legni, parte sulla cassetta del vetturino.
     Essere costretto da sventura ad abbandonare la patria è sempre doloroso, ma abbandonarla incatenato, condotto in climi orrendi, destinato a languire per anni fra sgherri, è cosa sì straziante che non v'ha termini per accennarla!
     Prima di varcare le Alpi, vieppiù mi si facea cara d'ora in ora la mia nazione, stante la pietà che dappertutto ci dimostravano quelli che incontravamo. In ogni città, in ogni villaggio, per ogni sparso casolare, la notizia della nostra condanna essendo già pubblica da qualche settimana, eravamo aspettati. In parecchi luoghi, i commissarii e le guardie stentavano a dissipare la folla che ne circondava. Era mirabile il benevolo sentimento che veniva palesato a nostro riguardo.
     In Udine ci accadde una commovente sorpresa. Giunti alla locanda, il commissario fece chiudere la porta del cortile e respingere il popolo. Ci assegnò una stanza, e disse ai camerieri che ci portassero da cena e l'occorrente per dormire. Ecco un istante appresso entrare tre uomini, con materassi sulle spalle. Qual è la nostra meraviglia, accorgendoci che solo uno di loro è al servizio della locanda, e che gli altri sono due nostri conoscenti! Fingemmo d'aiutarli a por giù i materassi, e toccammo loro furtivamente la mano. Le lagrime sgorgavano dal cuore ad essi ed a noi. Oh quanto ci fu penoso di non poterle versare tra le braccia gli uni degli altri!
     I commissarii non s'avvidero di quella pietosa scena, ma dubitai che una delle guardie penetrasse il mistero, nell'atto che il buon Dario mi stringeva la mano. Quella guardia era un veneto. Mirò in volto Dario e me, impallidì, sembrò tentennare se dovesse alzar la voce, ma tacque, e pose gli occhi altrove, dissimulando. Se non indovinò che quelli erano amici nostri, pensò almeno che fossero camerieri di nostra conoscenza.

CAPO LVI

Il mattino partivamo d'Udine, ed albeggiava appena: quell'affettuoso Dario era già nella strada, tutto mantellato; ci salutò ancora, e ci seguì lungo tempo. Vedemmo anche una carrozza venirci dietro per due o tre miglia. In essa qualcheduno facea sventolare un fazzoletto. Alfine retrocesse. Chi sarà stato? Lo supponemmo.
     Oh Iddio benedica tutte le anime generose che non s'adontano d'amare gli sventurati! Ah, tanto più le apprezzo, dacché, negli anni della mia calamità, ne conobbi pur di codarde, che mi rinnegarono e credettero vantaggiarsi ripetendo improperii contro di me. Ma quest'ultime furono poche, ed il numero delle prime non fu scarso.
     M'ingannava, stimando che quella compassione che trovavamo in Italia dovesse cessare laddove fossimo in terra straniera. Ah il buono è sempre compatriota degl'infelici! Quando fummo in paesi illirici e tedeschi avveniva lo stesso che ne' nostri. Questo gemito era universale: arme Herren! (poveri signori!).
     Talvolta, entrando in qualche paese, le nostre carrozze erano obbligate a fermarsi, avanti di decidere ove s'andasse ad alloggiare. Allora la popolazione si serrava intorno a noi, ed udivamo parole di compianto che veramente prorompevano dal cuore. La bontà di quella gente mi commoveva più ancora di quella de' miei connazionali. Oh come io era riconoscente a tutti! Oh quanto è soave la pietà de' nostri simili! Quanto è soave l'amarli!
     La consolazione ch'io indi traea, diminuiva persino i miei sdegni contro coloro ch'io nomava miei nemici.
     «Chi sa» pensavo io «se vedessi da vicino i loro volti, e se essi vedessero me, e se potessi leggere nelle anime loro, ed essi nella mia, chi sa ch'io non fossi costretto a confessare non esservi alcuna scelleratezza in loro; ed essi, non esservene alcuna in me! Chi sa che non fossimo costretti a compatirci a vicenda e ad amarci!»
     Pur troppo sovente gli uomini s'abborrono, perché reciprocamente non si conoscono; e se scambiassero insieme qualche parola, uno darebbe fiducialmente il braccio all'altro.
     Ci fermammo un giorno a Lubiana, ove Canova e Rezia furono divisi da noi e condotti nel castello; è facile immaginarsi quanto questa separazione fosse dolorosa per tutti quattro.
     La sera del nostro arrivo a Lubiana ed il giorno seguente, venne a farci cortese compagnia un signore che ci dissero, se io bene intesi, essere un segretario municipale. Era molto umano, e parlava affettuosamente e dignitosamente di religione. Dubitai che fosse un prete: i preti in Germania sogliono vestire affatto come secolari. Era di quelle facce sincere che ispirano stima: m'increbbe di non poter fare più lunga conoscenza con lui, e m'incresce d'avere avuto la storditezza di dimenticare il suo nome.
     Quanto dolce mi sarebbe anche di sapere il tuo nome, o giovinetta, che in un villaggio della Stiria ci seguisti in mezzo alla turba; e poi, quando la nostra carrozza dovette fermarsi alcuni minuti, ci salutasti con ambe le mani, indi partisti col fazzoletto agli occhi, appoggiata al braccio d'un garzone mesto, che alle chiome biondissime parea tedesco, ma che forse era stato in Italia, ed avea preso amore alla nostra infelice nazione!
     Quanto dolce mi sarebbe di sapere il nome di ciascuno di voi, o venerandi padri e madri di famiglia, che in diversi luoghi vi accostaste a noi per dimandarci se avevamo genitori, ed intendendo che sì, impallidivate, esclamando: «Oh, restituiscavi presto Iddio a que' miseri vecchi!».

CAPO LVII

Arrivammo al luogo della nostra destinazione il 10 di aprile.
     La città di Br¸nn è capitale della Moravia, ed ivi risiede il governatore delle due provincie di Moravia e Slesia. » situata in una valle ridente, ed ha un certo aspetto di ricchezza. Molte manifatture di panni prosperavano ivi allora, le quali poscia decaddero; la popolazione era di circa 30 mila anime.
     Accosto alle sue mura, a ponente, s'alza un monticello, e sovr'esso siede l'infausta rocca di Spielberg, altre volte reggia de' signori di Moravia, oggi il più severo ergastolo della monarchia austriaca. Era cittadella assai forte, ma i Francesi la bombardarono e presero a' tempi della famosa battaglia d'Austerlitz (il villaggio d'Austerlitz è a poca distanza). Non fu più ristaurata da poter servire di fortezza, ma si rifece una parte della cinta, ch'era diroccata. Circa trecento condannati, per lo più ladri ed assassini, sono ivi custoditi, quali a carcere duro, quali a durissimo.
     Il carcere duro significa essere obbligati al lavoro, portare la catena ai piedi, dormire su nudi tavolacci, e mangiare il più povero cibo immaginabile. Il durissimo significa essere incatenati più orribilmente, con una cerchia di ferro intorno a' fianchi, e la catena infitta nel muro in guisa che appena si possa camminare rasente il tavolaccio che serve di letto: il cibo è lo stesso, quantunque la legge dica: pane ed acqua.
     Noi, prigionieri di Stato, eravamo condannati al carcere duro.
     Salendo per l'erta di quel monticello, volgevamo gli occhi indietro per dire addio al mondo, incerti se il baratro che vivi c'ingoiava si sarebbe più schiuso per noi. Io era pacato esteriormente, ma dentro di me ruggiva. Indarno volea ricorrere alla filosofia per acquetarmi; la filosofia non avea ragioni sufficienti per me.
     Partito di Venezia in cattiva salute, il viaggio m'avea stancato miseramente. La testa e tutto il corpo mi dolevano: ardea dalla febbre. Il male fisico contribuiva a tenermi iracondo, e probabilmente l'ira aggravava il male fisico.
     Fummo consegnati al soprintendente dello Spielberg, ed i nostri nomi vennero da questo inscritti fra i nomi de' ladroni. Il commissario imperiale ripartendo ci abbracciò, ed era intenerito;
     «Raccomando a lor signori particolarmente la docilità:» diss'egli «la minima infrazione alla disciplina può venir punita dal signor soprintendente con pene severe.»
     Fatta la consegna, Maroncelli ed io fummo condotti in un corridoio sotterraneo, dove ci s'apersero due tenebrose stanze non contigue. Ciascuno di noi fu chiuso nel suo covile.

CAPO LVIII

Acerbissima cosa, dopo aver già detto addio a tanti oggetti, quando non si è più che in due amici, egualmente sventurati, ah sì! acerbissima cosa il dividersi! Maroncelli nel lasciarmi vedeami infermo, e compiangeva in me un uomo ch'ei probabilmente non vedrebbe mai più: io compiangea in lui un fiore splendido di salute, rapito forse per sempre alla luce vitale del sole. E quel fiore infatti oh come appassì! Rivide un giorno la luce, ma oh in quale stato!
     Allorché mi trovai solo in quell'orrido antro, e intesi serrarsi i catenacci, e distinsi, al barlume che discendeva da alto finestruolo, il nudo pancone datomi per letto, ed una enorme catena al muro, m'assisi fremente su quel letto, e, presa quella catena, ne misurai la lunghezza, pensando fosse destinata per me.
     Mezz'ora dappoi, ecco stridere le chiavi; la porta s'apre: il capocarceriere mi portava una brocca d'acqua.
     «Questo è per bere;» disse con voce burbera «e domattina porterò la pagnotta.»
     «Grazie, buon uomo.»
     «Non sono buono» riprese.
     «Peggio per voi» gli dissi sdegnato. «E questa catena,» soggiunsi «è forse per me?»
     «Sì, signore, se mai ella non fosse quieta, se infuriasse, se dicesse insolenze. Ma se sarà ragionevole, non le porremo altro che una catena a' piedi. Il fabbro la sta apparecchiando.»
     Ei passeggiava lentamente su e giù, agitando quel villano mazzo di grosse chiavi, ed io con occhio irato mirava la sua gigantesca, magra, vecchia persona; e, ad onta de' lineamenti non volgari del suo volto, tutto in lui mi sembrava l'espressione odiosissima d'un brutale rigore!
     Oh come gli uomini sono ingiusti, giudicando dall'apparenza e secondo le loro superbe prevenzioni! Colui ch'io m'immaginava agitasse allegramente le chiavi per farmi sentire la sua trista podestà, colui ch'io riputava impudente per lunga consuetudine d'incrudelire, volgea pensieri di compassione, e certamente non parlava a quel modo, con accento burbero, se non per nascondere questo sentimento Avrebbe voluto nasconderlo, a fine di non parer debole e per timore ch'io ne fossi indegno; ma nello stesso tempo, supponendo che forse io era più infelice che iniquo, avrebbe desiderato di palesarmelo.
     Noiato della sua presenza, e più della sua aria da padrone, stimai opportuno d'umiliarlo, dicendogli imperiosamente, quasi a servitore:
     «Datemi da bere.»
     Ei mi guardò, e parea significare: «Arrogante! qui bisogna divezzarsi dal comandare.»
     Ma tacque, chinò la sua lunga schiena, prese in terra la brocca, e me la porse. M'avvidi, pigliandola, ch'ei tremava, e attribuendo quel tremito alla sua vecchiezza, un misto di pietà e di reverenza temperò il mio orgoglio.
     «Quanti anni avete?» gli dissi con voce amorevole.
     «Settantaquattro, signore: ho già veduto molte sventure e mie ed altrui.»
     Questo cenno sulle sventure sue ed altrui fu accompagnato da nuovo tremito nell'atto ch'ei ripigliava la brocca; e dubitai fosse effetto, non della sola età, ma d'un certo nobile perturbamento. Siffatto dubbio cancellò dall'anima mia l'odio che il suo primo aspetto m'aveva impresso.
     «Come vi chiamate?» gli dissi.
     «La fortuna, signore, si burlò di me, dandomi il nome d'un grand'uomo. Mi chiamo Schiller.»
     Indi in poche parole mi narrò qual fosse il suo paese, quale l'origine, quali le guerre vedute e le ferite riportate.
     Era svizzero, di famiglia contadina: avea militato contro a' Turchi sotto il general Laudon a' tempi di Maria Teresa e di Giuseppe II, indi in tutte le guerre dell'Austria contro alla Francia, sino alla caduta di Napoleone.

CAPO LIX

Quando d'un uomo che giudicammo dapprima cattivo, concepiamo migliore opinione, allora, badando al suo viso, alla sua voce, a' suoi modi, ci pare di scoprire evidenti segni d'onestà. » questa scoperta una realtà? Io la sospetto illusione. Questo stesso viso, quella stessa voce, quegli stessi modi ci pareano, poc'anzi, evidenti segni di bricconeria. S'è mutato il nostro giudizio sulle qualità morali, e tosto mutano le conclusioni della nostra scienza fisionomica. Quante facce veneriamo perché sappiamo che appartennero a valentuomini, le quali non ci sembrerebbero punto atte ad ispirare venerazione se fossero appartenute ad altri mortali! E così viceversa. Ho riso una volta d'una signora che vedendo un'immagine di Catilina, e confondendolo con Collatino, sognava di scorgervi il sublime dolore di Collatino per la morte di Lucrezia. Eppure siffatte illusioni sono comuni.
     Non già che non vi sieno facce di buoni le quali portano benissimo impresso il carattere di bontà, e non vi sieno facce di ribaldi che portano benissimo impresso quello di ribalderia; ma sostengo che molte havvene di dubbia espressione.
     Insomma, entratomi alquanto in grazia il vecchio Schiller, lo guardai più attentamente di prima, e non mi dispiacque più. A dir vero, nel suo favellare, in mezzo a certa rozzezza, eranvi anche tratti d'anima gentile.
     «Caporale qual sono,» diceva egli «m'è toccato per luogo di riposo il tristo ufficio di carceriere: e Dio sa, se non mi costa assai più rincrescimento che il rischiare la vita in battaglia!»
     Mi pentii di avergli dimandato con alterigia da bere.
     «Mio caro Schiller» gli dissi, stringendogli la mano «voi lo negate indarno, io conosco che siete buono, e poiché sono caduto in quest'avversità, ringrazio il Cielo di avermi dato voi per guardiano.»
     Egli ascoltò le mie parole, scosse il capo, indi rispose, fregandosi la fronte, come uomo che ha un pensiero molesto:
     «Io sono cattivo, o signore; mi fecero prestare un giuramento, a cui non mancherò mai. Sono obbligato a trattare tutti i prigionieri senza riguardo alla loro condizione, senza indulgenza, senza concessione d'abusi, e tanto più i prigionieri di Stato. L'Imperatore sa quello che fa; io debbo obbedirgli.»
     «Voi siete un brav'uomo, ed io rispetterò ciò che riputate debito di coscienza. Chi opera per sincera coscienza può errare, ma è puro innanzi a Dio.»
     «Povero signore! abbia pazienza, e mi compatisca. Sarò ferreo ne' miei doveri, ma il cuore... il cuore è pieno di rammarico di non poter sollevare gl'infelici. Questa è la cosa ch'io volea dirle.»
     Ambi eravamo commossi. Mi supplicò d'essere quieto, di non andare in furore, come fanno spesso i condannati, di non costringerlo a trattarmi duramente.
     Prese poscia un accento ruvido, quasi per celarmi una parte della sua pietà, e disse:
     «Or bisogna ch'io me ne vada.»
     Poi tornò indietro, chiedendomi da quanto tempo io tossissi così miseramente com'io faceva, e scagliò una grossa maledizione contro il medico, perché non veniva in quella sera stessa a visitarmi.
     «Ella ha una febbre da cavallo» soggiunse «io me ne intendo. Avrebbe d'uopo almeno d'un pagliericcio, ma finché il medico non l'ha ordinato, non possiamo darglielo.»
     Uscì, richiuse la porta, ed io mi sdraiai sulle dure tavole, febbricitante sì, e con forte dolore di petto, ma meno fremente, meno nemico degli uomini, meno lontano da Dio.

CAPO LX

A sera venne il soprintendente, accompagnato da Schiller, da un altro caporale e da due soldati, per fare una perquisizione.
     Tre perquisizioni quotidiane erano prescritte: una a mattina, una a sera, una a mezzanotte. Visitavano ogni angolo della prigione, ogni minuzia; indi gl'inferiori uscivano, ed il soprintendente (che mattina e sera non mancava mai) si fermava a conversare alquanto con me.
     La prima volta che vidi quel drappello, uno strano pensiero mi venne. Ignaro ancora di quei molesti usi, e delirante dalla febbre, immaginai che mi movessero contro per trucidarmi, e afferrai la lunga catena che mi stava vicino per rompere la faccia al primo che mi s'appressasse.
     «Che fa ella?» disse il soprintendente. «Non veniamo per farle alcun male. Questa è una visita di formalità a tutte le carceri, a fine di assicurarci che nulla siavi d'irregolare.»
     Io esitava; ma quando vidi Schiller avanzarsi verso me e tendermi amicamente la mano, il suo aspetto paterno mi ispirò fiducia: lasciai andare la catena, e presi quella mano fra le mie.
     «Oh come arde!» diss'egli al soprintendente. «Si potesse almeno dargli un pagliericcio!»
     Pronunciò queste parole con espressione di sì vero, affettuoso cordoglio, che ne fui intenerito.
     Il soprintendente mi tastò il polso, mi compianse: era uomo di gentili maniere, ma non osava prendersi alcun arbitrio.
     «Qui tutto è rigore anche per me» diss'egli. «Se non eseguisco alla lettera ciò ch'è prescritto, rischio d'essere sbalzato dal mio impiego.»
     Schiller allungava le labbra, ed avrei scommesso ch'ei pensava tra sé: «S'io fossi soprintendente non porterei la paura fino a quel grado; né il prendersi un arbitrio così giustificato dal bisogno, e così innocuo alla monarchia, potrebbe mai riputarsi gran fallo.»
     Quando fui solo, il mio cuore, da qualche tempo incapace di profondo sentimento religioso, s'intenerì e pregò. Era una preghiera di benedizioni sul capo di Schiller; ed io soggiungeva a Dio: «Fa ch'io discerna pure negli altri qualche dote che loro m'affezioni; io accetto tutti i tormenti del carcere, ma deh, ch'io ami! deh, liberami dal tormento d'odiare i miei simili!».
     A mezzanotte udii molti passi nel corridoio. Le chiavi stridono, la porta s'apre. » il caporale con due guardie, per la visita.
     «Dov'è il mio vecchio Schiller?» diss'io con desiderio.
     Ei s'era fermato nel corridoio.
     «Son qua, son qua» rispose.
     E venuto presso al tavolaccio, tornò a tastarmi il polso, chinandosi inquieto a guardarmi, come un padre sul letto del figliuolo infermo.
     «Ed or che me ne ricordo, dimani è giovedì!» borbottava egli «purtroppo giovedì!»
     «E che volete dire con ciò?»
     «Che il medico non suol venire se non le mattina del lunedì, del mercoledì e del venerdì, e che dimani purtroppo non verrà.»
     «Non v'inquietate per ciò.»
     «Ch'io non m'inquieti, ch'io non m'inquieti! In tutta la città non si parla d'altro che dell'arrivo di lor signori: il medico non può ignorarlo. Perché diavolo non ha fatto lo sforzo straordinario di venire una volta di più?»
     «Chi sa che non venga dimani, sebben sia giovedì?»
     Il vecchio non disse altro, Ma mi serrò la mano con forza bestiale, e quasi da storpiarmi. Benché mi facesse male, ne ebbi piacere. Simile al piacere che prova un innamorato se avviene che la sua diletta, ballando, gli pesti un piede: griderebbe quasi dal dolore, ma invece le sorride, e s'estima beato.

CAPO LXI

La mattina del giovedì, dopo una pessima notte, indebolito, rotte le ossa dalle tavole, fui preso da abbondante sudore. Venne la visita. Il soprintendente non v'era: siccome quell'ora gli era incomoda, ei veniva poi alquanto più tardi.
     Dissi a Schiller: «Sentite come sono inzuppato di sudore; ma già mi si raffredda sulle carni; avrei bisogno subito di mutar camicia».
     «Non si può!» gridò con voce brutale.
     Ma fecemi secretamente cenno cogli occhi e colla mano. Usciti il caporale e le guardie, ei tornò a farmi un cenno nell'atto che chiudeva la porta.
     Poco appresso ricomparve, portandomi una delle sue camicie, lunga due volte la mia persona.
     «Per lei» diss'egli «è un po' lunga, ma or qui non ne ho altre.»
     «Vi ringrazio, amico, ma siccome ho portato allo Spielberg un baule pieno di biancheria, spero che non mi si ricuserà l'uso delle mie camicie: abbiate la gentilezza d'andare dal soprintendente a chiedere una di quelle.»
     «Signore, non è permesso di lasciarle nulla della sua biancheria. Ogni sabbato le si darà una camicia della casa, come agli altri condannati.»
     «Onesto vecchio,» dissi «voi vedete in che stato sono; è poco verisimile ch'io esca vivo di qui: non potrò mai ricompensarvi di nulla.»
     «Vergogna, signore!» sclamò «vergogna! Parlare di ricompensa a chi non può render servigi! a chi appena può imprestare furtivamente ad un infermo di che asciugarsi il corpo grondante di sudore!»
     E gettatami sgarbatamente addosso la sua lunga camicia, se n'andò brontolando, e chiuse la porta con uno strepito da arrabbiato.
     Circa due ore più tardi mi portò un tozzo di pan nero.
     «Questa» disse «è la porzione per due giorni.»
     Poi si mise a camminare fremendo.
     «Che avete?» gli dissi. «Siete in collera con me? Ho pure accettata la camicia che mi favoriste.»
     «Sono in collera col medico, il quale, benché oggi sia giovedì, potrebbe pur degnarsi di venire!»
     «Pazienza!» dissi.
     Io diceva «pazienza!», ma non trovava modo di giacer così sulle tavole, senza neppure un guanciale: tutte le mie ossa doloravano.
     Alle ore undici mi fu portato il pranzo da un condannato accompagnato da Schiller. Componevano il pranzo due pentolini di ferro, l'uno contenente una pessima minestra, l'altro legumi conditi con salsa tale, che il solo odore metteva schifo.
     Provai d'ingoiare qualche cucchiaio di minestra: non mi fu possibile.
     Schiller mi ripeteva: «Si faccia animo; procuri d'avvezzarsi a questi cibi; altrimenti le accadrà, come è già accaduto ad altri, di non mangiucchiare se non un po' di pane, e di morir quindi di languore».
     Il venerdì mattina venne finalmente il dottor Bayer. Mi trovò febbre, m'ordinò un pagliericcio, ed insisté perch'io fossi tratto di quel sotterraneo e trasportato al piano superiore. Non si poteva, non v'era luogo. Ma fattone relazione al conte Mitrowsky, governatore delle due provincie, Moravia e Slesia, residente in Br¸nn, questi rispose che, stante la gravezza del mio male, l'intento del medico fosse eseguito.
     Nella stanza che mi diedero penetrava alquanto di luce; ed arrampicandomi alle sbarre dell'angusto finestruolo io vedeva la sottoposta valle, un pezzo della città di Br¸nn, un sobborgo con molti orticelli, il cimitero, il laghetto della Certosa, ed i selvosi colli che ci divideano da' famosi campi d'Austerlitz.
     Quella vista m'incantava. Oh quanto sarei stato lieto, se avessi potuto dividerla con Maroncelli!

CAPO LXII

Ci si facevano intanto i vestiti da prigioniero. Di lì a cinque giorni, mi portarono il mio.
     Consisteva in un paio di pantaloni di ruvido panno, a destra color grigio, e a sinistra color cappuccino; un giustacuore di due colori egualmente collocati, ed un giubbettino di simili due colori, ma collocati oppostamente, cioè il cappuccino a destra ed il grigio a sinistra. Le calze erano di grossa lana; la camicia di tela di stoppa piena di pungenti stecchi, - un vero cilicio: al collo una pezzuola di tela pari a quella della camicia. Gli stivaletti erano di cuoio non tinto, allacciati. Il cappello era bianco.
     Compivano questa divisa i ferri a' piedi, cioè una catena da una gamba all'altra, i ceppi della quale furono fermati con chiodi che si ribadirono sopra un'incudine. Il fabbro che mi fece questa operazione disse ad una guardia, credendo che io non capissi il tedesco:
     «Malato com'egli è, si poteva risparmiargli questo giuoco; non passano due mesi, che l'angelo della morte viene a liberarlo.»
     «Möchte es sein! (fosse pure!)» gli diss'io, battendogli colla mano sulla spalla.
     Il pover'uomo strabalzò e si confuse; poi disse:
     «Spero che non sarò profeta, e desidero ch'ella sia liberata da tutt'altro angelo.»
     «Piuttosto che vivere così, non vi pare» gli risposi «che sia benvenuto anche quello della morte?»
     Fece cenno di sì col capo, e se n'andò compassionandomi.
     Io avrei veramente volentieri cessato di vivere, ma non era tentato di suicidio. Confidava che la mia debolezza di polmoni fosse già tanto rovinosa da sbrigarmi presto. Così non piacque a Dio. La fatica del viaggio m'avea fatto assai male: il riposo mi diede qualche giovamento.
     Un istante dopoché il fabbro era uscito, intesi sonare il martello sull'incudine nel sotterraneo. Schiller era ancora nella mia stanza.
     «Udite que' colpi» gli dissi. «Certo, si mettono i ferri al povero Maroncelli.»
     E ciò dicendo, mi si serrò talmente il cuore, che vacillai, e se il buon vecchio non m'avesse sostenuto, io cadeva. Stetti più di mezz'ora in uno stato che parea svenimento, eppur non era. Non potea parlare, i miei polsi battevano appena, un sudor freddo m'inondava da capo a piedi, e ciò non ostante intendeva tutte le parole di Schiller, ed avea vivissima la ricordanza del passato e la cognizione del presente
     Il comando del soprintendente e la vigilanza delle guardie avean tenuto fino allora tutte le vicine carceri in silenzio. Tre o quattro volte io aveva inteso intonarsi qualche cantilena italiana, ma tosto era soppressa dalle grida delle sentinelle. Ne avevamo parecchie sul terrapieno sottoposto alle nostre finestre, ed una nel medesimo nostro corridoio, la quale andava continuamente orecchiando alle porte e guardando agli sportelli per proibire i romori.
     Un giorno, verso sera (ogni volta che ci penso mi si rinnovano i palpiti che allora mi si destarono), le sentinelle, per felice caso, furono meno attente, ed intesi spiegarsi e proseguirsi, con voce alquanto sommessa ma chiara, una cantilena nella prigione contigua alla mia.
     Oh qual gioia, qual commozione m'invase!
     M'alzai dal pagliericcio, tesi l'orecchio, e quando tacque proruppi in irresistibile pianto.
     «Chi sei, sventurato?» gridai «chi sei? Dimmi il tuo nome. Io sono Silvio Pellico.»
     «Oh Silvio!» gridò il vicino «io non ti conosco di persona, ma t'amo da gran tempo. Accòstati alla finestra, e parliamoci a dispetto degli sgherri.»
     M'aggrappai alla finestra, egli mi disse il suo nome, e scambiammo qualche parola di tenerezza.
     Era il conte Antonio Oroboni, nativo di Fratta presso Rovigo, giovine di ventinove anni.
     Ahi, fummo tosto interrotti da minacciose urla delle sentinelle! Quella del corridoio picchiava forte col calcio dello schioppo, ora all'uscio d'Oroboni, ora al mio. Non volevamo, non potevamo obbedire; ma pure le maledizioni di quelle guardie erano tali, che cessammo, avvertendoci di ricominciare quando le sentinelle fossero mutate.

CAPO LXIII

Speravamo - e così infatti accadde - che parlando più piano ci potremmo sentire, e che talvolta capiterebbero sentinelle pietose, le quali fingerebbero di non accorgersi del nostro cicaleccio. A forza d'esperimenti, imparammo un modo d'emettere la voce tanto dimesso, che bastava alle nostre orecchie, ed o sfuggiva alle altrui, o si prestava ad essere dissimulato. Bensì avveniva a quando a quando che avessimo ascoltatori d'udito più fino, o che ci dimenticassimo d'essere discreti nella voce. Allora tornavano a toccarci urla, e picchiamenti agli usci, e, ciò ch'era peggio, la collera del povero Schiller e del soprintendente.
     A poco a poco perfezionammo tutte le cautele, cioè di parlare piuttosto in certi quarti d'ora che in altri, piuttosto quando v'erano le tali guardie che quando v'erano le tali altre, e sempre con voce moderatissima. Sia eccellenza della nostr'arte, sia in altrui un'abitudine di condiscendenza che s'andava formando, finimmo per potere ogni giorno conversare assai, senza che alcun superiore più avesse quasi mai a garrirci.
     Ci legammo di tenera amicizia. Mi narrò la sua vita, gli narrai la mia; le angosce e consolazioni dell'uno divenivano angosce e consolazioni dell'altro. Oh di quanto conforto ci eravamo a vicenda! Quante volte, dopo una notte insonne, ciascuno di noi andando il mattino alla finestra, e salutando l'amico, ed udendone le care parole, sentiva in core addolcirsi la mestizia e raddoppiarsi il coraggio! Uno era persuaso d'essere utile all'altro, e questa certezza destava una dolce gara d'amabilità ne' pensieri, e quel contento che ha l'uomo, anche nella miseria, quando può giovare al suo simile.
     Ogni colloquio lasciava il bisogno di continuazione, di schiarimenti; era uno stimolo vitale, perenne, all'intelligenza, alla memoria, alla fantasia, al cuore.
     A principio, ricordandomi di Giuliano, io diffidava della costanza di questo nuovo amico. Io pensava: «Finora non ci è accaduto di trovarci discordi; da un giorno all'altro posso dispiacergli in alcuna cosa, ed ecco che mi manderà alla malora.»
     Questo sospetto ben presto cessò. Le nostre opinioni concordavano su tutti i punti essenziali. Se non che ad un'anima nobile, ardente di generosi sensi, indomita dalla sventura, egli univa la più candida e piena fede nel Cristianesimo, mentre questa in me da qualche tempo vacillava, e talora pareami affatto estinta.
     Ei combatteva i miei dubbi con giustissime riflessioni e con molto amore: io sentiva ch'egli avea ragione e gliela dava, ma i dubbi tornavano. Ciò avviene a tutti quelli che non hanno il Vangelo nel cuore, a tutti quelli che odiano altrui ed insuperbiscono di sé. La mente vede un istante il vero, ma siccome questo non le piace, lo discrede l'istante appresso, sforzandosi di guardare altrove.
     Oroboni era valentissimo a volgere la mia attenzione sui motivi che l'uomo ha, d'essere indulgente verso i nemici. Io non gli parlava di persona abborrita, ch'ei non prendesse destramente a difenderla, e non già solo colle parole, ma anche coll'esempio. Parecchi gli avean nociuto. Ei ne gemeva, ma perdonava a tutti, e se poteva narrarmi qualche lodevole tratto d'alcuno di loro, lo faceva volentieri.
     L'irritazione che mi dominava e mi rendea irreligioso dalla mia condanna in poi, durò ancora alcune settimane; indi cessò affatto. La virtù d'Oroboni m'aveva invaghito. Industriandomi di raggiungerla, mi misi almeno sulle sue tracce. Allorché potei di nuovo pregare sinceramente per tutti e non più odiare nessuno, i dubbi sulla fede sgombrarono: Ubi charitas et amor, Deus ibi est.

CAPO LXIV

Per dir vero, se la pena era severissima ed atta ad irritare, avevamo nello stesso tempo la rara sorte che buoni fossero tutti coloro che vedevamo. Essi non potevano alleggerire la nostra condizione se non con benevole e rispettose maniere; ma queste erano usate da tutti. Se v'era qualche ruvidezza nel vecchio Schiller, quanto non era compensata dalla nobiltà del suo cuore! Persino il miserabile Kunda (quel condannato che ci portava il pranzo, e tre volte al giorno l'acqua) voleva che ci accorgessimo che ci compativa. Ei ci spazzava la stanza due volte la settimana. Una mattina, spazzando, colse il momento che Schiller s'era allontanato due passi dalla porta, e m'offerse un pezzo di pan bianco. Non l'accettai, ma gli strinsi cordialmente la mano. Quella stretta di mano lo commosse. Ei mi disse in cattivo tedesco (era polacco): «Signore, le si dà ora così poco da mangiare, che ella sicuramente patisce la fame».
     Assicurai di no, ma io assicurava l'incredibile.
     Il medico, vedendo che nessuno di noi potea mangiare quella qualità di cibi che ci aveano dato ne' primi giorni, ci mise tutti a quello che chiamano quarto di porzione, cioè al vitto dell'ospedale. Erano tre minestrine leggerissime al giorno, un pezzettino d'arrosto d'agnello da ingoiarsi in un boccone, e forse tre once di pan bianco. Siccome la mia salute s'andava facendo migliore, l'appetito cresceva, e quel quarto era veramente troppo poco. Provai di tornare al cibo dei sani, ma non v'era guadagno a fare, giacché disgustava tanto ch'io non poteva mangiarlo. Convenne assolutamente ch'io m'attenessi al quarto. Per più d'un anno conobbi quanto sia il tormento della fame. E questo tormento lo patirono con veemenza anche maggiore alcuni de' miei compagni, che essendo più robusti di me erano avvezzi a nutrirsi più abbondantemente. So d'alcuni di loro che accettarono pane e da Schiller e da altre due guardie addette al nostro servizio, e perfino da quel buon uomo di Kunda.
     «Per la città si dice che a lor signori si dà poco da mangiare» mi disse una volta il barbiere, un giovinotto praticante del nostro chirurgo.
     «» verissimo» risposi schiettamente.
     Il seguente sabato (ei veniva ogni sabato) volle darmi di soppiatto una grossa pagnotta bianca. Schiller finse di non veder l'offerta. Io, se avessi ascoltato lo stomaco, l'avrei accettata, ma stetti saldo a rifiutare, affinché quel povero giovine non fosse tentato di ripetere il dono; il che alla lunga gli sarebbe stato gravoso.
     Per la stessa ragione, io ricusava le offerte di Schiller. Più volte mi portò un pezzo di carne lessa, pregandomi che la mangiassi, e protestando che non gli costava niente, che gli era avanzata, che non sapea che farne, che l'avrebbe davvero data ad altri s'io non la prendeva. Mi sarei gettato a divorarla, ma s'io la prendeva, non avrebb'egli avuto tutti i giorni il desiderio di darmi qualche cosa?
     Solo due volte, ch'ei mi recò un piatto di ciriege, e una volta alcune pere, la vista di quella frutta mi affascinò irresistibilmente. Fui pentito d'averla presa, appunto perché d'allora in poi non cessava più d'offrirmene.

CAPO LXV

Ne' primi giorni fu stabilito che ciascuno di noi avesse, due volte la settimana, un'ora di passeggio. In seguito questo sollievo fu dato un giorno sì, un giorno no; e più tardi ogni giorno, tranne le feste.
     Ciascuno era condotto a passeggio separatamente, fra due guardie aventi schioppo in ispalla. Io, che mi trovava alloggiato in capo del corridoio, passava, quando usciva, innanzi alle carceri di tutti i condannati di Stato italiani, eccetto Maroncelli, il quale unico languiva dabbasso.
     «Buon passeggio!» mi susurravano tutti dallo sportello dei loro usci; ma non mi era permesso di fermarmi a salutare nessuno.
     Si discendeva una scala, si traversava un ampio cortile, e s'andava sovra un terrapieno situato a mezzodì, donde vedeasi la città di Br¸nn e molto tratto di circostante paese.
     Nel cortile suddetto erano sempre molti dei condannati comuni, che andavano o venivano dai lavori, o passeggiavano in frotta conversando. Fra essi erano parecchi ladri italiani, che mi salutavano con gran rispetto e diceano tra loro: «Non è un birbone come noi, eppure la sua prigionia è più dura della nostra».
     Infatti essi aveano molta più libertà di me.
     Io udiva queste ed altre espressioni, e li risalutava con cordialità. Uno di loro mi disse una volta: «Il suo saluto, signore, mi fa bene. Ella forse vede sulla mia fisionomia qualche cosa che non è scelleratezza. Una passione infelice mi trasse a commettere un delitto; ma, o signore, no, non sono scellerato!».
     E proruppe in lagrime. Gli porsi la mano, ma egli non me la poté stringere. Le mie guardie, non per malignità, ma per le istruzioni che aveano, lo respinsero. Non doveano lasciarmi avvicinare da chicchesifosse. Le parole che quei condannati mi dirigevano, fingeano per lo più di dirsele tra loro, e se i miei due soldati s'accorgeano che fossero a me rivolte, intimavano silenzio.
     Passavano anche per quel cortile uomini di varie condizioni estranei al castello, i quali venivano a visitare il soprintendente, o il cappellano, o il sergente, o alcuno de' caporali. «Ecco uno deg'Italiani, ecco uno degl'Italiani!» diceano sottovoce. E si fermavano a guardarmi; e più volte li intesi dire in tedesco, credendo ch'io non li capissi: «Quel povero signore non invecchierà; ha la morte sul volto».
     Io infatti, dopo essere dapprima migliorato di salute, languiva per la scarsezza del nutrimento, e nuove febbri sovente m'assalivano. Stentava a strascinare la mia catena fino al luogo del passeggio, e là mi gettava sull'erba, e vi stava ordinariamente finché fosse finita la mia ora.
     Stavano in piedi o sedeano vicino a me le guardie, e ciarlavamo. Una d'esse, per nome Kral, era un boemo, che, sebbene di famiglia contadina e povera, avea ricevuto una certa educazione, e se l'era perfezionata quanto più avea potuto, riflettendo con forte discernimento su le cose del mondo e leggendo tutti i libri che gli capitavano alle mani. Avea cognizione di Klopstock, di Wieland, di Goethe, di Schiller e di molti altri buoni scrittori tedeschi. Ne sapea un'infinità di brani a memoria, e li dicea con intelligenza e con sentimento. L'altra guardia era un polacco, per nome Kubitzky, ignorante, ma rispettoso e cordiale. La loro compagnia mi era assai cara.

CAPO LXVI

Ad un'estremità di quel terrapieno, erano le stanze del soprintendente; all'altra estremità alloggiava un caporale con moglie ed un figliuolino. Quand'io vedeva alcuno uscire di quelle abitazioni, io m'alzava e m'avvicinava alla persona, o alle persone, che ivi comparivano, ed era colmato di dimostrazioni di cortesia e di pietà.
     La moglie del soprintendente era ammalata da lungo tempo, e deperiva lentamente. Si facea talvolta portare sopra un canapé all'aria aperta. » indicibile quanto si commovesse esprimendomi la compassione che provava per tutti noi. Il suo sguardo era dolcissimo e timido, e quantunque timido, s'attaccava di quando in quando con intensa interrogante fiducia allo sguardo di chi le parlava.
     Io le dissi una volta, ridendo: «Sapete, signora, che somigliate alquanto a persona che mi fu cara?».
     Arrossì, e rispose con seria ed amabile semplicità: «Non vi dimenticate dunque di me, quando sarò morta; pregate per la povera anima mia, e pei figliuolini che lascio sulla terra».
     Da quel giorno in poi, non poté più uscire dal letto; non la vidi più. Languì ancora alcuni mesi, poi morì.
     Ella avea tre figli, belli come amorini, ed uno ancor lattante. La sventurata abbracciavali spesso in mia presenza, e diceva: «Chi sa qual donna diventerà lor madre dopo di me! Chiunque sia dessa, il Signore le dia viscere di madre, anche pe' figli non nati da lei!». E piangeva.
     Mille volte mi son ricordato di quel suo prego e di quelle lagrime.
     Quand'ella non era più, io abbracciava talvolta que' fanciulli, e m'inteneriva, e ripeteva quel prego materno. E pensava alla madre mia, ed agli ardenti voti che il suo amantissimo cuore alzava senza dubbio per me, e con singhiozzi io sclamava: «Oh più felice quella madre che, morendo, abbandona figliuoli inadulti, di quella che dopo averli allevati con infinite cure se li vede rapire!».
     Due buone vecchie solevano essere con quei fanciulli: una era la madre del soprintendente, l'altra la zia. Vollero sapere tutta la mia storia, ed io loro la raccontai in compendio.
     «Quanto siamo infelici» diceano coll'espressione del più vero dolore «di non potervi giovare in nulla! Ma siate certo che pregheremo per voi, e che se un giorno viene la vostra grazia, sarà una festa per tutta la nostra famiglia.»
     La prima di esse, ch'era quella ch'io vedea più sovente, possedeva una dolce, straordinaria eloquenza nel dar consolazioni. Io le ascoltava con filiale gratitudine, e mi si fermavano nel cuore.
     Dicea cose ch'io sapea già, e mi colpivano come cose nuove: - che la sventura non degrada l'uomo, s'ei non è dappoco, ma anzi lo sublima; - che, se potessimo entrare ne' giudizi di Dio, vedremmo essere, molte volte, più da compiangersi i vincitori che i vinti, gli esultanti che i mesti, i doviziosi che gli spogliati di tutto; - che l'amicizia particolare mostrata dall'uomo-Dio per gli sventurati è un gran fatto; - che dobbiamo gloriarci della croce, dopo che fu portata da òmeri divini.
     Ebbene, quelle due buone vecchie, ch'io vedea tanto volentieri, dovettero in breve, per ragioni di famiglia, partire dallo Spielberg; i figliuolini cessarono anche di venire sul terrapieno Quanto queste perdite m'afflissero!

CAPO LXVII

L'incomodo della catena a' piedi, togliendomi di dormire, contribuiva a rovinarmi la salute. Schiller voleva ch'io reclamassi, e pretendeva che il medico fosse in dovere di farmela levare.
     Per un poco non l'ascoltai, poi cedetti al consiglio, e dissi al medico che per riacquistare il beneficio del sonno io lo pregava di farmi scatenare, almeno per alcuni giorni.
     Il medico disse non giungere ancora a tal grado le mie febbri, ch'ei potesse appagarmi; ed essere necessario ch'io m'avvezzassi ai ferri.
     La risposta mi sdegnò, ed ebbi rabbia d'aver fatto quell'inutile dimanda.
     «Ecco ciò che guadagnai a seguire il vostro insistente consiglio» dissi a Schiller.
     Conviene che gli dicessi queste parole assai sgarbatamente: quel ruvido buon uomo se ne offese.
     «A lei spiace» gridò «d'essersi esposta ad un rifiuto, e a me spiace ch'ella sia meco superba!»
     Poi continuò una lunga predica: «I superbi fanno consistere la loro grandezza in non esporsi a rifiuti, in non accettare offerte, in vergognarci di mille inezie. Alle Eseleien! tutte asinate! vana grandezza! ignoranza della vera dignità! E la vera dignità sta, in gran parte, in vergognare soltanto delle male azioni!».
     Disse, uscì, e fece un fracasso infernale colle chiavi.
     Rimasi sbalordito. «Eppure quella rozza schiettezza» dissi «mi piace. Sgorga dal cuore come le sue offerte, come i suoi consigli, come il suo compianto. E non mi predicò egli il vero? A quante debolezze non do io il nome di dignità, mentre non sono altro che superbia?»
     All'ora di pranzo, Schiller lasciò che il condannato Kunda portasse dentro i pentolini e l'acqua, e si fermò sulla porta. Lo chiamai.
     «Non ho tempo» rispose asciutto asciutto.
     Discesi dal tavolaccio, venni a lui e gli dissi: «Se volete che il mangiare mi faccia buon pro, non mi fate quel brutto ceffo».
     «E qual ceffo ho da fare?» dimandò rasserenandosi.
     «D'uomo allegro, d'amico» risposi.
     «Viva l'allegria!» sclamò. «E se, perché il mangiare le faccia buon pro, vuole anche vedermi ballare, eccola servita.»
     E misesi a sgambettare colle sue magre e lunghe pertiche sì piacevolmente che scoppiai dalle risa. Io ridea, ed avea il cuore commosso.

CAPO LXVIII

Una sera, Oroboni ed io stavamo alla finestra, e ci dolevamo a vicenda d'essere affamati. Alzammo alquanto la voce, e le sentinelle gridarono. Il soprintendente, che per mala ventura passava da quella parte, si credette in dovere di far chiamare Schiller e di rampognarlo fieramente, che non vigilasse meglio a tenerci in silenzio.
     Schiller venne con grand'ira a lagnarsene da me, e m'intimò di non parlar più mai dalla finestra. Voleva ch'io glielo promettessi.
     «No», risposi «non ve lo voglio promettere.»
     «Oh der Teufel! der Teufel!» gridò «a me s'ha a dire: non voglio! a me che ricevo una maledetta strapazzata per causa di lei!»
     «M'incresce, caro Schiller, della strapazzata che avete ricevuta, me n'incresce davvero; ma non voglio promettere ciò che sento che non manterrei.»
     «E perché non lo manterrebbe?»
     «Perché non potrei; perché la solitudine continua è tormento sì crudele per me, che non resisterò mai al bisogno di mettere qualche voce da' polmoni, d'invitare il mio vicino a rispondermi. E se il vicino tacesse, volgerei la parola alle sbarre della mia finestra, alle colline che mi stanno in faccia, agli uccelli che volano.»
     «Der Teufel! e non mi vuol promettere?»
     «No, no, no!» sclamai.
     Gettò a terra il romoroso mazzo delle chiavi, e ripeté: «Der Teufel! der Teufel!». Indi proruppe abbracciandomi:
     «Ebbene, ho io a cessare d'essere uomo per quella canaglia di chiavi? Ella è un signore come va, ed ho gusto che non mi voglia promettere ciò che non manterrebbe. Farei lo stesso anch'io.» Raccolsi le chiavi e gliele diedi.
     «Queste chiavi» gli dissi «non sono poi tanto canaglia, poiché non possono, d'un onesto caporale qual siete, fare un malvagio sgherro.»
     «E se credessi che potessero far tanto» rispose «le porterei a' miei superiori, e direi: se non mi vogliono dare altro pane che quello del carnefice, andrò a dimandare l'elemosina.»
     Trasse di tasca il fazzoletto, s'asciugò gli occhi, poi li tenne alzati, giungendo le mani in atto di preghiera. Io giunsi le mie, e pregai al pari di lui in silenzio. Ei capiva ch'io faceva voti per esso, com'io capiva ch'ei ne faceva per me.
     Andando via, mi disse sotto voce: «Quando ella conversa col conte Oroboni, parli sommesso più che può. Farà così due beni: uno di risparmiarmi le grida del signor soprintendente, l'altro di non far forse capire qualche discorso... debbo dirlo?... qualche discorso che, riferito, irritasse sempre più chi può punire».
     L'assicurai che dalle nostre labbra non usciva mai parola che, riferita a chicchessia, potesse offendere.
     Non avevamo infatti d'uopo d'avvertimenti, per esser cauti. Due prigionieri che vengono a comunicazione tra loro sanno benissimo crearsi un gergo, col quale dir tutto senza esser capiti da qualsiasi ascoltatore.

CAPO LXIX

Io tornava un mattino dal passeggio: era il 7 d'agosto. La porta del carcere d'Oroboni stava aperta, e dentro eravi Schiller, il quale non mi aveva inteso venire. Le mie guardie vogliono avanzare il passo per chiudere quella porta. Io le prevengo, mi vi slancio, ed eccomi nelle braccia d'Oroboni.
     Schiller fu sbalordito; disse: «Der Teufel! der Teufel!» e alzò il dito per minacciarmi. Ma gli occhi gli s'empirono di lagrime, e gridò singhiozzando: «O mio Dio, fate misericordia a questi poveri giovani ed a me, ed a tutti gl'infelici, voi che foste tanto infelice sulla terra!».
     Le due guardie piangevano pure. La sentinella del corridoio, ivi accorsa, piangeva anch'essa. Oroboni mi diceva: «Silvio, Silvio, quest'è uno dei più cari giorni della mia vita!». Io non so che gli dicessi: era fuori di me dalla gioia e dalla tenerezza.
     Quando Schiller ci scongiurò di separarci, e fu forza obbedirgli, Oroboni proruppe in pianto dirottissimo, e disse:
     «Ci rivedremo noi mai più sulla terra?»
     E non lo rividi mai più! Alcuni mesi dopo, la sua stanza era vota, ed Oroboni giaceva in quel cimitero ch'io aveva dinanzi alla mia finestra!
     Dacché ci eravamo veduti quell'istante, pareva che ci amassimo anche più dolcemente, più fortemente di prima; pareva che ci fossimo a vicenda più necessarii.
     Egli era un bel giovane, di nobile aspetto, ma pallido e di misera salute. I soli occhi erano pieni di vita. Il mio affetto per lui veniva aumentato dalla pietà che la sua magrezza ed il suo pallore m'ispiravano. La stessa cosa provava egli per me. Ambi sentivamo quanto fosse verisimile che ad uno di noi toccasse di essere presto superstite all'altro.
     Fra pochi giorni egli ammalò. Io non faceva altro che gemere e pregare per lui. Dopo alcune febbri racquistò un poco di forza, e poté tornare ai colloqui amicali. Oh come l'udire di nuovo il suono della sua voce mi consolava!
     «Non ingannarti,» diceami egli «sarà per poco tempo. Abbi la virtù d'apparecchiarti alla mia perdita; ispirami coraggio col tuo coraggio.»
     In que' giorni si volle dare il bianco alle pareti delle nostre carceri, e ci trasportarono frattanto ne' sotterranei. Disgraziatamente in quell'intervallo non fummo posti in luoghi vicini. Schiller mi diceva che Oroboni stava bene ma io dubitava che non volesse dirmi il vero, e temeva che la salute già sì debole di questo deteriorasse in que' sotterranei.
     Avessi almeno avuto la fortuna d'esser vicino in quell'occasione al mio caro Maroncelli! Udii per altro la voce di questo. Cantando ci salutammo, a dispetto dei garriti delle guardie.
     Venne in quel tempo a vederci il protomedico di Br¸nn, mandato forse in conseguenza delle relazioni che il soprintendente faceva a Vienna sull'estrema debolezza a cui tanta scarsità di cibo ci aveva tutti ridotti, ovvero perché allora regnava nelle carceri uno scorbuto molto epidemico.
     Non sapendo io il perché di questa visita, m'immaginai che fosse per nuova malattia d'Oroboni. Il timore di perderlo mi dava un'inquietudine indicibile. Fui allora preso da forte melanconia e da desiderio di morire. Il pensiero del suicidio tornava a presentarmisi. Io lo combatteva; ma era come un viaggiatore spossato, che mentre dice a se stesso: «» mio dovere d'andar sino alla meta» si sente un bisogno prepotente di gettarsi a terra e riposare.
     M'era stato detto che, non avea guari, in uno di quei tenebrosi covili un vecchio boemo s'era ucciso spaccandosi la testa alle pareti. Io non potea cacciare dalla fantasia la tentazione d'imitarlo. Non so se il mio delirio non sarebbe giunto a quel segno, ove uno sbocco di sangue dal petto non m'avesse fatto credere vicina la mia morte. Ringraziai Dio di volermi esso uccidere in questo modo, risparmiandomi un atto di disperazione che il mio intelletto condannava.
     Ma Dio invece volle conservarmi. Quello sbocco di sangue alleggerì i miei mali. Intanto fui riportato nel carcere superiore, e quella maggior luce e la racquistata vicinanza d'Oroboni mi riaffezionarono alla vita.

CAPO LXX

Gli confidai la tremenda melanconia ch'io avea provato, diviso da lui; ed egli mi disse aver dovuto egualmente combattere il pensiero del suicidio.
     «Profittiamo» diceva egli «del poco tempo che di nuovo c'è dato, per confortarci a vicenda colla religione. Parliamo di Dio; eccitiamoci ad amarlo; ci sovvenga ch'egli è la giustizia, la sapienza, la bontà, la bellezza, ch'egli è tutto ciò che d'ottimo vagheggiamo sempre. Io ti dico davvero che la morte non è lontana da me. Ti sarò grato eternamente, se contribuirai a rendermi in questi ultimi giorni tanto religioso quanto avrei dovuto essere tutta la vita.»
     Ed i nostri discorsi non volgeano più sovr'altro che sulla filosofia cristiana, e su paragoni di questa colle meschinità della sensualistica. Ambi esultavamo di scorgere tanta consonanza tra il Cristianesimo e la ragione; ambi, nel confronto delle diverse comunioni evangeliche, vedevamo essere la sola cattolica quella che può veramente resistere alla critica, e la dottrina della comunione cattolica consistere in dogmi purissimi ed in purissima morale, e non in miseri sovrappiù prodotti dall'umana ignoranza.
     «E se, per accidente poco sperabile, ritornassimo nella società» diceva Oroboni «saremmo noi così pusillanimi da non confessare il Vangelo? da prenderci soggezione, se alcuno immaginerà che la prigione abbia indebolito i nostri animi, e che per imbecillità siamo divenuti più fermi nella credenza?»
     «Oroboni mio» gli dissi «la tua dimanda mi svela la tua risposta, e questa è anche la mia. La somma delle viltà è d'esser schiavo de' giudizi altrui, quando hassi la persuasione che sono falsi. Non credo che tal viltà né tu né io l'avremmo mai.»
     In quelle effusioni di cuore commisi una colpa. Io aveva giurato a Giuliano di non confidar mai ad alcuno, palesando il suo vero nome, le relazioni ch'erano state fra noi. Le narrai ad Oroboni, dicendogli: «Nel mondo non mi sfuggirebbe mai dal labbro cosa simile, ma qui siamo nel sepolcro, e se anche tu ne uscissi, so che posso fidarmi di te».
     Quell'onestissim'anima taceva.
     «Perché non mi rispondi?» gli dissi.
     Alfine prese a biasimarmi seriamente della violazione del secreto. Il suo rimprovero era giusto. Niuna amicizia, per quanto intima ella sia, per quanto fortificata da virtù, non può autorizzare a tal violazione.
     Ma poiché questa mia colpa era avvenuta, Oroboni me ne derivò un bene. Egli avea conosciuto Giuliano, e sapea parecchi tratti onorevoli della sua vita. Me li raccontò, e dicea: «Quell'uomo ha operato sì spesso da cristiano, che non può portare il suo furore anti-religioso fino alla tomba. Speriamo, speriamo così! E tu bada, Silvio, a perdonargli di cuore i suoi mali umori, e prega per lui!».
     Le sue parole m'erano sacre.

CAPO LXXI

Le conversazioni di cui parlo, quali con Oroboni, quali con Schiller o altri, occupavano tuttavia poca parte delle mie lunghe ventiquattr'ore della giornata, e non rade erano le volte che niuna conversazione riusciva possibile col primo.
     Che faceva io in tanta solitudine?
     Ecco tutta quanta la mia vita in que' giorni. Io m'alzava sempre all'alba, e, salito in capo del tavolaccio, m'aggrappava alle sbarre della finestra, e diceva le orazioni. Oroboni già era alla sua finestra o non tardava di venirvi. Ci salutavamo; e l'uno e l'altro continuava tacitamente i suoi pensieri a Dio. Quanto erano orribili i nostri covili, altrettanto era bello lo spettacolo esterno per noi. Quel cielo, quella campagna, quel lontano muoversi di creature nella valle, quelle voci delle villanelle, quelle risa, que' canti ci esilaravano, ci facevano più caramente sentire la presenza di Colui ch'è sì magnifico nella sua bontà, e del quale avevamo tanto di bisogno.
     Veniva la visita mattutina delle guardie. Queste davano un'occhiata alla stanza per vedere se tutto era in ordine, ed osservavano la mia catena, anello per anello, a fine d'assicurarsi che qualche accidente o qualche malizia non l'avesse spezzata o piuttosto (dacché spezzar la catena era impossibile) faceasi questa ispezione per obbedire fedelmente alle prescrizioni di disciplina. S'era giorno che venisse il medico, Schiller dimandava se si voleva parlargli, e prendea nota.
     Finito il giro delle nostre carceri, tornava Schiller ed accompagnava Kunda, il quale aveva l'ufficio di pulire ciascuna stanza.
     Un breve intervallo, e ci portavano la colezione. Questa era un mezzo pentolino di broda rossiccia, con tre sottilissime fettine di pane; io mangiava quel pane e non beveva la broda.
     Dopo ciò mi poneva a studiare. Maroncelli avea portato d'Italia molti libri, e tutti i nostri compagni ne aveano pure portati, chi più chi meno. Tutto insieme formava una buona bibliotechina. Speravamo inoltre di poterla aumentare coll'uso de' nostri denari. Non era ancor venuta alcuna risposta dall'Imperatore sul permesso che dimandavamo di leggere i nostri libri ed acquistarne altri; ma intanto il governatore di Br¸nn ci concedeva provvisoriamente di tener ciascun di noi due libri presso di sé, da cangiarsi ogni volta che volessimo. Verso le nove veniva il soprintendente, e se il medico era stato chiesto ei l'accompagnava.
     Un altro tratto di tempo restavami quindi per lo studio, fino alle undici, ch'era l'ora del pranzo.
     Fino al tramonto non avea più visite, e tornava a studiare. Allora Schiller e Kunda venivano per mutarmi l'acqua, ed un istante appresso veniva il soprintendente con alcune guardie per l'ispezione vespertina a tutta la stanza ed ai miei ferri.
     In una delle ore della giornata, or avanti or dopo il pranzo, a beneplacito delle guardie, eravi il passeggio.
     Terminata la suddetta visita vespertina, Oroboni ed io ci mettevamo a conversare, e quelli solevano essere i colloquii più lunghi. Gli straordinari avvenivano la mattina, od appena pranzato, ma per lo più brevissimi.
     Qualche volta le sentinelle erano così pietose che ci diceano:
     «Un po' più piano, signori, altrimenti il castigo cadrà su noi»
     Altre volte fingeano di non accorgersi che parlassimo, poi, vedendo spuntare il sergente, ci pregavano di tacere finché questi fosse partito; ed appena partito esso, diceano: «Signori patroni, adesso potere, ma piano più che star possibile».
     Talora alcuni di que' soldati si fecero arditi sino a dialogare con noi, soddisfare alle nostre dimande, e darci qualche notizia d'Italia.
     A certi discorsi non rispondevamo se non pregandoli di tacere. Era naturale che dubitassimo se fossero tutte espansioni di cuori schietti, ovvero artifizii a fine di scrutare i nostri animi. Nondimeno inclino molto più a credere che quella gente parlasse con sincerità.

CAPO LXXII

Una sera avevamo sentinelle benignissime, e quindi Oroboni ed io non ci davamo la pena di comprimere la voce. Maroncelli nel suo sotterraneo, arrampicatosi alla finestra, ci udì e distinse la voce mia. Non poté frenarsi; mi salutò cantando. Mi chiedea com'io stava, e m'esprimea colle più tenere parole il suo rincrescimento di non avere ancora ottenuto che fossimo messi insieme. Questa grazia l'aveva io pure dimandata, ma né il soprintendente di Spielberg, né il governatore di Br¸nn, non avevano l'arbitrio di concederla. La nostra vicendevole brama era stata significata all'Imperatore, e niuna risposta erane fin'allora venuta.
     Oltre quella volta che ci salutammo cantando ne' sotterranei, io aveva inteso parecchie volte dal piano superiore le sue cantilene, ma senza capire le parole, ed appena pochi istanti, perché nol lasciavano proseguire.
     Ora alzò molto più la voce, non fu così presto interrotto, e capii tutto. Non v'ha termini per dire l'emozione che provai.
     Gli risposi, e continuammo il dialogo circa un quarto d'ora. Finalmente si mutarono le sentinelle sul terrapieno, e quelle che vennero non furono compiacenti. Ben ci disponevamo a ripigliare il canto, ma furiose grida s'alzarono a maledirci, e convenne rispettarle.
     Io mi rappresentava Maroncelli giacente da sì lungo tempo in quel carcere tanto peggiore del mio; m'immaginava la tristezza che ivi dovea sovente opprimerlo ed il danno che la sua salute ne patirebbe, e profonda angoscia m'opprimeva.
     Potei alfine piangere, ma il pianto non mi sollevò. Mi prese un grave dolore di capo con febbre violenta. Non mi reggeva in piedi, mi buttai sul pagliericcio. La convulsione crebbe; il petto doleami con orribile spasimo. Credetti quella notte morire.
     Il dì seguente la febbre era cessata, e del petto stava meglio, ma pareami d'aver fuoco nel cervello, e appena potea muovere il capo senza che vi si destassero atroci dolori.
     Dissi ad Oroboni il mio stato. Egli pure si sentiva più male del solito.
     «Amico» diss'egli «non è lontano il giorno che uno di noi due non potrà più venire alla finestra. Ogni volta che ci salutiamo può essere l'ultima. Teniamoci dunque pronti l'uno e l'altro sì a morire, sì a sopravvivere all'amico.»
     La sua voce era intenerita; io non potea rispondergli. Stemmo un istante in silenzio, indi ei riprese:
     «Te beato, che sai il tedesco! Potrai almeno confessarti! lo ho domandato un prete che sappia l'italiano: mi dissero, che non v'è. Ma Dio vede il mio desiderio, e dacché mi sono confessato a Venezia, in verità mi pare di non aver più nulla che m'aggravi la coscienza.»
     «Io invece, a Venezia, mi confessai» gli dissi «con animo pieno di rancore, e feci peggio che se avessi ricusato i sacramenti. Ma se ora mi si concede un prete, t'assicuro che mi confesserò di cuore e perdonando a tutti.»
     «Il cielo ti benedica!» sclamò «tu mi dài una grande consolazione. Facciamo, si, facciamo il possibile entrambi per essere eternamente uniti nella felicità, come lo fummo in questi giorni di sventura!»
     Il giorno appresso l'aspettai alla finestra e non venne. Seppi da Schiller ch'egli era ammalato gravemente.
     Otto o dieci giorni dopo, egli stava meglio, e tornò a salutarmi. Io dolorava, ma mi sostenea. Parecchi mesi passarono, sì per lui che per me, in queste alternative di meglio e di peggio.

CAPO LXXIII

Potei reggere sino al giorno 11 di gennaio 1823. La mattina m'alzai con mal di capo non forte, ma con disposizione al deliquio. Mi tremavano le gambe, e stentava a trarre il fiato.
     Anche Oroboni, da due o tre giorni, stava male, e non s'alzava.
     Mi portano la minestra, ne gusto appena un cucchiaio, poi cado privo di sensi. Qualche tempo dopo, la sentinella del corridoio guardò per accidente dallo sportello, e vedendomi giacente a terra, col pentolino rovesciato accanto a me, mi credette morto, e chiamò Schiller.
     Venne anche il soprintendente, fu chiamato subito il medico, mi misero a letto. Rinvenni a stento.
     Il medico disse ch'io era in pericolo, e mi fece levare i ferri. Mi ordinò non so qual cordiale, ma lo stomaco non poteva ritener nulla. Il dolor di capo cresceva terribilmente.
     Fu fatta immediata relazione al governatore, il quale spedì un corriere a Vienna, per sapere come io dovessi essere trattato. Si rispose che non mi ponessero nell'infermeria, ma che mi servissero nel carcere colla stessa diligenza che se fossi nell'infermeria. Di più autorizzavasi il soprintendente a fornirmi brodi e minestre della sua cucina, finché durava la gravezza del male.
     Quest'ultimo provvedimento mi fu a principio inutile: niun cibo, niuna bevanda mi passava. Peggiorai per tutta una settimana, e delirava giorno e notte.
     Kral e Kubitzky mi furono dati per infermieri; ambi mi servivano con amore.
     Ogni volta ch'io era alquanto in senno, Kral mi ripeteva:
     «Abbia fiducia in Dio; Dio solo è buono.»
     «Pregate per me» dicevagli io «non che mi risani, ma che accetti le mie sventure e la mia morte in espiazione de' miei peccati.»
     Mi suggerì di chiedere i sacramenti.
     «Se non li chiesi» risposi «attributelo alla debolezza della mia testa; ma sarà per me un gran conforto il riceverli.»
     Kral riferì le mie parole al soprintendente, e fu fatto venire il cappellano delle carceri.
     Mi confessai, comunicai, e presi l'olio santo. Fui contento di quel sacerdote. Si chiamava Sturm. Le riflessioni che mi fece sulla giustizia di Dio, sull'ingiustizia degli uomini, sul dovere del perdono, sulla vanità di tutte le cose del mondo, non erano trivialità: aveano l'impronta d'un intelletto elevato e cÛlto, e d'un sentimento caldo di vero amore di Dio e del prossimo.

CAPO LXXIV

Lo sforzo d'attenzione che feci per ricevere i sacramenti sembrò esaurire la mia vitalità, ma invece giovommi, gettandomi in un letargo di parecchie ore che mi riposò.
     Mi destai alquanto sollevato, e vedendo Schiller e Kral vicini a me, presi le lor mani e li ringraziai delle loro cure.
     Schiller mi disse: «L'occhio mio è esercitato a veder malati: scommetterei ch'ella non muore».
     «Non parvi di farmi un cattivo pronostico?» diss'io.
     «No,» rispose «le miserie della vita sono grandi, è vero; ma chi le sopporta con nobiltà d'animo e con umiltà, ci guadagna sempre vivendo.»
     Poi soggiunse: «S'ella vive, spero che avrà fra qualche giorno una gran consolazione. Ella ha dimandato di vedere il signor Maroncelli?».
     «Tante volte ho ciò dimandato, ed invano; non ardisco più sperarlo.»
     «Speri, speri, signore! e ripeta la dimanda.»
     La ripetei infatti quel giorno. Il soprintendente disse parimente ch'io dovea sperare, e soggiunse essere verisimile che non solo Maroncelli potesse vedermi, ma che mi fosse dato per infermiere, ed in appresso per indivisibile compagno.
     Siccome, quanti eravamo prigionieri di Stato, avevamo più o meno tutti la salute rovinata, il governatore avea chiesto a Vienna che potessimo esser messi tutti a due a due, affinché uno servisse d'aiuto all'altro.
     Io aveva anche dimandato la grazia di scrivere un ultimo addio alla mia famiglia.
     Verso la fine della seconda settimana la mia malattia ebbe una crisi, ed il pericolo si dileguò.
     Cominciava ad alzarmi, quando un mattino s'apre la porta, e vedo entrar festosi il soprintendente, Schiller ed il medico. Il primo corre a me, e mi dice: «Abbiamo il permesso di darle per compagno Maroncelli, e di lasciarle scrivere una lettera ai parenti».
     La gioia mi tolse il respiro, ed il povero soprintendente, che per impeto di buon cuore aveva mancato di prudenza, mi credette perduto.
     Quando riacquistai i sensi, e mi sovvenne dell'annuncio udito, pregai che non mi si ritardasse un tanto bene. Il medico consentì, e Maroncelli fu condotto nelle mie braccia.
     Oh qual momento fu quello! «Tu vivi?» sclamavamo a vicenda. «Oh amico! oh fratello! che giorno felice c'è ancor toccato di vedere! Dio ne sia benedetto!»
     Ma la nostra gioia, ch'era immensa, congiungeasi ad una immensa compassione. Maroncelli doveva esser meno colpito di me, trovandomi cosl deperito com'io era: ei sapea qual grave malattia avessi fatto. Ma io, anche pensando che avesse patito, non me lo immaginava così diverso da quel di prima. Egli era appena riconoscibile. Quelle sembianze, già sì belle, sì floride, erano consumate dal dolore, dalla fame, dall'aria cattiva del tenebroso suo carcere!
     Tuttavia il vederci, I'udirci, l'essere finalmente indivisi ci confortava. Oh quante cose avemmo a comunicarci, a ricordare, a ripeterci! Quanta soavità nel compianto! Quanta armonia in tutte le idee! Qual contentezza di trovarci d'accordo in fat to di religione, d'odiare bensì l'uno e l'altro l'ignoranza e la barbarie, ma di non odiare alcun uomo, e di commiserare gl'ignoranti ed i barbari, e pregare per loro!
 
 
 
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