BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Michelangelo Buonarroti

1475 - 1564

 

Lettere

 

Lettere alla famiglia

 

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[375]

Lettere a diversi

(dal 1496 al 1561)

 

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Archivio di Stato in Firenze 276) Di Roma, 2 di luglio 1496.

 

CCCXLII. 277)

(A Lorenzo di Pier Francesco de' Medici in Firenze).

 

Christus. Adì ij luglio 1496.

Magnifico Lorenzo etc. – Solo per avisarvi come sabato passato giugnemo a salvamento, e súbito andàmo a visitare il cardinale di San Giorgo, 278)e li presentai la vostra lettera. Parmi mi vedessi volentieri, e volle incontinente ch'io andasse a veder certe figure, dove i' ocupai tutto quel gorno, e però quello gorno non dètti l'altre vostre lettere. Dipoi domenica el Cardinale venne nella casa nuova, e fecemi domandare: andai a lui, e me domandò quello mi parea delle cose che aveva visto. Intorno a questo li dissi quello mi parea; e certo mi pare ci sia molte belle cose. Dipoi el Cardinale mi domandò se mi bastava l'animo di fare qualcosa di bello. Risposi ch'io non farei sì gran cose, ma che e' vedrebe quello che farei. Abiàmo comperato uno pezo di marmo d'una figura del naturale; e lunedì comincerò a lavorare. Dipoi lunedì passato presentai l'altre vostre lettere a Pagolo Rucellai, 279)el quale mi proferse que' danari, e 'l simile que' de' Cavalcanti. Dipoi dètti la lettera a Baldassarre, 280)e domanda'gli el bambino, e ch'io gli renderia [376] e' sua danari. Lui mi rispose molto aspramente, e che ne fare' prima cento pezi, e che el bambino lui l'aveva comperato e era suo, e che aveva lettere come egli avea sodisfatto a chi gnene mandò, e non dubitava d'àvello a rendere: e molto si lamentò di voi, dicendo che avete sparlato di lui: éccisi messo qualcuno de' nostri fiorentini per acordarci, e non ànno fatto niente. Ora fo conto fare per via del Cardinale: che così sono consigliato da Baldassarre Balducci 281)Di quello seguirà, voi intenderete. Non altro per questa. A voi mi raccomando. Dio di male vi guardi.

Michelagniolo in Roma.

 

(Di fuori.)

Sandro di Botticello in Firenze 282) [377]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 2 di maggio 1506.

 

CCCXLIII. 283)

A maestro Guliano da Sangallo fiorentino,

architettore del Papa in Roma.

 

Guliano. – Io ò inteso per una vostra come 'l Papa àuto a male la mia partita, e come sua Santità è per dipositare e fare quanto fumo d'accordo; e che io torni e non dubiti di cosa nessuna.

Della partita mia, egli è vero che io udi' dire el Sabato Santo al Papa, parlando con uno goelliere a tavola e col maestro delle cerimonie, che non voleva spendere più un baioco nè in pietre picole nè in grosse: ond'io ne presi amirazione assai: pure inanzi che io mi partissi, gli domandai parte del bisognio mio per seguire l'opera. La sua Santità mi rispose, ch'io tornassi lunedì: et vi tornai lunedì e martedì e mercoledì e giovedì; come quella vide. All'ultimo, el venerdì mattina io fui mandato fuora, ciò è cacciato via; e quel tale che me ne mandò, disse che mi conoscieva, ma che aveva tal commissione. Ond'io avendo udito il detto sabato le dette parole, e veggiendo poi l'effetto, ne venni in gran disperazione. Ma questo solo non fu cagione interamente della mia partita; ma fu pure altra cosa, la quale non voglio scrivere; basta ch'ella mi fe' pensare s'i' stavo a Roma, che fussi fatta prima la sepultura mia, che quella del Papa. E questa fu cagione della mia partita súbita.

Ora voi mi scrivete da parte del Papa; e così al Papa legierete questa: e intenda la sua Santità com'io sono disposto, più che io fussi mai, a seguire l'opera; e se quella vole fare la sepultura a ogni modo, no' gli debbe dare noia dov'io me la facci, purchè in capo de' cinque anni che noi siàno d'acordo, la sia murata [378] in Santo Pietro, dove a quella piacerà, e sia cosa bella, come io ò promesso: che son certo, se si fa, non à la par cosa tutto el mondo.

Ora se vuole la sua Santità seguitare, mèttami il detto diposito qua in Fiorenza, dov'io gli scriverrò, e io ò a ordine a Carrara molti marmi, e' quali farò venire qui e così farò venire cotesti che io ò costà: benchè mi fussi danno assai, non me ne curerei, per fare tale opera qua: e manderei di mano in mano le cose fatte in modo, che sua Santità ne piglierebe piacere, come se io stéssi a Roma o più, perchè vedrebbe le cose fatte, sanza averne altro fastidio. E de' detti danari e della detta opera m'obrigherrò come sua Santità vole e darogli quella sicurtà che domanderà qua in Fiorenza. Sia che si vole, ch'io l'assicurerò a ogni modo: e tutto Fiorenze basta. Ancora v'ò a dire questo: che la detta opera non è possibile la possa per questo prezzo fare a Roma: la qual cosa potrò fare qua per molte comodità che ci sono, le quali non sono costà; e ancora farò meglio e con più amore, perchè non àrò a pensare a tante cose. Per tanto, Guliano mio carissimo, vi prego mi facciate la risposta e presto. Non altro. Adì dua di maggio 1506.

Vostro Michelagniolo scultore in Fiorenze. [379]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 13 di maggio (1508).

 

CCCXLIV.

Al Reverendo in Cristo padre, frate Iacopo Iesuato in Firenze.

 

Frate Iacopo. – Avendo io a fare dipigniere qua cierte cose, overo dipignere, m'acade fàrvene avisato, perchè m'è di bisognio di cierta quantità d'azzurri begli: e quando voi abbiate da servirmene al presente, mi tornerebe comodità assai. Però vedete di mandare qua a' vostri frati quella quantità che voi avete, che sieno begli, e io vi prometto per gusto prezzo di tôrgli. E innanzi ch'io levi gli azzurri, vi farò pagare io vostri danari qua o costà, dove vorrete.

A' dì tredici di maggio 284)

Vostro Michelagniolo scultore in Roma. [380]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, 1512.

 

CCCXLV.

A Baldassarre (di Cagione da Carrara).

 

Baldassarre 285)– Io mi maraviglio molto di voi, perchè avendomi scritto già tanto tempo fa avere a ordine tanti marmi, e avendo avuto tanti mesi di tempo mirabile e buono per navicare; avendo avuto da me cento ducati d'oro; non vi mancando di cosa nessuna; non so da che si venga che voi non mi servite. Io vi prego che voi súbito carichiate quegli marmi che voi mi dite avere a ordine, e vegniate quante più presto, meglio. Io v'aspetterò tutto questo mese: dipoi procedereno per quelle vie che noi sarèno consigliati da chi à più cura di queste cose di me: solo vi ricordo, che voi fate male a mancare della fede e a straziare chi vi fa utile.

Michelagniolo in Roma. [381]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (20 di marzo 1517).

 

CCCXLVI.

A Domenico (Buoninsegni. Roma).

 

Messer Domenico. – Io sono venuto a Firenze a vedere il modello 286)che Baccio à finito, e ò trovato che gli è quel medesimo, cioè una cosa da fanciulli. Se vi pare si mandi, scrivete. Io parto domattina e ritornomi a Carrara, e son rimasto con la Grassa 287)fare là un modello di terra, secondo il disegno e mandargniene. E lui mi dice ne farà fare uno che starà bene: non so come s'anderà: credo bisognerà all'ultimo che io lo facci da me. Duolmi questa cosa per rispetto del Cardinale e del Papa. Non posso fare altro.

Avvisovi com'io m'usci' della compagnia che io vi scrissi aver fatta a Carrara, 288)per buon rispetto, e allogato a quei medesimi cento carrate di marmi co' prezzi che io vi scrissi o poco meglio. E a un'altra compagnia, che io ò messa insieme, n'ò allogate altre cento e ànno tempo un anno a darmegli posti in barca. [382]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Carrara, (di aprile 1517).

 

CCCXLVII.

A Domenico Buoninsegni in Roma.

 

Messer Domenico. – Bernardo Nicolini m'avisa avermi mandate certe vostre lettere, le quali io non ò avute. Credo parlino de' casi del modello.

Poi che io vi scrissi ultimamente, feci fare un modelletto a un che sta qui meco, picolo, per mandarvelo. [383]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Carrara, (2 di maggio 1517).

 

CCCXLVIII.

A Domenico (Buoninsegni. Roma).

 

Messer Domenico. – Poi che ultimamente io vi scrissi, non ò potuto attendere a fare modello, come vi scrissi fare: il perchè sarebe lungo a scrivere. Io n'avevo bozzato prima uno picoletto che servissi qua a me, di terra, il quale benchè sia torto com'un crespello, ve lo voglio mandare a ogni modo, acciò che questa cosa non paia una ciurmerìa.

Io v'ò da dir più cose: leggiete con pazienzia un poco, perchè importa. E questo è che a me basta l'animo far questa opera della facciata di San Lorenzo, che sia d'architettura e di scultura lo spechio di tutta Italia; ma bisognia che 'l Papa e 'l Cardinale si risolvino presto, se vogliono ch'io la facci o no. E se vogliono che io la facci, bisognia venire a qualche conclusione, ciò è o d'allogarmela in cottimo, e fidarsi interamente di me d'ogni cosa, o in qualche altro modo ch'e' penseranno loro, che io non lo so: il perchè questo lo intenderete.

Io, come vi scrissi, e poi che io vi scrissi, ò allogato molti marmi e dati danari qui e qua, e messo a cavare in vari luoghi. E qualche luogo dov'io ò speso, non mi sono poi riusciti e' marmi a mio modo, perchè sono cosa fallace, e più in queste pietre grande che io ò di bisognio, volendole belle come io le voglio; e in una pietra che io ò di già fatta tagliare, m'è venuto certi mancamenti di verso el Poggio che non si potevono indovinare, in modo che dua colonne che io vi volevo fare, non mi riescono, e òvi buttato la metà delle spese. E così di questi disordini non me ne può avenire sì pochi infra tanti marmi, che non montino qualche centinaio di ducati; e io non so tener conti e non posso mostrare all'ultimo avere speso, se non tanto quant'e' saranno e' marmi che io consegnierò. Farei volentieri come maestro Pier Fantini, 289)ma io non ò tanto unguento che [384] bastassi. Ancora perchè io sono vechio, non mi pare per megliorare dugiento o trecento ducati al Papa in questi marmi, perderci tanto tempo; e perchè io sono sollecitato di costà del lavoro mio, 290)mi bisognia pigliare partito a ogni modo.

E 'l partito si è questo. Sapendo io avere a fare el lavoro e 'l prezo, non mi curerei buttare quatro cento ducati, perchè non àrei a render conto, e capperei qua tre o quatro uomini de' meglio che ci sono, e allogerei loro tutti e marmi; e la qualità de' marmi avessi a essere come quegli che io ò cavati per insino adesso, che son mirabili, benchè io n'abi pochi. E di questo e de' danari che io déssi loro, n'àrei buona sicurtà in Luca, e co' marmi che io ò, darei ordine condurli a Firenze e andare a lavorare e pel Papa, e pel lavoro mio. E non avendo fatta questa conclusione soprascritta col Papa, a me non acade; e non potrei, quando volessi condurre e' marmi del mio lavoro a Firenze per averli poi a condurre a Roma, ma bisognierebemi venire a Roma presto a lavorare, perchè sono sollecitato, com'è detto.

La spesa della facciata, nel modo che io intendo di farla e metterla in opera, fra ogni cosa, che il Papa non s'abbi a impacciare più di niente, non può esser manco, secondo l'esamina che io ò fatta, che di trenta cinque mila ducati d'oro: e per tanto la piglierò a fare io in sei anni: con questo, che infra sei mesi, per rispetto de' marmi, mi bisognierebe almanco altri mille ducati; e quando questo non piaccia fare al Papa, bisognia, o che le spese ch'io ò cominciate a fare qua per la sopradetta opera, vadino per mio conto e a mio danno, e che io restituisca e' mille ducati al Papa, o che e' ci tenga uno che séguiti la impresa, perchè io per più rispetti mi voglio levar di qua a ogni modo.

Del detto prezo; ogni volta cominciata l'opera, che io conosciessi che la si potesse fare per manco, io vo verso el Papa e 'l Cardinale con tanta fede, che io ne gli aviserei molto più presto, che se 'l danno venissi sopra di me: ma più presto intendo farla, in modo che il prezo non sia a bastanza.

Messer Domenico, io vi prego che voi mi rispondiate resoluto dell'animo del Papa e del Cardinale, e questo mi fia grandissimo piacere, oltre a tutti gli altri che voi m'avete fatti. [385]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Pietrasanta, ( di marzo 1518).

 

CCCXLIX.

A Pietro Urbano da Pistoia in Firenze.

 

Pietro. – Io intendo per una tua 291)come se' sano e attendi a 'mparare. Piacemi assai: afàticati, e non mancar per niente di disegniare e d'aiutarti di quello che puoi. E' danari che tu ài di bisognio, chiedigli a Gismondo per mia parte e tienne conto. Avisoti com'io sono stato per insino a Gienova a cercare delle barche per caricare e' marmi che io ò a Carrara e òlle condotte all'Avenza, e e' Carraresi ànno corrotto e' padroni di dette barche e ànnomi assediato in modo, che e' mi bisognia andare a Pisa a provedere dell'altre; e pàrtomi oggi: e come ò dato ordine a caricare e' detti marmi, súbito ne vengo: che stimo sarà in fra quindici dì. Attendi a far bene. Non bisognia che tu venga qua per ora. Non altro.

Michelagniolo in Pietra Santa. [386]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( di marzo 1518).

 

CCCL.

(A Domenico Buoninsegni in Roma).

 

Domenico. – Come e' marmi mi sono riusciti cosa bella e come quegli che sono buoni per l'opera di Santo Pietro, sono facili a cavare e più presso alla marina che gli altri, cioè in luogo detto la Corvara; e da questo luogo alla marina non s'à a fare spesa di strada, se non in quel poco di padule che è apresso alla marina. Ma a vuolere de' marmi per figure, come ò di bisognio io, bisognia allargare la strada fatta, dalla Corvara insino sopra Seraveza circa dua miglia, e circa un miglio o manco ne bisognia far di nuovo tutta, cioè tagliarla nel monte co' piconi insino dove si possono caricare e' marmi detti. Però quando el Papa non facci aconciare se non quello che à di bisognio pe' marmi sua, cioè el padule, io non ò el modo aconciare el resto, e non potrei aver de' marmi pel mio lavoro. E nol faccendola, non potrei aver parte cura a' marmi per Santo Pietro, com'io promessi al Cardinale: ma facendola el Papa tutta, potrei fare tanto, quanto promessi.

Tutto v'ho scritto per altre lettere. Ora voi siate savio e prudente, e so che mi volete bene: però vi prego che aconciate la cosa a vostro modo col Cardinale e che voi mi rispondiate presto, acciò che io possa pigliar partito; e non sendo altro, tornarmi costà all'usato. A Carrara non andrei, perchè non àrei e' marmi ch'i' ò di bisognio, in vent'anni. Dipoi ci ò acquistato gran nimicizia per rispetto di questa cosa, e sarammi forza, s'i' torno costà, far di bronzo, come parlammo insieme.

Avisovi come gli Operai 292)ànno già fatto gran disegnio sopra questa cosa de' marmi poi che e' furono raguagliati da me, e credo che gl'abino già fatto e' prezzi e le gabelle e passi, e che e' notai, arcinotai, proveditori, sotto-proveditori abino già pensato di radoppiare e' sugniacci 293)in quel paese. Però pensateci, e fate [387] quanto potete che questa cosa non balzi loro in mano, perchè sarebe poi più dificile averne da loro, che da Carrara. Io vi prego che voi mi rispondiate presto quello vi pare che io facci, e racomandatemi al Cardinale. Io sono qua come suo omo: però non farò se non quello mi scriverrete, perchè stimerò che sia sua intenzione.

Quand'io vi scrivo, se io non scrivessi così rettamente come si conviene, o se io non ritrovassi qualche volta el verbo principale, abiatemi per iscusato, perchè i' ò apicato un sonaglio a gli orechi, che non mi lascia pensar cosa ch'io voglia.

Vostro Michelagniolo scultore in Firenze.[388]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Pietrasanta, 29 di marzo (1518).

 

CCCLI.

A Pietro Urbano a Firenze.

 

Pietro. – Tu ài a pagare gli scafaioli quando vengino a te e presentino la lettera di Donato, e ài a dar loro quello che dirà la lettera che ciascuno àrà di mia mano; e serba le lettere che e' ti dànno di Donato.

Pagerai ancora e' carradori, quando portino pezzi grossi, a ragione di venti cinque soldi el migliaio, e de' pezzi picoli, venti soldi: e tien conto e a chi tu pagi e di quello che portano.

Paga la gabella di novanta lire a' Contratti, e piglia el libro e le carte.

Dà a Baccio di Puccione i danari che e' ti domanda e tienne conto.

Compra delle canne e fa' acconciar le vite dell'orto; e se ti trovassi o terra o altra cosa asciutta da fare riempiere la stanza, fallo.

Compra un pezo di canapo di trenta braccia che non sia fracido, e pàgalo e tienne conto.

Cónfessati e attendi a 'mparare e abi cura alla casa.

Fa 'l conto con Gismondo e pàgalo, e fàtti dare 'l conto.

Làscioti ducati quaranta oggi questo dì venti nove di marzo. [389]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1518).

 

CCCLII.

Al mio caro maestro Donato Benti scultore in Pietra Santa.

 

Maestro Donato mio caro. – Io vi prego mi racomandiate al comessario, e dite a sua Signoria che io ò fatto qua quello m'impose.

De' casi nostri, egli è stato qua Cecone 294)a me per danari: io non gli ò voluto dare niente, perchè io non so quello che e' s'abino fatto costà: però vi prego diciate loro, che m'avisino quello che ànno fatto, perchè se ànno avere, gli voglio dar loro; perchè non son mai per mancare di quello che dice el contratto.

Circa a' casi vostri, detto Cecone mi dice che voi gli tenete adietro con le misure, e che non possono lavorare e che e' Pietrasantesi che io messi a cavare, ànno lasciata l'impresa, e non fanno niente: le qual cose non credo. Presto sarò di costà. A voi mi racomando.

Vostro fedelissimo

Michelagniolo scultore in Firenze. [390]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1518).

 

CCCLIII.

A Niccolò (Quaratesi) in Firenze.

 

Niccolò. – Io non potetti iersera al Canto de' Bischeri rispondervi resoluto, come era l'animo mio di fare, perchè sendo colui per chi voi mi parlavi, presente, e forse avendogli voi dato qualche speranza di quello che lui da me desidera, dubitai non vi fare vergognia. E benchè io mi scotessi più volte, non dissi però recisamente quello ch'àrei ditto a voi solo. E ora per questa ve lo fo intendere: e questo è che io non posso pigliare nessuno garzone per un certo rispetto, e tanto manco, sendo forestiere. Però io vi dissi che non ero per far niente infra dua o tre mesi, perchè e' pigliassi partito, cioè perchè l'amico vostro non lasciassi qua el figliuolo sotto la mia speranza: e lui non la intese, ma rispose, che se io lo vedessi, che non che in casa, io me lo caccerei nel letto. Io vi dico che rinunzio a questa consolazione e non la voglio tôrre a lui. Però per mio conto voi lo licenzierete, e stimo lo saperrete fare e farete in modo, che e' se ne andrà contento. A voi mi racomando.

Vostro Michelagniolo in Firenze. [391]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( di maggio 1518).

 

CCCLIV.

(Al Capitano di Cortona).

 

Signor Capitano. – Send'io a Roma el primo anno di papa Leone, vi venne maestro Luca da Cortona pittore 294a)e riscontrandolo un dì apresso a Monte Giordano, mi disse che era venuto a parlare al Papa per avere non mi ricordo che cosa, e che era già stato per essergli stato tagliato la testa per amore della Casa de' Medici, e che gli parea come dire non essere riconosciuto: e dissemi altre simil cose che io non mi ricordo: e sopra a questi ragionamenti, mi richiese di quaranta iuli e mostrommi dov'io gniene avevo a mandare, cioè in bottega d'uno che fa le scarpe, dov'io credo che lui si tornava. E io, non avendo danari acanto, m'ero offerto di mandargniene: e così feci. Súbito che io fui a casa, io gli mandai detti quaranta iuli per uno mio garzone che si chiama, ovvero à nome Silvio, 294b)el quale credo sia oggi in Roma. Dipoi forse non riuscendo al detto maestro Luca el suo disegno; passati alquanti giorni, venne a casa mia dal Macello dei Corvi, nella casa che io tengo ancora oggi, e trovommi che io lavoravo in sur una figura di marmo, ritta, alta quatro braccia, che à le mani drieto, 294c)e dolfesi meco, e richiesemi d'altri quaranta iuli, che dice che se ne volea andare. Io andai su in camera, e porta'gli quaranta iuli, presente una fante Bolognese che stava meco, e anche credo che e' v'era el sopra detto garzone che gli aveva portati gli altri: e preso detti danari, s'andò con Dio. Non l'ò mai poi rivisto. Ma send'io allora mal sano, inanzi che detto maestro Luca si partissi di casa, mi dolfi seco del non potere lavorare; e lui mi disse: non dubitare che e' verranno gli Angioli da cielo a pigliarti le braccia e ti aiuteranno.

Questo vi scrivo io, perchè se dette cose fussino riplicate a detto maestro Luca, se ne ricorderebbe e non direbbe avermeli renduti [392] (come la) 295).... vostra Signoria scrive a Buonarroto che lui dice, e più che voi .... ancora che credete che e' me gli abbi renduti. Questo non è (vero) .... che io sia uno grandissimo ribaldo e così sarebe (se io cercassi) .... di riavere quello che io avessi riavuto: ma la vo(stra Signoria penserà) .... ciò ch'ella vuole: io gli ò a riavere e così giuro. (E se la vostra Signoria mi vorrà) .... fare ragione, lo può fare; quanto che no, ac .... Capitano. [393]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 15 di luglio 1518.

 

CCCLV.

(Al cardinale Giulio de' Medici in Roma).

 

A dì xv di luglio 1518.

Monsignore Reverendissimo. – Sperando avere questo anno qualche quantità di marmi per l'opera di Santo Lorenzo in Firenze, e non trovando drento in Santo Lorenzo nè fuora appresso stanze al proposito per lavorargli, mi sono messo per farne una a comperare un pezzo di terreno da Santa Caterina dal Capitolo di Santa Maria del Fiore: 296)el quale terreno mi costa circa a trecento ducati d'oro larghi: e sono stato dreto a detto Capitolo due mesi, per avere detto terreno. Ànnomelo fatto pagare sessanta ducati più che non vale, mostrando che ne sa loro male, ma dicono non potere uscire di quello che dice la Bolla del vendere ch'egli ànno dal Papa. Ora se 'l Papa fa Bolle da potere rubare, io prego vostra Signoria Reverendissima ne facci fare una ancora a me, perchè n'ò più bisognio di loro; e se non s'usa di fare, io prego quella mi facci fare ragione in questo modo, cioè: questo terreno che io ò tolto, non è assai a quello ò di bisogno; ànne il Capitolo drieto a questo certa quantità: onde che io prego V. S. me ne facci dare un altro pezzo, nel quale io mi rifacci di quello che m'ànno tolto di più di quello che io ò comperato: e se resteranno avere, non voglio niente di loro.

Circa l'opera, e' principii sono difficili.... [394]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Seravezza, ( d'agosto 1518).

 

CCCLVI.

A Berto da Filicaia in Firenze.

 

Berto. – Io mi raccomando a voi, e ringraziovi de' servizi e benefizi ricevuti, e son sempre con tutto quello che io posso e ò e so al vostro comando. Le cose di qua vanno assai bene. La strada si può dire che sia finita, perchè resta a fare poco, cioè resta a tagliare certi sassi o vero grotte: l'una è dove sbocca la strada che escie del fiume nella strada vecchia a Rimagno; l'altra grotta è poco passato Rimagno per andare a Seraveza, un sasso grande che attraversa la strada; e l'altra è a l'ultime case di Seravezza, andando verso la Corvara. Di poi s'à spianare col piccone in qualche luogo: e tutte queste cose perchè son breve, sarebon fatte in quindici dì, se ci fussino scarpellini che valessino qualche cosa. Del padule è forse otto dì non vi sono stato; allora andavano pure riempiendo el peggio che potevano. Stimo, se ànno seguitato, che a quest'ora sia finito. De' marmi, io ò la colonna cavata giù nel canale e presso alla strada a cinquanta braccia, a salvamento. È stata maggior cosa che io non stimavo a collarla giù: èccissi fatto male qualcuno nel collarla, e uno ci s'è dinocolato e morto súbito, e io ci sono stato per mettere la vita. L'altra colonna era quasi bozata: trovai un pelo che me la troncava: èmmi bisogniato rientrare nel poggio tanto quanto l'è grossa per fugire quel pelo, e così ò fatto, e stimo che adesso la vi sarà: e bòzasi tutta via. Non m'acade altro, se non pregovi parlando alla magnificenzia di Iacopo Salviati facciate mia scusa del non scrivere, perchè non ò ancora da scrivere cosa che mi piaccia: però nol fo. El luogo da cavare è qua molto aspro, e gli uomini molto ignoranti in simile esercizio: però bisognia una gran pazienza qualche mese, tanto che e' si sieno domesticati e' monti e amaestrati gli uomini; poi faremo più presto: basta che quello che io ò promesso, lo farò a ogni modo, e farò la più bella opera che si sia mai fatta in Italia, se Dio me n'aiuta.

Poi ch'io ò scritto, ò risposta da quegli uomini di Pietrasanta che tolsono a [395] cavare una certa quantità di marmi circa sei mesi fa, che non vogliono cavare nè rendermi e' cento ducati che io dètti loro. Parmi abino fatto una grande impresa, in modo che io e' so, che non l'ànno fatta senza favore, in modo che io fo disegno di venirmene costà agli Otto e domandare loro danni di questa giunteria: non so se si può fare: spero che la magnificenzia di Iacopo Salviati m'aiuterà della ragione. [396]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Seravezza, ( di settembre 1518).

 

CCCLVII.

A Pietro Urbano (in Firenze). 297)

 

Pietro. – Se tu se' guarito del dito e che ti paia di venire insino qua con Michele, 298) puoi venire, e portami dua camice. Se non ti pare di venire, màndamele per Michele, e avisami come tu stai.

Michelagniolo in Seraveza. [397]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( di settembre 1518).

 

CCCLVIII.

A Monsignor Reverendissimo de' Medici in Roma.

 

Monsignore Reverendissimo. – Per l'opera di San Lorenzo a Pietra Santa si cava forte, e trovando e' Carraresi più umili che e' non sogliono, ancora ò ordinato cavare la gran quantità di marmi, in modo che alle prime aque spero averne in Firenze buona parte, e non credo mancar niente di quello che ò promesso io. Dio me ne dia grazia, perchè non fo stima d'altro al mondo che di piacervi. Credo àrò bisognio infra un mese di mille ducati: prego vostra Signoria Reverendissima non mi lasci mancare danari.

Ancora aviso vostra Signoria Reverendissima, com'io ò cerco e non ò mai trovato una casa capace da farvi tutta questa opera, cioè, le figure di marmo e di bronzo; e Matteo Bartoli a questi dì m'à trovato un sito mirabile e utile per farvi una stanza per simile opera: e quest'è la Piazza che è inanzi alla chiesa d'Ogni Santi: e e' Frati, secondo mi dice Matteo, son per vendermi le ragioni v'ànno su, e 'l popolo tutto se ne contenta, secondo detto Matteo, che è de' Sindachi. Non ci è altri che ci abbi da far niente, se non gl'ufitiali della Torre, che sono padroni del muro d'Arno, al quale sono apoggiate tutte le case di Borg'Ogni Santi; e questi mi daranno licenzia, con la stanza ch'io farò, mi v'appoggi ancora io. Resta solo che e' Frati àrebbon caro una lettera della vostra Signoria Reverendissima, che mostrassi che questa cosa gli è in piacere: e sarebe fatto ogni cosa. Però quando paia a quella farne scrivere dua versi o a' Frati o a Matteo, lo facci.

Servo della Vostra Signoria Reverendissima

Michelagniolo. [398]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (21 di dicembre 1518).

 

CCCLIX.

Al mio caro amico Lionardo, 299)sellaio ne' Borgerini, in Roma.

 

Lionardo. – Io sono sollecitato da voi per l'ultima vostra, e òllo molto caro, perchè vego che voi lo fate per mio bene; ma io vi fo bene intendere, che tal sollecitamenti per un altro verso mi sono tutti coltellate, perchè io muoio di passione per non potere fare quello che io vorrei, per la mia mala sorte. Stasera fa otto dì tornò Pietro 300)che sta meco, da Porto Venere, con Donato 301)che sta meco là a Carrara per conto del caricare e' marmi, e lasciorno a Pisa una scafa carica, e non è mai comparita, perchè non è mai piovuto, e Arno è secco afatto: e altre quatro scafe sono in Pisa soldate per questi marmi; che, come e' piove, verranno tutte cariche e comincierò a lavorare forte. Io sto per questo conto peggio contento che uomo che sia nel mondo. Io sono ancora sollecitato da messer Metello Vari della sua figura, 302)che è anche là in Pisa e verrà in queste prime scafe. Io non gli ò mai risposto, nè anche voglio più scrivere a voi, finchè io non ò cominciato a lavorare; perchè io muoio di dolore e parmi essere diventato uno ciurmatore contro a mia voglia.

Ò a ordine qua una bella stanza, dov'io potrò rizare venti figure per volta: non la posso coprire, perchè in Firenze non ci è legniame e non ne può venire se e' non piove, e non credo oramai e' piova ma' più, se non quando mi àrà a far qualche danno.

Del Cardinale 303)non vi dico gli diciate altro, perchè so che gli à cattiva impressione de' fatti mia; ma la sperienzia lo farà presto chiaro. Racomandatemi a Sebastiano 304)e io a voi mi racomando.

Vostro Michelagniolo in Firenze. [399]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 22 di dicembre (1518).

 

CCCLX.

Al mio maggiore Francesco Peri ne' Salviati in Pisa.

 

Carissimo mio maggiore. – Io non son venuto a far conto, come più volte m'avete scritto, perchè non sono stato bene; ora son sano e gagliardo, e súbito che io ò una risposta che m'importa assai, che io aspetto da Roma, come l'ò, súbito monto a cavallo, e vengo costà a far conto e ciò che voi volete. Io vi priego, poi avete avuta tanta pazienza, l'abiate ancora questi pochi dì, e non pigliate ammirazione de' casi mia, perchè non ò potuto fare altro.

Dei servizii m'avete fatti e delle noie avete ricevute, io lo so, e conosco e restovi ubrigato in eterno, ofrendovi, benchè picola cosa sia, me con tutto quello che io ò e posso. E come è detto, in fra pochi dì sarò costà e aconcieremo le cose con consiglio vostro, in modo che e' non vi si dia più noia.

A dì ventidua di dicembre.

Vostro Michelagniolo scultore in Firenze. [400]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 26 di dicembre 1518.

 

CCCLXI.

(A maestro Donato Benti in Seraveza).

 

Donato. – Io vi scrissi per Domenico detto el Zucca, compagnio di Andrea, come io sarei costà súbito fatto le feste. Ora sendo qua Francesco Peri, mi dice che vuole ancora stare qua per certe sua faccende, quattro o sei dì; e io avendo a far conto seco in Pisa, son rimasto d'aspettarlo per andar seco da Pisa e poi venirmene costà. E perchè in questo mezo che io tarderò qua, vi mando pel sopradetto Zucca, compagnio d'Andrea, ducati dieci largi, acciò che se fussi tempo da caricare, voi il possiate fare: e Francesco Peri m'à promesso che in Pisa saranno pagati e' noli di quanti marmi voi vi condurrete; e io, passati questi pochi dì, ne verrò con Francesco e farò conto a Pisa, e poi verrò costà e darovvi e' danari che voi vorrete. Io ò scritto a Roma della gabella di Pisa come mi avvisasti, e ancora come siate trattati costà; e spero avere risposta innanzi che io mi parta. Delle fatiche vostre io ne sono ultimamente avisato da Francesco Peri, benchè prima lo sapevo e conoscevo, di che io vi ringrazio e restovi ubrigatissimo, e son certo, vivendo questo Papa, che questa opera abbia a essere buona per voi.

A dì 26 di dicembre 1518.

Vostro Michelagniolo scultore in Firenze. [401]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (26 di dicembre 1518).

 

CCCLXII.

A Donato Benti in Seraveza. 305)

 

Donato. – Poichè io vi scrissi per il compagno d'Andrea, ò trovato Francesco Peri, e lui m'à pregato che io l'aspetti ancora sei o otto dì, perchè à qua in Firenze certe faccende, che non può partire ancora. Io l'aspetterò per esser seco a Pisa per far conto e poi ne verrò costà. E in questo mezzo, perchè voi possiate seguitare el caricare quando fia tempo, io vi mando dieci ducati: e quando sarò costà, vi darò quello che vorrete; e Francesco Peri scriverrà a Pisa che e' saranno pagati e' noli, se caricassi innanzi che noi venissimo. Però seguitate quando potete, e sapiate che voi.... [402]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1519).

 

CCCLXIII.

(A messer Domenico Buoninsegni in Roma).

 

Messer Domenico. – Io m'acorgo per la vostra che Bernardo Nicolini v'à scritto ch'io mi sdegniai un poco seco per un vostro capitolo, che diceva, come el Signore di Carrara mi caricava assai e come el Cardinale si doleva di me: e questo è che io mi sdegniai, perchè in bottega d'un merciaio me lo lesse in publico a uso di processo, acciò che e' si sapessi per quello che io andavo a morire: e perchè io gli dissi: perchè non scriv'egli a me? Io vego che voi scrivete a me: però scrivete pure a lui o a me, come vi vien bene, e dopo la iustizia, quando sarà, vi prego non manifestiate il perchè, per onore della patria.

Io intendo per l'ultima vostra, come io farei bene allogare e' marmi di San Lorenzo. Io gli ò allogati già tre volte e tutte a tre sono restato gabato: e questo è, perchè gli scarpellini di qua non s'intendono de' marmi, e visto che e' non riesce loro, si vanno con Dio. E così ci ò buttato via parechi centinaia di ducati: e per questo m'è bisogniato starvi qualche volta a me a mettergli in opera, e a mostrar loro e' versi de' marmi e quelle cose che fanno danno e quali sono e' cattivi; e 'l modo ancora del cavare, perchè io in simil cose vi son dotto.

Ancora fu necessario che ultimamente io vi stéssi. [403]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Seravezza, 20 d'aprile (1519).

 

CCCLXIV.

A Pietro Urbano in casa Michelagniolo scultore in Firenze.

 

Pietro. – Le cose sono andate molto male, e questo è che sabato mattina io mi messi a fare collare una colonna con grande ordine: e non mancava cosa nessuna, e poi che io l'ebbi collata forse cinquanta braccia, si ruppe uno anello dell'ulivella che era alla colonna, e la colonna se n'andò nel fiume in cento pezzi. El detto anello l'avea fatto fare Donato a un suo compare Lazzero ferraro; e quanto all'essere recipiente, quando fussi stato buono, era per reggere quatro colonne, e a vederlo di fuora non ci parea dubbio nessuno. Poichè s'è rotto, abbiàno visto la ribalderìa grande: che e' non era saldo drento niente e non v'era tanto ferro per grossezza che tenessi quant'è una costola di coltello; in modo che io mi maraviglio che reggessi tanto. Siàno stati a un grandissimo pericolo della vita tutti che eravamo attorno: e èssi guasto una mirabil pietra. Io lasciai questo carnovale questa cura di questi ferri a Donato, che andassi alla ferriera e togliessi ferri dolci e buoni: tu vedi come e' m'à tratato. E le casse delle taglie che e' m'à fatte fare sono anche nel collare questa colonna crepate tutte nell'anello, e sono anche loro state per rompersi; e son dua volte maggiore che quelle dell'Opera: chè, se fussi buon ferro, reggierieno un peso infinito. Ma il ferro è crudo e tristo e non si poteva far peggio: e questo è che Donato si tien con questo suo compare, e à mandato lui alla ferriera, e àmmi servito come tu vedi. Bisognia aver pazienza. Io sarò costà queste feste e comincerèno a lavorare, se piacerà a Dio. Racomandami a Francesco Scarfi.

A dì venti d'aprile.

Michelagniolo in Seravezza. [404]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Carrara, ( di aprile 1519).

 

CCCLXV.

A Pietro Urbano in Carrara .... Michelagnio .... in Firenze. 306)

 

.... stare una bella cosa di pietra i modo .... di dolore; l'altra che resta loro bozzata .... settimana, e perchè e' non mi pare che .... mi bisognia starci e così mi prega .... prima dua dì che e' non avenia el det .... dì e colleronne forse dua: però ti prego .... e carica in sur uno navicello o .... girelle di bronzo che io feci fare a go .... Francesco Peri e fa' 'l mercato e scrivi .... pregoti me le mandi súbito: fàttele .... consegniate: parla ancora agli Operai .... marmi e di' loro, che io non ò potuto essere .... loro per quello m'è avenuto e che non ....

Circa a' denari, fa' e' conti col Sbietta .... el più che tu puoi in Firenze e r .... fa fare ancora dua o tre mazuoli .... ferri e una lettera che sarà in questa .... mandàla el meglio che puoi, perchè m'importa ....

Michelagniolo .... in Seravezza.

Suggella la lettera che va a Roma .... sta e màndale .... [405]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( di maggio 1519).

 

CCCLXVI.

A Pietro Urbano in Firenze.

 

Pietro. – Tu ài andare in Pietra Santa a ser Giovan Badessa e fara'ti dare il contratto 307)in forma propia che io ò fatto co' Carraresi, ciè col Pollina e con Leone e col Bello, di otto figure che m'ànno a fare, ciò è marmi per otto figure: quatro di quatro braccia e mezo, e quatro di cinque braccia, colla largezza e grosseza che dice el contratto. E detto contratto dice, overo credo che dica, che a mezo maggio io abbia a dare a' detti Carraresi ducati trenta d'oro largi, con questo che e' debino avere cavato a detto tempo figure quatro delle sopra ditte, dua di quatro braccia e mezo, e dua di cinque. Fara'ti leggiere el detto contratto e intenderai meglio quello che ài a fare: e se e' non ànno cavate dette quatro figure non ài a dar loro danari, e puoi dir loro che le càvino e poi me lo faccino intendere, e darò loro danari. E se l'ànno cavate, che sieno come dice il contratto, darai loro trenta ducati come dice el contratto, e daragli loro in Pietra Santa; e fànne far contratto al detto Ser Giovanni Badessa: e in Carrara faratti fare una fede, con testimoni, come tu vi se' stato a mezo maggio a portare a' detti cavatori danari per osservare el contratto.

Sarai con Marco, el quale à avuto dua ducati per bozzare la pietra che io avevo a Sponda, e farne una figura di quatro o cinque braccia; e vedi se l'à bozzata, e se puoi fargniene condurre alla marina e fare caricare quella che è in sulla spiaggia, che io ebbi da Leone, e questa, fallo: e Marco troverà le barche [406] a condurre in Pisa per e' noli usati. E ancora una figura di dua braccia ch'io ebbi da Cagione. Donato mi dice che dètte e' danari a Marco che la facessi condurre alla marina. Ser Giovan Badessa à avuto per levare el sopra detto contratto barili tre: finiscigli el pagamento, che credo sarà per insino in un ducato. Fa' el meglio che puoi. [407]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Seravezza, 6 d'agosto (1519).

 

CCCLXVII.

A Girolamo del Bardella in Porto Venere. 308)

 

Girolamo. – Tornando a questi giorni da Roma, trovai una vostra lettera in Firenze scritta da' Salviati in Pisa, della quale non avete avuta risposta da me per non essere io stato in luogo che io l'abbia avuta. Ora avend'io inteso l'animo vostro per la detta lettera, cioè come àresti fatto l'impresa del condurre e' mia marmi dall'Avenza e da Pietrasanta in Pisa; m'è parso, send'io qui a Pietrasanta, scrivervi questi pochi versi per intendere se siate più d'animo di pigliare la detta condotta; e quando abiate animo di farlo, io sono in Seraveza. Piacciavi avisarmi dove ò a essere, acciò che ci troviamo insieme, perchè stimo resteremo d'acordo. Pregovi mi rispondiate presto e risoluto.

A dì sei d'agosto.

Vostro Michelagniolo scultore in Seraveza. [408]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 17 di settembre (1519).

 

CCCLXVIII.

A Pietro Urbano in Pistoia.

 

Pietro. – Io ti mando el saione, un paio di calze, la cappa e il feltro per uno che si chiama il Turchetto che sta in bottega di Buonarroto. Àvisami come tu stai, 309)e se ti bisognia niente. Io sarei venuto costa a vederti, ma io son tanto occupato, che io non mi posso partire: pure, se bisognia che io venga, avisa: e quando tu ti senti da venirne, manda di costà qualcuno fidato pel mulo, e scrivimi quello che io gli ò a dare, e io lo pagerò. Sta' sano e di buona voglia, e se puoi scrivimi la ricevuta de' sopradetti panni.

A dì diciassette di settembre.

Michelagniolo scultore in Firenze. [409]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1519).

 

CCCLXIX.

(A Meo delle Corte).

 

Meo. – I' son di nuovo sollecitato che io lavori, e che io mandi più presto che io posso a ricavare e' marmi che non son buoni: però io vi prego, che domattina un poco a migliore ora che l'usato, voi siate in sulla piazza di San Lorenzo, acciò che noi possiàn vedere dua pezzi di marmo che vi sono, se v'è mancamento, innanzi che 'l sole ci dia noia, che noi gli mettiam drento e che voi andiate via. Chiamate qualcun degli altri con esso voi, e fate chiamare el Forello, acciò si possa entrare dentro pe' ferri.

Vostro Michelagniolo. [410]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1519).

 

CCCLXX.

Al detto Meo. 310)

 

Meo. – Io ò di nuovo lettere che io cominci co' marmi che io ò, e che io mandi súbito a ricavare quegli che non son buoni: però vi prego che (voi siate) domattina un poco a migliore ora che l'usato, acciò che 'l sole non ci dia noia a vedere dua pezzi che vi sono, se v'è mancamento, e che noi gli mettiàn dentro e che voi andiate via.

 

Altra variante:

Meo. – Io vi prego che siate domattina un poco a migliore ora che l'usato a San Lorenzo, acciò che 'l sole non ci dia noia, a vedere e' mancamenti de' marmi. [411]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1519).

 

CCCLXXI.

(A messer Domenico Buoninsegni in Roma).

 

Domenico. – Io sono parato ogni ora a metere la persona e la vita, quando (occorre)ssi 311)pel cardinale de' Medici. Io parlo circa casi delle sepulture e de' marmi che si sono allogati o vero dati a cavare a Carrara. Voi (sapete) circa questo la volontà del Cardinale molto meglio che non so io; però (avisate) tanto quanto vi pare che io facci, tanto farò. Io da me non ò m(odo) a cavalcare, nè danari da spendere. Che se avessi el modo, senza dire (altro farei) quello ch'io pensassi che fussi utile e piacere del Cardinale. [412]

 

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Raccolta già Bustelli.  Di Firenze, ( di ottobre 1519).

 

CCCLXXII.

A Pietro di Michelagniolo scultore in Seraveza.

 

Pietro. – E' viene costà certi scarpellini e staranno un dì a vedere la cava. Alla tornata loro avisami come tu stai e quando tu vuoi che io ti mandi il mulo: avisami a ogni modo; e se non puoi scrivere, fa' che io sia avisato a boca perchè sto con gielosia, non t'avendo io lasciato molto bene, come àrei voluto. Non altro. Riguardati.

Michelagniolo in Firenze. [413]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (del giugno 1520).

 

CCCLXXIII.

(Al Cardinale Bernardo Dovizi in Roma).

 

Monsignore. – Io prego la vostra Reverendissima Signoria, non come amico o servo, perchè io non merito esser nè l'uno nè l'altro; ma come omo vile, povero e matto, che facci che Bastiano Veniziano pittore abi, poi ch'è morto Raffaello, qualche parte de' lavori di Palazo: e quando paia a vostra Signoria in un mio pari gittar via el servizio, penso che ancora nel servire e' matti, che rare volte si potrebe trovare qualche dolceza; come nelle cipolle per mutar cibo fa colui ch'è infastidito de' caponi. Degli uomini di conto ne servite el dì: prego vostra Signoria provi questo a me: e 'l servizio fia grandissimo, e Bastiano detto è valente omo: e se fia gittato in me, non fia così in Bastiano, perchè son certo farà onore a vostra Signoria 312)[414]

 

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Museo di Berlino.  Di Firenze, (1520).

 

CCCLXXIV.

A Sebastiano del Piombo? in Roma. 313)

 

Send'io a Carrara, per mia faccende, cioè per marmi per condurre a Roma per la sepultura di papa Iulio nel mille cinque cento sedici, mandò per me papa Leone per conto della facciata di San Lorenzo che voleva fare in Firenze. Ond'io a dì cinque di dicembre mi parti' di Carrara e andai a Roma, e là feci un disegno per detta facciata, sopr'al quale detto papa Leone mi dètte commessione ch'io facessi a Carrara cavare marmi per detta opera. Dipoi send'io tornato da Roma a Carrara l'ultimo di dicembre sopradetto, mandommi là papa Leone, per cavare e' marmi di detta opera, ducati mille per le mani di Iacopo Salviati, e portogli uno suo servitore detto Bentivoglio: e ricevetti detti danari circa a otto dì del mese vegnente, cioè di gennaio: e così ne feci quitanza. Dipoi l'agosto vegnente sendo richiesto dal Papa sopradetto del modello di detta opera, venni da Carrara a Firenze a farlo: e così lo feci di legname in forma propria con le figure di cera, e mandagniene a Roma. Súbito che lo vide mi fece andare là: e così andai, e tolsi sopra di me in cottimo la detta facciata, come apparisce per la scritta che ò con sua Santità: 314)e bisogniandomi per servire sua Santità condurre a Firenze e' marmi che io avevo a condurre a Roma per la sepultura di papa Iulio, com'io ò condotti, e dipoi lavorati, ricondurgli a Roma; mi promesse di cavarmi di tutte queste spese, cioè gabella e noli: che è una spesa di circa ottocento ducati, benchè la scritta non lo dica 315)

E a dì sei di febraio mille cinque cento diciassette tornai da Roma a Firenze, e avend'io tolto in cottimo la facciata di San Lorenzo sopradetta, tutta a mie [415] spese, e avendomi a fare pagare in Firenze detto papa Leone quattro mila ducati per conto di detta opera, come apparisce per la scritta; a' dì circa venticinque ebbi da Iacopo Salviati ducati ottocento per detto e feci quitanza, e andai a Carrara. E non mi sendo là osservato contratti e allogazione fatte prima di marmi per detta opera, e volendomi e' Carraresi assediare; andai a far cavare detti marmi a Seraveza, montagna di Pietrasanta in su quello de' Fiorentini, e quivi avend'io già fatte bozzare sei colonne d'undici braccia e mezzo l'una e molti altri marmi, e fattovi l'aviamento che oggi si vede fatto; che mai più vi fu cavato innanzi; a' dì venti di marzo mille cinque cento diciotto venni a Firenze per danari per cominciare a condurre detti marmi, e a dì venti sei di marzo mille cinque cento diciannove mi fece pagare el cardinale de' Medici per detta opera per papa Leone, da' Gaddi di Firenze, ducati cinque cento: e così ne feci la quitanza. Dipoi in questo tempo medesimo el Cardinale per commessione del Papa mi fermò che io non seguissi più l'opera sopradetta, perchè dicevono volermi tôrre questa noia del condurre e' marmi, e che me gli volevano dare in Firenze loro, e far nuova convenzione: e così è stata la cosa per insino a oggi.

Ora in questo tempo avendo mandato per gli Operai di Santa Maria del Fiore una certa quantità di scarpellini a Pietrasanta, overo a Seraveza a occupare l'aviamento e tormi e' marmi che io ò fatto cavare per la facciata di San Lorenzo, per fare il pavimento di Santa Maria del Fiore, e volendo papa Leone seguire la facciata di San Lorenzo, e avendo el cardinale de' Medici fatta l'allogazione de' marmi di detta facciata a altri che a me, e avendo dato a questi tali, che ànno preso detta condotta, l'aviamento mio di Seraveza, senza far conto meco; mi sono doluto assai, perchè nè il Cardinale nè gli Operai non potevono entrare nelle cose mia, se prima non m'ero spiccato d'accordo dal Papa: e nel lasciare detta (facciata) di San Lorenzo d'accordo col Papa, mostrando le spese fatte e' danari ricevuti, detto aviamento e marmi e masserizie sarebbono di necessità tocche o a sua Santità o a me; e l'una parte e l'altra dopo questo ne poteva fare quello voleva.

Ora sopra questa cosa il Cardinale m'ha detto che io mostri e' danari ricevuti e le spese fatte, e che mi vuole liberare, per potere e per l'Opera 316)e per sè tôrre que' marmi che vuole nel sopradetto aviamento di Seraveza.

Però i' ò mostro avere ricevuti dumila trecento ducati ne' modi e tempi che in [416] questa si contiene, e ò mostro ancora avere spesi mille ottocento ducati: che di questi ce n'è spesi circa dugento cinquanta in parte ne' noli d'Arno de' marmi della sepultura di papa Iulio, che io ò condotti qui per servire papa Iulio a Roma; che sarà una spesa di più di cinquecento ducati. Non gli metto ancora a conto il modello di legname della facciata detta, che io gli mandai a Roma; non gli metto ancora a conto il tempo di tre anni che i' ò perduti in questo; non gli metto a conto che io sono rovinato per detta opera di San Lorenzo; non gli metto a conto il vituperio grandissimo de l'avermi condotto qua per far detta opera, e poi tôrmela: e non so perchè ancora; non gli metto a conto la casa mia di Roma che io ò lasciata, che v'è ito male, fra marmi e masserizie e lavoro fatto, per più di cinque cento ducati. Non mettendo a conto le sopradette cose, a me non resta in mano de' dumila trecento ducati, altro che cinquecento ducati.

Ora noi siamo d'accordo: papa Leone si pigli l'aviamento fatto co' marmi detti cavati, e io e' danari che mi restano in mano, e che io resti libero; e cònsigliomi ch'io facci fare un Breve e che 'l Papa lo segnerà.

Ora voi intendete tutta la cosa come sta. Io vi prego mi facciate una minuta di detto Breve, e che voi aconciate e' danari ricevuti per detta opera di San Lorenzo, in modo che e' non mi possino essere mai domandati; e ancora aconciate, come in cambio di detti danari che io ò ricevuti, papa Leone si piglia il sopradetto aviamento, marmi, masserizie.... [417]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( di marzo 1521).

 

CCCLXXV.

A Giusto di Matteo calzolaio in Pistoia.

 

Gusto. – Intendo per la vostra come el marito della Masina, cioè Iulio Forteguerri, venderebbe la casa che à qua in Via Mozza, quando avessi della lira venti soldi. E' debbe essere oramai l'anno che io ve ne parlai, e non avendo dipoi intesone mai niente, m'ero vòlto al murare in un orto che io ò lassù vicino. Ora se e' sonno per vendere detto Iulio e la Masina la detta casa per giusto prezo, io la piglierò e lascierò stare el murare. Però vi prego mi rispondiate presto, e avisatemi quello che ne vogliono: e io la farò vedere; e se sarà iusto, non sono per discostarmene. Altro non m'acade. Pietro 317)credo sarà giunto stasera a Roma, e presto stimo sarà di tornata.

A dì .... di marzo.

Vostro Michelagniolo scultore in Firenze. [418]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (del febbraio 1522).

 

CCCLXXVI.

Al prudente giovane Gherardo Perini in Pesaro.

 

Tutti gli amici vostri meco insieme, Gherardo mio carissimo, si sono molto rallegrati, e più quegli che voi sapete che più v'amano, intendendo della sanità e del buono esser vostro per l'ultima vostra dal fedelissimo Zampino; e benchè la vostra umanità per la detta mi sforzi alla risposta, non mi sento però soffiziente a farla: solo vi dico questo: che noi amici vostri siamo il simile, cioè sani, e tutti ci racomandiamo a voi e massimamente ser Giovan Francesco, e 'l Piloto: 318)e la risposta, intendendo che presto avete a esser di qua, spero più pienamente farla a boca e sodisfarmi meglio d'ogni particularità, perchè è cosa che m'importa.

Adì non so quanti di febraio, secondo la mia fante.

Vostro fedelissimo e povero amico 319)[419]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1522).

 

CCCLXXVII.

Al mio caro Ser Giovan Francesco, 320)cappellano

in Santa Maria del Fiore. Firenze.

 

Ser Giovan Francesco mio carissimo. – Perchè il primo sarto, come sapete, non può attendere, e essendo quest'ultimo che io ò preso vostro amico, vi prego mi raccomandiate a lui e gli diciate, non facci domenica che viene, come la passata, che non mi volse mai vedere quel giubbone in dosso: che forse l'àrebbe raconcio in modo mi starebbe bene; perchè questi pochi dì ch'io l'ò portato, m'à stretto molto forte e massimo nel petto. Non so se me l'avessi guasto per rubarne: benchè a me pare pure omo da fidarsene. Ora questo è fatto: per quest'altre cose, vi prego gli rammentiate un poco el caso mio, e che abi gli ochi seco quando un'altra volta mi coglie più misure; che io non vorrei avere a mutar più botteghe. Piglio sicurtà in voi. A riservire.

A ore venti tre e ogn'una mi pare un anno.

Vostro fedelissimo scultore

in Via Mozza presso al canto alla 321)[420]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (del luglio 1523).

 

CCCLXXVIII.

Al mio caro amico Bartolomeo Angelini in Roma.

 

Bartolomeo amico carissimo. – I' ò ricevuto in una vostra una del Cardinale: 322)di che mi son maravigliato, che per sì piccola cosa abbiate fatto scrivere, e tanto in fretta: alla quale non risponderò altrimenti, perchè non posso resoluto, come vorrei. A voi rispondo il medesimo che per l'altra, cioè come sono desideroso di servire suo Signoria Reverendissima, e ingegnierommene quanto potrò e più presto che potrò.

Io ò grande obrigo, e son vechio e mal disposto; che se io lavoro un dì, bisognia che io me ne posi quatro; però io non mi fido promettere di me molto resoluto. Ingegnierommi di servire a ogni modo, e dimostrarvi che io conosco l'amore che mi portate.

Altro non acade. Son sempre vostro. Racomandatemi a Sebastiano Veniziano.

Vostro Michelagniolo scultore in Firenze. [421]

 

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Museo Britannico.  Di Firenze, (1523).

 

CCCLXXIX.

(A Ser Giovanni Francesco Fattucci in Roma).

 

Ser Giovanni Francesco. – E' sono ora circa dua anni ch'io tornai da Carrara d'allogare a cavare e' marmi delle sepulture del Cardinale, e andandogli a parlare, lui mi disse che io trovassi qualche buona risoluzione da far presto dette sepulture: io gli mandai scritti tutti e' modi del farle, come voi sapete che gli leggiesti, ciò è che io le farei in cottimo e a mesi e a giornate e in dono, come piacessi a sua Signoria, perchè desideravo di farle. Non fui acettato in modo nessuno. Fu detto che io non avevo el capo a servire il Cardinale. Dipoi riappiccando el Cardinale, gli offeri' di fare e' modelli di legniame grandi apunto come ànno a essere le sepulture, e farvi dentro tutte le figure di terra e di cimatura, della grandezza, e finite apunto come ànno a essere; e mostrai che questo sarebbe un breve modo, e una poca spesa a farle: che fu quando volemo comperare l'orto de' Caccini. Non fu niente, come sapete. Andando poi el Cardinale in Lombardia, andai súbito che lo 'ntesi a trovarlo, perchè desideravo di servirlo. Mi disse che io sollecitassi e' marmi e ch'io trovassi degli uomini, e che io facessi tanto quant'io potevo, che e' trovassi fatto qualche cosa, senza domandargli più di niente; e che se e' vivea, che farebbe ancora la facciata, e che lasciava a Domenico Boninsegni la commessione di tutti e' danari che bisogniavano. Partito el Cardinale, io scrissi tutte queste cose che m'avea dette a Domenico Boninsegni, e dissegli com'io ero parato a far tutto quello che desiderava el Cardinale; e di questo mi serbai la copia, e scrissi con testimoni, acciò che ognuno sapessi che e' non restava da me. Domenico mi venne súbito a trovare, e dissemi che non avea commessione nessuna, e che se io volevo niente, che lo scriverrebbe al Cardinale. Io gli dissi che non volevo niente. All'ultimo alla tornata del Cardinale, el Figiovanni mi disse che gli avea domandato di me. Io vi andai súbito, stimando volessi parlare delle sepulture; lui mi disse: "Noi vorrèmo pure che in queste sepulture fussi qualcosa di buono, [422] cioè qualcosa di tuo mano." E non mi disse che volessi che io le facessi. Io mi parti', e dissi che tornerei a parlargli quando e' marmi ci sarebbono.

Ora voi sapete come a Roma el Papa è stato avisato di questa sepultura di Iulio, e come gli è stato fatto un moto propio per farlo segniare e procedermi contro e domandarmi quello che io ò avuto sopra detta opera, e danni e interessi: e sapete come el Papa disse, che questo si facci, se Michelagniolo non vuole fare la sepultura. Adunque bisognia ch'io la facci, se non voglio capitar male, come vedete che è ordinato. E se 'l Cardinale de' Medici vole ora di nuovo, come voi mi dite, che io facci le sepulture di San Lorenzo, voi vedete che io non posso, se lui non mi libera da questa cosa di Roma; e se lui mi libera, io gli prometto lavorare per lui senza premio nessuno tutto 'l tempo che io vivo; non già che io domandi la liberazione per non fare detta sepultura di Iulio, che io la fo volentieri, ma per servirlo: e se lui non mi vuole liberare, e che e' voglia qualche cosa di mia mano in dette sepulture, io m'ingegnierò, mentre lavorerò la sepultura di Iulio, di pigliar tempo di far cosa che gli paccia. [423]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 25 di novembre (1523).

 

CCCLXXX. 323)

Al mio caro amico maestro Domenico, 324)detto Topolino,

scarpellino in Carrara.

 

Maestro Domenico mio carissimo. – L'aportatore di questa sarà Bernardino di Pier Basso, che viene costà per certi pezi di marmo che à di bisognio. Prègovi che voi l'indirizzate dove e' sia servito bene e presto: io ve lo racomando quanto so e posso. Altro non m'acade intorno a questo. Àrete inteso come Medici è fatto papa: 325)di che mi pare si sia rallegrato tutto el mondo; ond'io stimo che qua, circa l'arte, si farà molte cose: però servite bene e con fede, acciò che e' s'abbi onore.

A dì venticinque novembre.

Vostro Michelagniolo scultore in Firenze. [424]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1524).

 

CCCLXXXI.

A papa Clemente VII in Roma. 326)

 

Beatissimo padre. – Perchè e' mezzi spesse volte sono cagione di grande scandali, però io ò preso ardire, senza quegli, scrivere a vostra Santità circa le sepulture qua di San Lorenzo. Io dico che non so qual si sia meglio, o 'l mal che giova, o 'l ben che nuoce. Io son certo, così pazzo e cattivo com'io sono, che se io fussi stato lasciato seguitare, come aveva cominciato, che oggi sarebbono tutti e' marmi per dette opere in Firenze, e con manco spesa che non s'è fatto insino a ora, bozzati al proposito; e sarebbon cosa mirabile, come degli altri che io ci ò condotti.

Ora io veggo la cosa andare a lungo, nè so come la si vadi. Però io mi scuso con vostra Santità, che se cosa avvenissi che non piacessi a quella, non ci avendo io alturità, non mi pare anche d'averci colpa: e priego quella, che volendo che io facci cosa nessuna, che non mi dia nell'arte mia uomini sopracapo, e che mi presti fede, e diemi libera commessione; e vedrà quello che io farò, e 'l conto che a quella renderò di me.

La lanterna qua della cappella di detto San Lorenzo, Stefano 327)l'à finita di metter su e scopertola, e piace universalmente a ogni uomo; e così spero farà a vostra Santità quando la vedrà. Facciàno fare la palla che viene alta circa un braccio: e io ò pensato, per variarla dall'altre, di farla a faccie: e così si fa.

Servo della Vostra Santità

Michelagniolo scultore in Firenze. [425]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1524).

 

CCCLXXXII.

Al mio maggiore Giovanni Spina (in Firenze).

 

Giovanni mio caro. – Perchè la penna è sempre più animosa che la lingua, vi scrivo quello che più volte a questi dì non mi sono ardito per rispetto dei tempi dirvi a boca: e questo è, che visto e' tempi, come è detto, contrarii all'arte mia, non so se io m'ò da sperare più provigione. Quand'io fossi certo non l'avere più avere, non resterei per questo che io non lavorassi e facessi per el Papa tutto quello che io potessi, ma non terrei già casa aperta per rispetto del debito che voi sapete che io ò, avendo dove tornarmi con molto manco spesa: e a voi ancora si leverebbe la noia della pigione. E quando la mia provvigione pur séguiti, io starò qui come sono stato e ingegnieromi fare el debito mio. Però io vi prego che voi mi diciate quello che voi ne intendete, acciò che io possa pensare a' fatti mia, restandovi obrigatissimo. Io vi rivedrò queste feste in Santa Maria del Fiore.

Vostro Michelagniolo a San Lorenzo. [426]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (del gennaio 1524).

 

CCCLXXXIII.

A Ser Giovan Francesco Fattucci in Roma.

 

Messer Giovan Francesco. – Voi mi ricercate per una vostra come stanno le cose mia con papa Iulio. Io vi dico che se potessi domandar danni e interessi, più presto stimerei avere avere, che avere a dare. Perchè quando mandò per me a Firenze, che credo fussi el secondo anno del suo Pontificato, io avevo tolto a fare la metà della sala del Consiglio di Firenze, 328)cioè a dipignere; che n'avevo tre mila ducati; e di già era fatto el cartone, come è noto a tutto Firenze; che mi parevon mezzi guadagnati. E de' dodici Apostoli che ancora avevo a fare per Santa Maria del Fiore 329)n'era bozato uno, come ancora si vede; e di già avevo condotti la maggior parte di marmi. E levandomi papa Iulio di qua, non ebbi nè dell'una cosa nè dell'altra niente. Dipoi sendo io a Roma con detto papa Iulio, e avendomi allogato la sua sepultura, nella quale andava mille ducati di marmi, me gli fece pagare e mandòmi a Carrara per essi; dov'io stetti otto mesi a fargli bozzare, e condussi quasi tutti in sulla piazza di Santo Pietro, e parte ne rimase a Ripa. Dipoi finito di pagare i noli di detti marmi e mancandomi e' danari ricevuti per detta opera, forni' la casa che io avevo in sulla piazza di Santo Pietro di letti e masserizie del mio, sopra la speranza della sepultura, e fe' venire garzoni da Firenze, che ancora n'è vivi, per lavorare; e dètti loro danari inanzi del mio. – In questo tempo papa [427] Iulio si mutò d'oppenione e non la volse più fare: e io non sapendo questo, andandogli a domandare danari, fui cacciato di camera: e per questo isdegno mi parti' súbito di Roma; e andò male ciò che io avevo in casa; e e' detti marmi ch'io avevo condotti, stettono insino alla creazione di papa Leone in sulla piazza di Santo Pietro: e dell'una parte e dell'altra n'andò male assai. Fra gli altri di quel ch'io posso provare, me ne fu tolti dua pezzi di quatro braccia e mezo l'uno da Ripa da Agostino Ghigi, che m'erono costi a me più di cinquanta ducati d'oro: e questi si potrebbon risquotere, perchè ci è e' testimoni. Ma per tornare a' marmi, dal tempo che io andai per essi e che io stetti a Carrara, insino a che io fui cacciato di Palazo, v'andò più d'un anno: del qual tempo non ebbi mai nulla, e messovi parecchi decine di ducati.

Dipoi la prima volta che papa Iulio andò a Bolognia, mi fu forza andare là con la coreggia al collo a chiedergli perdonanza; onde lui mi dètte a fare la figura sua di bronzo, che fu alta a sedere circa a sette braccia. Domandandomi che spesa la sarebbe, io gli risposi che credevo gittarla con mille ducati; ma che e' non era mia arte e che io non mi volevo obrigare; mi rispose: "Va, lavora e gitterella tante volte che la venga, e daremti tanto che tu sarai contento." Per abreviare, la si gittò dua volte, e in capo di du' anni ch'io vi stetti, mi trovai avanzati quattro ducati e mezo. E di questo tempo non ebbi mai altro; e le spese tutte ch'io feci, ne' detti dui anni furno de' mille ducati con che io avevo ditto che la si gitterebbe: e' quali mi furono pagati in più volte da messere Antonio Maria da Legnia(me) bolognese.

Messo su la figura nella facciata di San Petronio e tornato a Roma, non volse ancora papa Iulio che io facessi la sepultura, e missemi a dipignere la vôlta di Sisto, e facèmo e' patti tre mila ducati. E 'l disegno primo di detta opera furono dodici Apostoli nelle lunette, e 'l resto un certo partimento ripieno d'adornamenti, come si usa.

Dipoi cominciata detta opera, mi parve riuscissi cosa povera, e dissi al Papa, come facendovi gli Apostoli soli mi parea che riuscissi cosa povera. Mi domandò perchè: io gli dissi, perchè furon poveri anche loro. Allora mi dètte nuova commessione ch'io facessi ciò ch'io volevo, e che mi contenterebe, e che io dipignessi insino alle storie di sotto. In questo tempo quasi finita la vôlta, el Papa ritornò a Bologna: ond'io v'andai dua volte per danari che io aveva avere, e non feci niente, e perde' tutto questo tempo, finchè ritornò a Roma. Ritornato a Roma, mi missi a far cartoni per detta opera, cioè per le teste e per le faccie attorno di [428] detta cappella di Sisto, e sperando aver danari e finire l'opera. Non potetti mai ottenere niente: e dolendomi un dì con messer Bernardo da Bibbiena e con Attalante, 330)com'io non potevo più stare a Roma e che mi bisogniava andar con Dio; messer Bernardo disse a Attalante che gniene rammentassi, che mi voleva far dare danari a ogni modo. E fecemi dare du' mila ducati di Camera; che son quelli con que' primi mille de' marmi ch'e' mi mettono a conto della sepultura; e io stimavo averne aver più pel tempo perduto e per l'opere fatte. E de' detti danari, avendo messer Bernardo et Attalante risucitatomi, donai a l'uno cento ducati, all'altro cinquanta.

Dipoi venne la morte di papa Iulio: e a tempo nel prencipio di Leone, Aginensis volendo accrescere la sua sepultura, cioè far maggiore opera che il disegno ch'io avevo fatto prima, si fece uno contratto 331)E non volendo io ch'e' vi mettessino a conto della sepultura i detti tre mila ducati ch'io avevo ricievuti, mostrando ch'io avevo avere molto più; Aginensis mi disse, che io ero un ciurmadore. [429]

 

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Museo Britannico.  Di Firenze, (del gennaio 1524).

 

CCCLXXXIV.

A messer Gio. Francesco Fattucci in Roma. 332)

 

Ne' primi anni di papa Iulio, credo che fossi el secondo anno ch'io andai a star seco, dopo molti disegni della sua sepultura, uno gniene piacque, sopra 'l quale facemo el mercato: e tolsila a fare per dieci mila ducati, e andandovi di marmi ducati mille, me gli fece pagare, credo da' Salviati in Firenze: e mandommi pe' marmi. Andai, condussi e' marmi a Roma e uomini, e cominciai a lavorare el quadro e le figure: di che c'è ancora degli uomini che vi lavororno: e in capo d'otto o nove mesi el Papa si mutò d'openione, e non la volse seguitare; e io trovandomi in sulla spesa grande e non mi volendo dar suo Santità danari per detta opera, dolendomi io seco, gli dètti fastidio, in modo che mi fe' cacciar di camera. Ond'io per isdegno mi parti' súbito di Roma: e andò male tutto l'ordine che io avevo fatto per simile opera: che del mio mi costò più di trecento ducati simil disordine, senza el tempo mio e di sei mesi che io ero stato a Carrara: che io non ebbi mai niente: e e' marmi detti si restorno in sulla piazza di Santo Pietro. Dipoi circa sette o otto mesi che io stetti quasi ascoso per paura, sendo crucciato meco el Papa, mi bisognò per forza, non possendo stare a Firenze, andare a domandargli misericordia a Bologna; che fu la prima volta che e' v'andò: dove mi ritenne circa du' anni a fare la sua statua di bronzo, che fu alta a sedere sei braccia: e la convenzione fu questa. Domandandomi papa Iulio quello che si veniva di detta figura; gli dissi che e' non era mia arte el gittar di bronzo, e che io credevo con mille ducati d'oro gittarla, ma che non sapevo se mi riuscirebbe. E lui mi disse: "Gitteremla tante volte che la riesca, e daremti tanti danari quanti bisognierà." E mandò per messere Antonio Maria dal Legnia(me), e dissegli che a mio piacere mi pagassi mille ducati. Io l'ebbi a gittar dua volte. Io posso mostrare avere speso [430] in cera trecento ducati, aver tenuto molti garzoni, e aver dato a maestro Bernardino, 333)che fu maestro d'artiglierie della Signoria di Firenze, trenta ducati el mese e la spesa e averlo tenuto parecchi mesi. Basta che all'ultimo messa la figura dove aveva a stare, con gran miseria, in capo di dua anni mi trovai avanzati quattro ducati e mezzo: di che io di detta opera sola stimo giustamente poterne domandare a papa Iulio più di mille ducati d'oro; perchè non ebbi mai che e' primi mille, com'è detto.

Dipoi, tornando a Roma, non volse ancora che io seguissi la sepultura, e volse che io dipigniessi la vôlta di Sisto: di che fumo d'accordo di tre mila ducati a tutte mie spese con poche figure semplicemente. Poi che io ebbi fatti certi disegni, mi parve che riuscissi cosa povera: onde lui mi rifece un'altra allogagione insino alle storie di sotto, e che io facessi nella vôlta quello che io volevo: che montava circa altrettanto: e così fumo d'accordo. Onde poi finita la vôlta, quando veniva l'utile, la cosa non andò innanzi, in modo che io stimo restare avere parecchi centinaia di ducati.... [431]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (del gennaio 1524).

 

CCCLXXXV.

A Ser Giovan Francesco Fattucci in Roma.

 

Messer Giovan Francesco. – Intendo per l'ultima vostra come la Santità del nostro Signore vuole che 'l disegnio della Libreria sia di mia mano. Io non ò notizia nessuna, nè so dove se la voglia fare: e se bene Stefano 334)me n'à parlato, non ci ò posto mente. Come torna da Carrara, io m'informerò da lui, e farò ciò che io saprò, benchè non sia mia professione.

Della pensione che voi mi scrivete, io non so di che voglia io mi sarò di qui a uno anno; e però non voglio promettere quello, di che io mi potrei pentire. Della provigione io ve n'ò scritto. [432]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (del gennaio 1524).

 

CCCLXXXVI.

A Ser Giovan Francesco Fattucci in Roma.

 

Per darvi qualche nuova, poi che gli è tanto che io non vi scrissi, sapiate che 'l Guidotto, come sapete, avea mille faccende, e in pochi dì s'è morto e à lasciato el suo cane libero a Donato, e Donato ha comperato per portare bruno una cioppa a linia masculina; la qual vedrete se vien costà, perchè è buona ancora a cavalcare.

Altro non m'acade. De' casi mia, poi che siate mio procuratore, come à voluto el Papa, 335)vi prego mi trattiate bene, come sempre avete fatto, che sapete che io ò più debito con esso voi pe' benefizi ricievuti, che non ànno, come si dice a Firenze, e' crocifissi di Santa Maria del Fiore col Noca calzaiuolo 336)[433]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 26 di gennaio 1524.

 

CCCLXXXVII.

(A Piero Gondi in Firenze) 337)

 

Piero. – El povero ingrato à questa natura, che se voi lo sovvenite ne' sua bisogni, dice che quel tanto che gli date, a voi avanzava: se lo mettete in qualche opera per fargli bene, dice sempre che voi eri forzato, e per non la saper far voi, v'avete messo lui: e tutti e' benefizi che e' riceve, dice che è per necessità del benificatore. E quando e' benefizi ricevuti sono evidenti, che e' non si possono negare; l'ingrato aspetta tanto, che quello da chi egli à ricievuto del bene, caschi in qualche errore publico, che gli sia ocasione a dirne male, che gli sia creduto, per isciorsi dall'obrigo che gli pare avere. Così è sempre intervenuto contra di me: e non s'impacciò mai nessuno meco (io dico d'artigiani), che io non gli abi fatto bene con tutto el cuore: poi sopra qualche mia bizzarria o pazzia che e' dicono che io ò, che non nuoce se non a me, si son fondati a dir male di me e a vituperarmi: che è el premio di tutti gl'uomini da bene.

Io vi scrivo sopra e' ragionamenti di iersera, e sopra e' casi di Stefano: 338)io insino a qui non l'ò messo in luogo, che se io non vi potevo essere io, i' non n'avessi trovato un altro da mettervi: tutto ò fatto per fargli bene e non per mia utilità, ma per sua; e così ultimamente. Ciò che io fo, fo per suo bene, perchè ò fatto impresa di fargli bene, e non la posso lasciare: e non creda o non dica che io lo facci per mia bisogni, chè grazia di Dio non mi manca uomini: e se l'ò stimolato a questi dì più che l'ordinario, l'ò fatto perchè io sono ancora io più obrigato che l'ordinario: e èmmi forza intendere se e' può o se vuole, o se e' sa servirmi, per potere pensare a' casi mia. E non veggendo molto chiaro l'animo suo, richiesi iersera voi che fussi mezzo a farmi intendere l'oppenione suo, e se e' sa fare quello di che io lo richiego, o se e' può o se [434] e' vuole, o se e' sa e vuole e può: che voi intendessi da lui quello che e' vuole el mese a essere sopra e' garzoni e insegnare lor fare la materia e quello che io ordinerò: e e' garzoni gli ò a pagare io. Io vi richiesi iersera di questo, e di nuovo ve ne priego che voi mi facciate intendere, come è detto, l'animo suo: e non vi maravigliate ch'io mi sia messo a scrivervelo, perchè e' m'importa assai per più rispetti, e massimo per questo: che se io lasciassi sanza gustificarmi e mettessi in suo luogo altri, sarei publicato in fra e' Piagnioni per maggior traditore che fussi in questa terra, benchè io avessi ragione. Però priego mi serviate. Io vi do con sicurtà noia, perchè voi mostrate volermi bene.

Adì venti sei di gennaio 1523.

Michelagniolo scultore in Firenze. [435]

 

――――――

 

Dai Mss. Ashburnham.  Di Firenze, 6 di febbraio 1524.

 

CCCLXXXVIII. 339)

A Giovanni Spina in Firenze.

 

Giovanni. – L'apportatore di questa sarà Stefano miniatore, al quale darete ducati quindici per conto de' modegli ch'io fo per papa Clemente, come per l'altra vi dissi.

Adì sei di febbraio mille cinque cento venti tre.

Ricievuti detto dì.

Vostro Michelagniolo scultore in Firenze. [436]

 

――――――

 

Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (del luglio 1524).

 

CCCLXXXIX.

A messer Giovan Francesco Fattucci in Roma.

 

Messer Giovan Francesco. – Per l'ultima vostra son ito a trovar lo Spina per intendere se à commessione di pagare per la Libreria, come per le sepulture; e visto ch'ei non l'à, non ò dato prencipio a detta opera, come m'avvisate; perchè non si può fare senza danari: e quando pur s'abbia a fare, pregovi facciate costà, che qua paghi lo Spina; perchè non si potrebbe trovare uomo più accomodato nè che facci con più amore e grazia simil cosa.

Del cominciare a lavorare, bisognia che io aspetti che e' marmi venghino, che non credo che venghino mai, tal ordine s'è tenuto! Àrei da scrivere cose che vo' stupiresti, ma non mi sare' creduto: basta, che l'è la mia rovina; perchè se fossi inanzi con l'opera più che io non sono, forse che 'l Papa àrebbe aconcio la cosa mia 340)e sarei fuora di tanto affanno: ma e' comparisce molto più lavoro a chi guasta, che non fa a chi aconcia. Trovai ieri uno che mi disse che io andassi a pagare, se non che all'ultimo di questo mese i' cascherò nelle pene. I' non credetti che ci fusse altre pene che quelle dell'inferno, o dua ducati d'albitrio, s'i' facessi un fondaco d'un'arte di seta o un battiloro, e 'l resto prestassi a usura. Abbiàno pagato trecento anni le gravezze a Firenze: almanco foss'io stato una volta famiglio del Proconsolo! 341)E pur bisognia pagare. Sarammi tolto ogni cosa, perchè non ò el modo e verrommene costà. Àrei, se la cosa mi fussi aconcia, venduto qualche cosa e comperato Monte 342)che m'avessi pagato le gravezze, e potre' pure stare a Firenze 343)[437]

 

――――――

 

Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (8 d'agosto 1524).

 

CCCXC.

A Giovanni Spina in Firenze.

 

Giovanni. – L'apportatore di questa sarà Niccolò di Giovanni detto il Sordo, al quale pagerete ducati tre per conto della pietra forte ch'egli à tolto a cavare per la Liberria di San Lorenzo. Pagategli a buon conto: e per le prime carrate vedrèno come servirà e del prezzo giusto e della bontà della pietra: e io pe' tre ducati detti prometto per lui.

Vostro Michelagniolo a San Lorenzo. [438]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 29 d'agosto 1524.

 

 

CCCXCI.

A Giovanni Spina.

 

Giovanni. – Poi che io parti' ieri da voi, andai ripensando a' casi mia, e visto quanto el Papa à a cuore quest'opera di San Lorenzo, e quanto sono sollecitato da sua Santità; e avendomi quella volontariamente ordinata buona provigione, acciò che io abbia più comodità di servirlo più presto, e visto che el non la pigliare, mi ritarda, e che io non àrei scusa nessuna non servendo; mi sono mutato di proposito, e dove insino a ora non l'ò domandata, ora la domando; stimando che e' sia molto meglio e per più rispetti che non acade scrivere; e massimo per tornare nella casa a San Lorenzo che avete tolta, e aconciarmivi da omo dabene: che dà che dire e fammi danno assai el non vi tornare. Però io vorrei che voi mi déssi quella quantità di provigione che mi toca dal dì che la mi fu ordinata insino a ora: e se avete commessione di farlo, pregovi lo diciate a Antonio Mini che sta meco, aportatore di questa, e quando volete che io venga per essa.

Copia fatta el dì di San Giovanni dicollato 1524 344)

 

Nell'altra parte del foglio è scritto d'altra mano:

 

✠ 1524.

 

Per mille ottociento braccia di vôlta in botte,

a lire una, soldi dua el braccio, monta    L. 1880.

 

Per tremila cinqueciento venti braccia di mura grosse dall'ammattonato

insino al tetto, a soldi sedici el bracio fornite, montano   fior. 402.   lire 2.

d'oro in oro. [439]

 

Di verso el chiostro.

 

Per dumila braccia di risega a soldi sette el braccio,

monta in tutto    fior. 100.

d'oro in oro.

 

Di verso el chiostro.

 

Per otto pilastri che vano dal fondamento insino al piano delle vôlte della Libreria, a venti ducati d'oro in oro l'uno, montono in tutto    fior. 100.

 

Per dumila braccia di risega di verso l'orto, montono    fior. 160.

 

Per otto pilastri di verso l'orto, montono    fior. 160.

 

Monta tutta la somma    fior. 1090.   lire 6.

 

Il braccio del pilastro lire sette, la manifattura,

disfare e rifare montono    fior. 200.

d'oro in oro. [440]

 

――――――

 

Dai Mss. Young. Ottley.  Di Firenze, 18 d'ottobre 1524.

 

CCCXCII.

(A Giovanni Spina).

 

 345).... arà, perchè io non ne voglio essere debitore. Ultima(mente) .... Antonio Mini che sta meco, le giornate di San Lorenzo gli (paga)sti la quantità de' danari che io volevo, che non avevi .... essi al banco. Io vi dico che e' danari e la provi(gione che io ò) dal Papa, io gli piglierò, per poterlo servire meglio et .... ro fo e per potere entrare nella casa che n .... San Giovanni detto; e se 'l Papa le dètte principio, lui .... me ne dia, io mi contento di quel di che la sua Santità si (vorrà contentar), e per ch'io credo che e' facci bene ciò che e' fa a non la (co)minciare altrimenti nè prima nè poi. E la pri(ma paga) ch'io n'ebbi fa ora otto mesi. Guardate se (riscontra con) la vostra e se avete commessione, datemela (in quella) quantità che mi toca in sino a oggi: se non l'ave(te) .... n'abbiate arrossire con me: basta che e' non si possa (dire ch'i') non l'abbi chiesta: e così m'è forza farlo in(tendere) per mia gustificazione.

La copia della lettera che io Michelagnio(lo) Buonar(roti) (ò manda)ta stamani a dì 18 d'ottobre 1524 a Giovanni (Spina) e Salviati. L'apportatore è stato Antonio Mini che (sta meco, scritta) in sur una carta come questa. [441]

 

――――――

 

Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 24 di dicembre 1524.

 

CCCXCIII.

(A Giovan Francesco Fattucci a Roma).

 

Messer Giovan Francesco. – Per l'ultima vostra intendo come sarete spedito presto e tornerete; chè vi pare mill'anni. Io vi prego che voi torniate ora, e non indugiate, perche la cosa mia 346)non si può aconciare bene, se io non son costà in persona. E già è presso che l'anno che io cominciai a scrivervi, che se voi non avevi altra faccenda che la mia a Roma, che voi la lasciassi e tornassi, perchè io non volevo che si dicessi, che io vi tenevo costà per le cose che possono avenire. Dipoi visto che voi non tornavi, vi feci scrivere a ser Dino, che vostra madre non si sentiva bene e che voi tornassi presto a vederla. Ultimamente per messere Ricciardo Del Milanese vi mandai a dire che voi tornassi a ogni modo e lasciassi la mia faccenda; e pochi dì fa per Lionardo sellaro v'ò mandato a pregare del simile. Però io di nuovo vi prego, se voi non avete altra faccenda che la mia, che voi la lasciate e torniate súbito 347)

Vostro Michelagniolo in Firenze. [442]

 

――――――

 

Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 19 d'aprile 1525.

 

CCCXCIV.

(A Giovanni Spina in Firenze).

 

Giovanni. – A me pare circa la sepultura di papa Iulio che e' non sia da mandare procura, perchè io non voglio piatire. Non si può per me piatire, se io confesso d'avere el torto. Io fo conto d'avere piatito e perduto, e d'avere a sodisfare: e così mi sono disposto fare, se io potrò. Però se 'l Papa mi vuole aiutare in questa cosa, che mi sare' grandissimo piacere, visto che io non posso finire la detta sepultura di Iulio o per vechiezza o per mala disposizione di corpo; come uomo di mezzo, può mostrare di volere che io restituisca quello che io ò ricievuto per farla, acciò che io sia fuora di questo carico, e che e' parenti di detto papa Iulio con questa restituzione la possino far fare a lor sodisfazione a chi e' vogliono; e così può la Santità del nostro Signore giovarmi assai: e in questo ancora che io abbia a restituire 'l manco che si può; non si partendo però dalla ragione; facciendo acciettare qualcuna delle ragioni mia, come del Papa di Bologna e d'altri tempi perduti sanza premio nessuno, come sa Ser Giovan Francesco, che è informato d'ogni cosa. Ed io súbito che è chiarito quello che io ò a restituire, piglierò partito di quello che io ò: venderò, e farò in modo che io restituirò e potrò pensare alle cose del Papa e lavorare: che a questo modo non vivo, non che io lavori. E nessun modo si può pigliare che sie più sicuro per me, nè che mi sia più caro, nè che più scarichi l'anima mia: e puossi fare con amore, senza piatire. E prego Dio che al Papa venga voglia d'aconciarla a questo modo, perchè non mi pare che e' ci sia el carico di nessuno. E così vi prego scriviate a messere Iacopo, 348)[443] e scrivete in quel modo che meglio sapete, acciò la cosa vadi innanzi, che io possa lavorare.

Copia d'una minuta che io ò fatta a Giovanni Spina, ch'egli scriva a Roma.

A dì 19 d'aprile 1525.

Michelagniolo scultore in Firenze. [444]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1525).

 

CCCXCV.

A Ser Giovan Francesco Fattucci in Roma.

 

Ser Giovan Francesco. – Perchè e' non si creda che io abbi a fare una sepultura di nuovo, 349)co' dumila ducati che dice il contratto, vorrei che voi facessi intendere a ser Niccolò che la detta sepultura è più che mezza fatta, e delle sei figure, di che fa menzione il contratto, 350)n'è fatte quattro, come voi sapete, che le avete viste nella casa mia a Roma, la quale mi donano, come pel contratto si vede. [445]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (dell'aprile 1525).

 

CCCXCVI.

(A Sebastiano del Piombo in Roma).

 

Sebastiano compare e amico carissimo. – Qua s'aspetta e non solamente per me, ma per più altri che vi amano e conoscono per la vostra buona fama, un quadro di pittura di vostra mano fatto per Anton Francesco degli Albizzi, 351)il quale stimiamo che sia fornito e con allegrezza desideriamo vederlo. [446]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (del maggio 1525).

 

CCCXCVII.

(A Sebastiano del Piombo in Roma).

 

Sebastiano mio carissimo. – Iersera il nostro amico capitano Cuio 352)e certi altri gentilomini volsono, lor grazia, che io andassi a cena con loro; di che ebbi grandissimo piacere, perchè usci' un poco del mio malinconico, overo del mio pazzo: e non solamente n'ebbi piacere della cena che fu piacevolisima, ma n'ebbi ancora e molto più che di quella, de' ragionamenti che vi furno. E più dipoi ne' ragionamenti mi crebbe el piacere, udendo dal detto capitano Cuio mentovare il nome vostro: nè bastò questo: e più dipoi, anzi infinitamente mi rallegrai circa all'arte, udendo dire dal detto capitano, voi essere unico al mondo e così essere tenuto in Roma. Però ancora se più allegrezza si fossi potuta avere, più n'àrei avuta. Dipoi visto che il mio gudicio non è falso; dunche non mi negate più d'essere unico, quando io ve lo scrivo, perchè n'ò troppi testimoni, e écci un quadro 353)qua, Idio grazia, che me ne fa fede a chiunche che vede lume. [447]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 4 di settembre 1525 354)

 

CCCXCVIII.

(A messer Giovan Francesco Fattucci in Roma).

 

Messer Giovanfrancesco. – Io ò scritto costà altre volte che avend'io a servire papa Clemente di cose che vogliono lungo tempo a condurre, e essend'io vechio, ch'io non spero di potere fare altro, e che io per questo desidero, non possendo fare la sepultura di Iulio, se ò a rifare di quello che n'ò ricievuto, non avere a rifare di lavori, ma più presto di danari, perchè non sarei a tempo. Non so che mi vi rispondere altro, perchè non sono in fatto e non intendo i particulari a che voi siate. Del fare detta sepultura di Iulio al muro, come quelle di Pio 355)mi piace, e è cosa più breve che in nessuno altro modo. Altro non m'acade, se non dirvi questo: che voi lasciate stare la faccienda mia e le vostre ancora, e che voi torniate, perchè intendo che la peste ritorna a gran furia, e io ò più caro voi vivo, che la faccenda mia aconcia: però tornate. Se muoio innanzi al Papa, non àrò bisognio d'aconciare più niente; se vivo, son certo che el Papa l'aconcierà, se non ora, un'altra volta: però tornate. Iersera stetti con vostra madre e consiglia'la, presente el Granacio e Giovanni tornaio, che la vi facessi tornare.

A dì 4 di settembre 1525.

Vostro Michelagniolo in Firenze. [448]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( d'ottobre 1525).

 

CCCXCIX. 356)

Al mio caro amico messere Giovan Francesco,

prete di Santa Maria del Fiore di Firenze in Roma.

 

Messer Giovan Francesco. – Se io avessi tanta forza, quant'io ò avuto allegrezza dell'ultima vostra, io crederrei condurre e presto tutte le cose che voi mi scrivete; ma perchè io non ò tanta, farò quello che potrò.

Circa al colosso di quaranta braccia, di che m'avvisate, 357)che à a ire, overo che s'à a mettere in sul canto della loggia dell'orto de' Medici a riscontro al canto di messer Luigi della Stufa, io v'ò pensato e non poco, come voi mi dite; e parmi che in su detto canto none stia bene, perchè ocuperebe troppo della via; ma in su l'altro dove è la bottega del barbiere, secondo me, tornerebbe molto meglio, perchè à la piazza dinanzi, e non darebbe tanta noia alla strada. E perchè forse non sare' sopportato levar via detta bottega, per amore dell'entrata, ò pensato che detta figura si potrebbe fare a sedere, e verrebe sì alto el sedere, che facendo detta opera vota dentro, come si conviene a farla di pezzi, che la bottega del barbiere vi verrebbe sotto, e non si perderebbe la pigione. E perchè ancora detta bottega abbi, come à ora, donde smaltire el fummo, parmi di fare a detta statua un corno di dovizia in mano, voto dentro, che gli servirà per cammino. Dipoi avend'io el capo voto dentro di tal figura, come l'altre membra, di quello ancora credo si caverebbe qualche utilità, perchè e' c'è qui in sulla piazza un trecone molto mio amico, el quale m'à ditto in segreto che vi farebbe dentro una bella colonbaia. Ancora m'ocorre un'altra fantasia che sarebbe molto meglio, ma bisognierebbe fare la figura assai maggiore: e potrebbesi, perchè di pezzi si fa una torre: e questa è che 'l capo suo servissi pel campanile di San Lorenzo, che n'à un gran bisognio: [449] e cacciandovi dentro le campane, e usciendo el suono per boca, parrebbe che detto colosso gridassi misericordia, e massimo el dì delle feste, quando si suona più spesso e con più grosse campane.

Circa del fare venire e' marmi per la sopra detta statua, che e' non si sappi per nessuno, parmi da fargli venire di notte e turati molto bene, acciò che e' non sieno visti. Saracci un po' di pericolo alla porta: e anche a questo piglierèno modo; al peggio fare, San Gallo 358)non ci manca, che tien lo sportello insino a dì.

Del fare o del non fare le cose che s'ànno a fare, che voi dite che ànno a soprastare, è meglio lasciarle fare a chi l'à fare, ch'io arò tanto da fare ch'i' non mi curo più di fare. A me basterà questo, che fia cosa onorevole.

Non vi rispondo a tutte le cose, perchè lo Spina vien di corto a Roma, e a boca farà meglio che io colla penna e più particularmente.

Vostro Michelagniolo scultore in Firenze. [450]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 24 d'ottobre 1525.

 

CD.

(A messer Giovan Francesco Fattucci in Roma).

 

Messere Giovan Francesco. – Alla vostra ultima, le quattro figure conciate non sono ancora finite, e évvi da fare ancora assai 359)Le quattro altre per Fiumi non sono cominciate, perchè non ci sono e' marmi: e pure ci sono venuti. Non vi scrivo come, perchè non mi acade. Delle cose di Iulio mi piace fare una sepultura come quella di Pio in Santo Pietro, come m'avete scritto, e farolla fare qua a poco a poco, quando una cosa e quando una altra e pagherolla del mio, avend'io la provigione e restandomi la casa, come m'avete scritto; cioè la casa dov'io stavo costà in Roma, co' marmi e le cose che vi sono; cioè ch'io non abbi a dare loro, dico alle rede di papa Iulio, per disobrigarmi della sua sepultura, altro di cosa che io abbi avuto insino a qui, che la sepultura detta, come quella di Pio in Santo Pietro; e mettasi per farla un tempo conveniente; e farò le figure di mia mano; e dandomi la mia provigione, come è detto, io non resterò mai di lavorare per papa Clemente co' quelle forze che io ò; che son poche, perchè son vechio: con questo che e' non mi sia fatti e' dispetti che io veggo farmi, perchè possono molto in me: e non m'ànno lasciato far cosa ch'io voglia, già più mesi sono: chè e' non si può lavorare con le mani una cosa, e col ciervello una altra, e massimo di marmo. Qua si dice che son fatti per ispronarmi; e io vi dico che e' son cattivi [451] sproni quelli che fanno tornare adietro. I' non ò preso la provigione già è passato l'anno, e combatto con la povertà: son molto solo alle noie, e ònne tante, che mi tengono più ocupato che non fa l'arte, per non potere tenere chi mi governi, per non avere el modo.

Questa è la copia della lettera che Michelagniolo scultore à mandato oggi questo dì 24 d'ottobre 1525 a papa Clemente; e io Antonio di Bernardo Mini ò fatto questa copia di mia propia mano. [452]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( d'ottobre 1525).

 

CDI.

(A messer Giovan Francesco Fattucci in Roma).

 

Messere Giovan Francesco. – Piero Gondi m'à mostro una vostra lettera che è per risposta d'una sua scrisse a voi più dì fa: e per quella intendo vorresti sapere da chi io sono stato richiesto, come v'à scritto Piero, che v'à scritto il vero. Però sono stato richiesto da più persone, ma di quelli a chi s'apartiene, Lorenzo Morelli è uno di quelli che à voluto intendere l'animo mio in questo modo. Francesco da Sangallo venne a me e dissemi, che Lorenzo detto àrebbe avuto caro d'intendere se io ero per servirgli, quando lui ne facessi impresa: io risposi che visto la benevolenzia loro e di tutto el popolo, che io non gli potevo rimeritargli, se non col farla e farla in dono, come già fu' obrigato, quando al Papa piacessi; al quale send'io obrigato, non posso fare altro che le cose sua, sanza sua licenza. Messer Luigi Della Stufa m'à ancora lui più volte ricerco del medesimo: e ò fatta la medesima risposta. Non ò mai poi parlato altrimenti, nè n'àrei parlato prima; ma sendo domandato, m'è stato forza rispondere. Ancora a questi dì, di nuovo certi m'ànno ditto che gli Operai ànno avuto a dire, che non darebbe lor noia aspettare dua o tre anni, tanto che io avessi servito el Papa, perch'io la facessi 360)[453]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (dell'aprile 1526).

 

CDII.

(A messer Giovan Francesco Fattucci in Roma).

 

Messere Giovan Francesco. – Di questa settimana che viene, farò coprire le figure di Sagrestia che vi sono bozzate, perchè io voglio lasciare la Sagrestia libera a questi scarpellini de' marmi, perchè io voglio che comincino a murare l'altra sepultura a riscontro di quella che è murata; che è squadrata tutta, o poco manca. E in questo tempo che e' la mureranno, pensavo si facessi la vôlta, e credevo io che con gente assai la si facessi in dua o in tre mesi: non me ne intendo. Passata questa settimana che viene, Nostro Signore potrà a sua posta mandare maestro Giovanni Da Udine se gli pare che la si facci ora, perchè sarò a ordine.

Del ricetto, di questa settimana si è murato quattro colonne e una n'era murata prima. Terranno un poco adietro e' tabernacoli: pure in quattro mesi da oggi, credo sarà fornito. El palco si comincierebbe ora, ma tigli non sono ancora buoni; solleciterèno che e' si secchino el più che si potrà.

Io lavoro el più che io posso, e in fra quindici dì farò cominciare l'altro Capitano: poi mi resterà di cose d'importanza, solo e' quattro Fiumi. Le quattro figure in su cassoni, le quattro figure in terra che sono e' Fiumi, e dua Capitani e la Nostra Donna che va nella sepultura di testa, sono le figure che io vorrei fare di mia mano: e di queste n'è cominciate sei: e bastami l'animo di farle in tempo conveniente e parte far fare ancora l'altre che non importano tanto. Altro non acade: racomandatemi a Giovanni Spina, e pregatelo che scriva un poco al Figiovanni, e preghilo che non ci togga e' carradori per mandargli a Pescia, perchè noi resteremo senza pietre: e ancora che non ci incanti gli scarpellini, per farsegli benivoli con dir loro: "Costoro ànno poca discrezione di voi, or che le notte sono dua ore, a farvi lavorare insino a sera."

Abbiàno fatica con cent'occhi di farne lavorare uno, e anco quell'uno c'è guasto da chi è sviscierato. Pazienza! Non voglia Iddio che e' dispiaccia a me, quello che non dispiace a lui. [454]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 1 di novembre 1526.

 

CDIII.

(A messer Giovan Francesco Fattucci in Roma).

 

Messere Giovan Francesco. – Io so che lo Spina à scritto costà a questi dì molto caldamente sopra e' casi mia della cosa di Iulio. Se à fatto errore rispetto ai tempi in che noi siàno, l'ò fatto io che l'ò pregato importunamente che scriva. Forse che la passione m'à fatto metter troppa mazza. Io ò avuto uno raguaglio a questi dì della cosa mia detta di costà, che m'à messo gran paura: e questa è la mala disposizione che ànno e' parenti di Iulio verso di me: e non senza ragione: e come el piato séguita, e domandonmi danni e interessi, in modo che e' non basterebbon cento mia pari a sodisfare. Questo m'à messo in gran travaglio e fammi pensare dov'io mi troverrei, se 'l Papa mi mancassi, che non potrei stare in questo mondo. E questo è stato cagione che ò fatto scrivere, com'è detto. Ora io non voglio se non quello che piace al Papa: so che non vuole la mia rovina e 'l mio vituperio. Io ò visto qua l'allentare della muraglia, e veggo che le spese si vanno limitando publicamente, e veggo che per me si tiene una casa a San Lorenzo a pigione e la provigione mia ancora: che non sono piccole spese. Quando tornassi bene limitare anche queste e darmi licenzia che io potessi cominciare o qua o costà qualche cosa per la detta opera di Iulio, l'àrei molto caro; perchè io desidero uscire di quest'obrigo più che di vivere. Nondimeno non sono per partirmi mai dalla volontà del Papa, pure che io la intenda. Però io vi prego, inteso l'animo mio, che voi mi scriviate la volontà del Papa, e io non uscirò di quella: e pregovi l'abbiate da lui e da sua parte me la scriviate, per poter meglio e con più amore ubidire, e anche per potermi un dì, quando acadessi, con le vostre lettere giustificare.

Altro non m'acade. Se non so scrivere quello che voi saprete intendere, non vi maravigliate, che ò perduto el cervello intieramente. Voi sapete l'animo mio: saprete quello di chi s'à a ubidire. Rispondete, ve ne priego. A dì primo di novembre 1526.

Vostro Michelagniolo

scultore a San Lorenzo in Firenze. [455]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 10 di novembre 1526.

 

CDIV.

(A Giovanni Spina in Firenze).

 

Giovanni. – A me pare che si dia licenzia a Piero Buonacorsi, perchè qui non è più di bisognio. Se voi lo volete tenere per fargli questo bene, tenetelo quanto a voi pare. Io ve lo scrivo, perchè io non voglio essere quello che lo tenga, nè quello che gitti via e' danari del Papa, come è stato detto. Però vi prego l'avisiate, quant'è più presto, meglio, acciò che e' pensi a' casi sua: che e' non s'abbi poi da dolere, non gniene avendo fatto intendere 361)

Vostro Michelagniolo a voi si racomanda. [456]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1529).

 

CDV.

A Ser Marcantonio del Cartolaio. 362) 

Ser Marcantonio. – Io son certo che voi eleggierete uomo da bene e sofficente, molto più che non saprei fare io; però volentieri dò la voce mia, con questo che e' me ne resti tanta, ch'i' possi poi favellare anch'io.

Vostro Michelagniolo Buonarroti.

 

Patrone osservantissimo. – Avendo la Signoria vostra datomi commissione che io aluogassi la boce vostra pel Proveditore, di che l'ò data a Pagolo di Benedetto Bonsi, uomo da bene e di sorte che la Signoria vostra penso ne resterà sodisfatta, et ad causa sappia la Signoria vostra se ne contenti, desiderrei quella mi rispondessi per il presente aportatore. E a quella mi raccomando.

Vostro Ser Marcantonio Cancelliere a' Nove. [457]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Venezia, (25 di settembre 1529).

 

CDVI.

Al mio caro amico Batista della Palla in Firenze. 363)

 

Batista amico carissimo. – Io parti' di costà, com'io credo che voi sappiate, per andare in Francia, e gunto a Vinegia, mi sono informato della via, e émmi detto che andando di qua, s'à a passare per terra tedesca, e che gli è pericoloso e dificile andare. Però ò pensato d'intendere da voi, quando vi piaccia, se siate più in fantasia d'andare, e pregarvi, e così vi prego me ne diate aviso, e dove voi volete che io v'aspetti: e anderemo di compagnia. Io parti' senza far motto a nessuno degli amici mia e molto disordinatamente: e benchè io, come sapete, volessi a ogni modo andare in Francia, e che più volte avessi chiesto licenzia, e non avuta, non era però che io non fussi resoluto senza paura nessuna di vedere prima el fine della guerra. Ma martedì mattina, a dì ventuno di setembre, venn'uno fuora della porta a San Nicolò dov'io ero a' bastioni, e nell'orechio mi disse, che e' non era da star più a voler campar la vita: e venne meco a casa, e quivi desinò, e condussemi cavalcature, e non mi lasciò mai, che e' mi cavò di Firenze, mostrandomi che ciò fussi el mio bene. O Dio o 'l diavolo quello che si sia stato, io non lo so.

Pregovi mi rispondiate al di sopra della lettera, e più presto potete, perchè mi consumo d'andare. E se non siate più in fantasia d'andare, ancora vi prego me n'avisiate, acciò pigli partito d'andare el meglio potrò da me 364)

Vostro Michelagniolo Buonarroti. [458]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (26 di giugno 1531).

 

CDVII.

(A Sebastiano del Piombo in Roma) 365)

 

Sebastiano mio caro. – Io vi do troppa noia: portate in pace, e pensate d'avere a essere più glorioso a risucitare morti che a fare figure che paino vive. Circa la sepultura di Iulio io v'ò pensato più volte, come mi scrivete, e parmi che e' ci sia dua modi di disobbrigarsi: l'uno è farla, l'altro è dare loro e' danari che la si facci per le lor mane; e di questi dua modi non s'à a pigliar se non quello che piacerà al Papa. El farla io, secondo me, non piacerà al Papa, perchè non potrei attendere alle cose sue: però sarebbe da persuader loro; io dico chi è sopra tal cosa per Giulio; che pigliassino e' danari e facessino farla loro. Io darei disegni e modelli, e ciò che e' volessino, co' marmi che ci sono lavorati. Aggiugnendovi dumila ducati, io credo che e' si farebbe una bella sepultura; e ècci de' giovani che la farebbon meglio che non farei io. Quando si pigliasse quest'ultimo modo di dar loro e' danari che e' la facessin fare, io potrei contar loro ora mille ducati d'oro, e in qualche modo poi gli altri mille; purchè e' si risolvino di cosa che piacci al Papa: e quando e' sieno per mettere a effetto quest'ultimo, io vi scriverrò in che modo si potranno far gli altri mille ducati, che credo non dispiacerà.

Io non vi scrivo lo stato mio particolarmente, perchè non acade: solo vi dico questo, che tremila ducati che portai a Vinegia 366)tra oro e moneta, diventorno, quand'io tornai a Firenze, cinquanta, e tolsemene el Comune circa mille cinquecento. Però io non posso più; ma troverassi de' modi; e così spero, visto el favore che mi promette el Papa. Sebastiano, compare carissimo, io sto saldo nei detti modi e pregovi ne tocchiate fondo. [459]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( di luglio 1531).

 

CDVIII.

(A Fra Sebastiano del Piombo) 367)

 

Frate Sebastiano compar carissimo. – I' ò avuto tre vostre lettere: alle dua prime risposi, e la risposta della prima vi mandai per mezzo di messer Bartolomeo Angiolini costà a un suo amico, il quale scrisse qua averla data in persona nelle vostre mani; dipoi la seconda risposta della seconda vostra mandai per quello avisasti, la quale intendo per questa da voi, sola quella abbiate ricievuta. [460]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (del marzo 1532).

 

CDIX.

(A Fra Sebastiano del Piombo).

 

Frate Sebastiano. – Io vi prego per carità che diciate a messer Lodovico del Milanese, overo lo preghiate, che mandi a ser Giovan Francesco la sua pensione. Farete grandissimo piacere a me, e maggiore a lui, perchè à a pagare assai danari e non à il modo. Ve lo raccomando 368)[461]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( di maggio 1532).

 

CDX.

(Ad Andrea Quaratesi in Pisa).

 

Andrea mio caro. – Io vi scrissi circa un mese fa com'io avevo fatto vedere e stimare la casa, e per quanto la si poteva dare in questi tempi: e scrissivi ancora che io non credevo che voi la trovassi da vendere; perchè avend'io a pagare per la mia cosa di Roma 369)dumila ducati; che saranno tremila con certe altre cose; ò voluto, per non restare ignudo, vendere case e possessione, e dare la lira per dieci soldi: e non ò trovato e non truovo. Però credo sare' meglio indugiare, che gettare via. [462]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1 di gennaio 1533).

 

CDXI.

(A messer Tommaso de' Cavalieri in Roma).

 

Inconsideratamente, messer Tomao signor mio carissimo, fui mosso a scrivere a vostra Signoria, non per risposta a alcuna vostra che ricievuta avessi, ma primo a muovere, come se creduto m'avesse passare con le piante asciutte un picciol fiume, overo per poca aqqua un manifesto guado. Ma poi che partito sono dalla spiaggia, non che picciol fiume abbi trovato, ma l'oceano con soprastante onde m'è apparito innanzi; tanto che se potessi, per non esser in tutto da quelle sommerso, alla spiaggia ond'io prima parti', volentieri mi ritornerei. Ma poi che son qui, faréno del cuor rocca e anderéno inanzi: e se io non àrò l'arte del navicare per l'onde del mare del vostro valoroso ingegno, quello mi scuserà, nè si sdegnierà del mio disaguagliarsigli, nè desiderrà da me quello che in me non è: perchè chi è solo in ogni cosa, in cosa alcuna non può aver compagni. Però la vostra Signoria, luce del secol nostro unica al mondo, non può sodisfarsi di opera d'alcuno altro, non avendo pari nè simile a sè. E se pure delle cose mia, che io spero e prometto di fare, alcuna ne piacerà, la chiamerò molto più avventurata che buona; e quand'io abbi mai a esser certo di piacere, come è detto, in alcuna cosa a vostra Signoria, il tempo presente, con tutto quello che per me à a venire, donerò a quella: e dorràmi molto forte non potere riavere il passato, per quella servire assai più lungamente, che solo con l'avenire, che sarà poco, perchè son troppo vechio. Non ò altro che dirmi. Leggiete il cuore, e non la lettera, perchè "la penna al buon voler non può gir presso."

Ò da scusarmi che nella prima mia mostrai maravigliosamente stupir del vostro peregrino ingegnio, e così mi scuso, perchè ò conosciuto poi in quanto errore i' fui; perchè quanto è da maravigliarsi che Dio facci miracoli, tant'è che Roma produca uomini divini. E di questo l'universo ne può far fede. [463]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 1 di gennaio (1533).

 

CDXII.

(A messer Tommaso de' Cavalieri in Roma) 370)

 

Molto inconsideratamente mi missi a scrivere a vostra Signoria e fui il primo prosuntuoso a muovere, come se per risposta d'alcuna di quella, per debito l'avessi a fare; e tanto più ò dipoi conosciuto l'error mio, quanto ò letta e gustata, vostra mercè, la vostra; e non che appena mi parete nato, come in essa di voi mi scrivete, ma stato mille altre volte al mondo: e io non nato, o vero nato morto mi reputerei, e direi in disgrazia del cielo e della terra, se per la vostra non avessi visto e creduto vostra Signoria accettare volentieri alcune delle opere mie: di che n'ò auto maraviglia grandissima e non manco piacere: e se è vero che quella così senta di dentro, come di fuora scrive, di stimare l'opere mie; se avviene che alcuna ne facci come desidero, che a lei piaccia, la chiamerò molto più avventurata che buona. Non dirò altro. Molte cose alla risposta conveniente restano, per non vi tediare, nella penna, è perchè so che Pierantonio apportatore di questa saprà e vorrà suprire a quello che io manco. A dì primo per me felice di gennaro.

 

Sarebbe lecito dare il nome delle cose che l'uomo dona, a chi le riceve: ma per buono rispetto non si fa in questa 371) [464]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (1 di gennaio 1533).

 

CDXIII.

A messer Tommaso de' Cavalieri in Roma. 372)

 

Molto inconsideratamente mi missi a scrivere a vostra Signoria, e fui il primo prosuntuoso a muovere, come se per risposta d'alcuna di quella per debito l'avessi a fare: e tanto più ò dipoi conosciuto l'error mio, quante ò letta e gustata, vostra mercè, la vostra: e non che appena mi parete nato, come in essa di voi mi scrivete, ma stato mille altre volte al mondo; e io non nato, overo nato morto mi reputo, e direi in disgrazia del cielo e della terra, se per la vostra non avessi visto e creduto vostra Signoria accettare volentieri alcune delle opere mie: di che n'ò avuto maraviglia grandissima e non manco piacere. E quando sia vero che quella così senta di dentro come di fuora mi scrive, di stimare l'opere mie, se avviene che alcuna ne facci come desidero, che a quella piaccia, la chiamerò molto più aventurata che buona. Per non vi tediare, non scriverrò altro. Molte cose conveniente alla risposta restano nella penna, ma Pierantonio amico nostro, che so che saprà e vorrà suprire a quel che io manco, le finirà a boca.

 

Sarebbe lecito dare il nome delle cose che l'uomo dona, a chi le riceve: ma per buon rispetto non si fa in questa.

[465]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 19 di marzo 1533.

 

CDXIV.

A Francesco Galluzzi (in Firenze) 373)

 

Francesco. – L'apportatore di questa sarà Bernardo Basso, capo­maestro dell'Opera di San Lorenzo, al quale io vi prego pagiate la pigione m'avete a dare: ònne bisognio grandissimo, e saranno ben pagati. A voi mi racomando.

A dì 19 di marzo 1532.

Vostro Michelagniolo Buonarroti

a San Lorenzo. [466]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( di luglio 1533).

 

CDXV.

(A frate Sebastiano del Piombo in Roma).

 

Compar mio caro. – I' ò ricievuto i dua Madrigali, e ser Giovan Francesco gli à fatti cantare più volte, e secondo che mi dice, son tenuti cosa mirabile circa il canto: non meritavano già tal cosa le parole. Così avete voluto: di che n'ò avuto piacere grandissimo, e pregovi m'avisiate come m'ò a governare circa a questo verso di chi à fatto, ch'i' paia manco igniorante e ingrato che sia possibile.

Dell'opera 374)qua non iscriverrò altro per ora, perchè mi pare averne a questi di scritto assai, e sonmi ingegniato quant'ò potuto di imitare la maniera e lo stil del Figiovanni in ogni particularità, perchè mi par molto a proposito a chi vuol dire di molte cose. Non mostrate la lettera.

Avete data la copia de' sopradetti Madrigali a messer Tomao; che ve ne resto molto obrigato e pregovi, se lo vedete, mi raccomandiate a lui infinite volte; e quando mi scrivete, ne diciate qualche cosa per tenermelo nella memoria; che se m'uscissi della mente, credo che súbito cascherei morto 375)[467]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (28 di luglio 1533).

 

CDXVI.

(A messer Tommaso de' Cavalieri in Roma).

 

Signore mio caro. – Se io non avessi creduto avervi fatto certo del grandissimo, anzi smisurato amore che io vi porto, non mi sare' paruta cosa strana, nè mi sare' maraviglia il gran sospetto che voi mostrate per la vostra avere avuto per non vi scrivere, che io non vi dimentichi. Ma non è cosa nuova, nè da pigliarne ammirazione, andando tante altre cose al contrario, che questa vadi a rovescio anch'ella: perchè quello che vostra Signoria dice a me, io l'àrei a dire a quella: ma forse quella fa per tentarmi o per riaccender nuovo et maggior foco, se maggior può essere: ma sia come si vuole: io so bene che io posso a quell'ora dimenticare il nome vostro, che 'l cibo di che io vivo; anzi posso prima dimenticare el cibo di ch'io vivo, che nutrisce solo il corpo infelicemente, che il nome vostro, che nutrisce il corpo e l'anima, riempiendo l'uno e l'altra di tanta dolcezza, che nè noia nè timor di morte, mentre la memoria mi vi serba, posso sentire. Pensate se l'ochio avessi ancora lui la parte sua, in che stato mi troverrei.

 

Dall'altra parte del foglio è la seguente variante:

.... e se pur certo n'eri e siate, dovevi e dovete pensare che chi ama à grandissima memoria, e può tanto dimenticar le cose che ferventemente ama, quant'uno affamato il cibo di che e' vive: anzi molto meno si può l'uomo dimenticar le cose amate, che 'l cibo di che l'uom vive; perchè quelle nutriscono il corpo e l'anima: l'uno con grandissima sobrietà, e l'altra con felice tranquillità et con aspettazione d'eterna salute.

 

Altra variante:

Anzi molto più può dimenticar l'uomo il cibo, di che 'l corpo si nutriscie e vive, perchè quello spesso il conduce in somma miseria e gravezza; che e' non può dimenticar le cose amate, che con tranquilla felicità gli promettono eterna salute. [468]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (28 di luglio 1533).

 

CDXVII.

(A messer Tommaso de' Cavalieri in Roma) 376)

 

Messer Tomao, signor mio caro. – Benchè io non rispondessi all'ultima vostra, non credo che voi crediate che io abbi dimenticato o possa dimenticare el cibo di che io vivo, che non è altro che 'l nome vostro: però non credo, benchè io parli molto prosuntuosamente, per esser molto inferiore, che nessuna cosa possa impedire l'amicizia nostra 377)[469]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, (11 di ottobre 1538).

 

CDXVIII.

(A Bartolommeo Angiolini in Roma) 378)

 

... la gatta e .... pace e triegua .... che le bestie mia .... da maravigliarsi di m .... glierei quand'io potessi fa .... ma di vivere solamente .... anima mia a messer Tomao com .... pensare quanto come senza essa io possa stare (non che vivere, avendogli) prima dato il core. Potete ancora considerare .... come resta, e com'io viva, sendo sì lontano dall'uno .... però se io desidero come senza alcuna entermissione giorno e n(otte) di esser costà, non è per altro che per tornare in vita, la qual cosa non può esser senza l'anima: e perchè il core è veramente la casa dell'anima, e essendo prima il mio nelle mani di colui a chi voi l'anima mia avete data, natural forza era di ritornalla al luogo suo. (variante:) natural forza v'à fatto ritornarla al suo proprio loco. Così avessi voi potuto fare del corpo! che volentieri sarebbe ito nel medesimo loco ito (sic) e con l'anima sua, e non sarei qua i tanti affanni: ma se non è stato, possa essere quante più presto, meglio, nè possa in eterno vivere altrove.

Bartolomeo mio caro, benchè e' paia ch'io motteggi con esso voi, sappiate che io dico pur da buon senno, che son venti anni e venti libbre invechiato e diminuito, poichè sono qua, e non so se 'l Papa si parte di costà, quello s'abbi (a far) di me, nè dove si vorrà ch'i' stia. [470]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, 15 di ottobre 1533.

 

CDXIX.

(A messer Giovambattista Figiovanni in Firenze).

 

Messer Giovanbatista, patron mio caro. – All'ultimo di questo mese finiscono i quatro mesi che io giunsi a Firenze per conto del Papa: e 'l primo de' detti quatro mesi voi mi portasti la provigione; io non la volsi, e dissivi che voi me la serbassi. Voi mi rispondesti se avevi a scrivere al Papa, che io l'avessi avuto: vi dissi, che voi scrivessi il vero: dipoi mi mostrasti una lettera del Papa, che diceva che voi non guardassi alle mia parole e che voi me la déssi. Ora io vorrei fare più danari che io posso per isbrigar più presto la cosa mia di Roma; e domandassera àrò finiti dua modelli picoli che io fo pel Tribolo, e martedì vo' partire a ogni modo. Però la provigione vi dissi mi serbassi, vi prego me la diate; cioè me la diate di dua mesi; e gli altri dua mesi donerò al Papa. Faretemi grandissimo piacere, restandovi sempre ubrigato.

Addì 15 d'ottobre 1533.

Vostro Michelagniolo

in casa i Macciagnini in Firenze 379)[471]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( di dicembre 1533).

 

CDXX.

A Febo (di Poggio?).

 

Febo. – Benchè voi mi portiate odio grandissimo; non so perchè; non credo già per l'amore che io porto a voi, ma per le parole d'altri, le quale non doverresti credere, avendomi provato; non posso però fare che io non vi scriva questo. Io parto domattina, e vo a Pescia a trovare il cardinale di Cesis e messer Baldassarre: 380)andrò con loro insino a Pisa; dipoi a Roma: 381)e non tornerò più di qua: e fòvi intendere, che mentre ch'i' vivo, dovunche io sarò, sempre sarò al servizio vostro con fede e con amore, quanto nessuno altro amico che abbiate al mondo.

Prego Iddio perchè v'apra gli ochi per un altro verso, acciò che voi conosciate che chi desidera il vostro bene più che la salute sua, sa amare e non odiare come nemico. [472]

 

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Raccolta di B. Pino.  Di Roma, (del settembre 1537).

 

CDXXI.

(A messer Pietro Aretino in Venezia) 382)

 

Magnifico messer Pietro, mio signore e fratello. – Nel ricever della vostra lettera ho avuto allegrezza e dolore insieme; sonmi molto allegrato per venire da voi, che siete unico di virtù al mondo: et anco mi sono assai doluto, perciò che avendo compìta gran parte della istoria, non posso mettere in opera la vostra immaginazione, la quale è sì fatta, che se 'l dì del Giudizio fosse stato, et voi l'aveste veduto in presenzia, le parole vostre non lo figurerebbono meglio. Or per rispondere allo scrivere di me, dico che non solo l'ò caro, ma vi supplico a farlo; da che i Re e gli Imperatori hanno per somma grazia, che la vostra penna gli nomini. In questo mezzo, se io ho cosa alcuna che vi sia a grado, ve la offerisco con tutto il cuore. Et per ultimo, il vostro non voler capitare a Roma non rompa, per conto del veder la pittura che io faccia, la sua deliberazione, perchè sarebbe pur troppo. Et mi raccomando.

Michel'Agnolo Buonaroti. [473]

 

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Biblioteca Nazionale in Firenze.  Di Roma, 20 di gennaio 1542.

 

CDXXII.

(A messer Niccolò Martelli in Firenze) 383)

Messer Niccolò. – I' ò da messer Vincenzo Perini una vostra lettera con dua sonetti et uno madrigale. La lettera e 'l sonetto diritti a me sono cosa mirabile, tal che nessuno potrebbe essere tanto ben gastigato, che in lor trovassi cosa da gastigare. Vero è che mi dànno tante lodi, che se io avessi il paradiso in seno, molte manco sarebbono a bastanza. Veggo vi siate immaginato ch'io sia quello che Dio 'l volessi ch'io fussi. Io sono un povero uomo e di poco valore, che mi vo afaticando in quell'arte che Dio m'à data, per alungare la vita mia il più ch'io posso; et così com'io sono, son servitore vostro et di tutta la casa de' Martelli; et della lettera et de' sonetti vi ringrazio, ma non quanto sono ubbrigato, perchè non aggiungo a sì alta cortesia. Son sempre vostro. Di Roma alli XX di gennaio l'anno XLII.

Michelagniolo Buonarroti. [474]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1542).

 

CDXXIII.

(A messer Luigi del Riccio in Roma).

 

Questo 384)mandai più tempo fa a Firenze. Ora perchè l'ò rifatto più al proposito, ve lo mando, acciò che piacendovi lo diate al foco, cioè a quello che m'arde. Ancora vorrei un'altra grazia da voi, e questa è che mi cavassi d'una certa ambiguità in che io son rimasto stanotte, che salutando l'idolo nostro in sognio, mi parve che ridendo mi minacciassi; e io non sappiendo a qual delle dua cose m'abbia a tenere, vi prego lo intendiate da lui, e domenica riveggiendoci, me ne ragguagliate.

Vostro con infiniti obbrighi e sempre

Se vi piace, fatelo scriver bene e datelo a quelle corde che legan gli uomini senza discrezione, e racomandatemi a messer Donato 385)[475]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1542).

 

CDXXIV.

A messer Luigi del Riccio, amico carissimo.

 

Messer Luigi. – Io vi mando un sacco di carte scritte, acciò che vostra Signoria vegga quale è quella che s'à a mandare al Cortese, e quella che è dessa, prego dica a Urbino che la facci copiare e che l'aspetti e paghi, e dipoi la porti al detto Cortese: e non possendo oggi vostra Signoria attendere a ciò, Urbino mi riporti dette scritte, e rimanderovele un'altra volta quando sarà tempo.

Ancora prego vostra Signoria mi mandi la mia poliza e quella del Perino overo di Pierino, e ancora quel sonetto che io vi mandai, acciò che io lo racconci e faccigli dua ochi, come mi dicesti.

Vostro Michelagniolo. [476]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( d'agosto 1542).

 

CDXXV.

(A messer Luigi del Riccio in Roma).

 

Messer Luigi, signor mio caro. – D'un grandissimo piacere vi prego quanto so e posso: e questo è, che veggiate certo scritto che à fatto per me il Cortese, perchè io non lo intendo, e non vi posso andare, come vi raguaglierà Urbino. E per non gli parere ingrato, vi prego ringraziate sua Signoria e racomandatemegli; e voi mi perdonate della troppa sicurtà.

Vostro Michelagniolo. [477]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1542).

 

CDXXVI. 386)

A messer Luigi del Riccio, signor mio caro e amico fedele.

 

Messer Luigi, signor mio caro. – El mio amore à retificato al contratto che io gli ò fatto di me; ma dell'altra retificagione 387)che voi sapete, non so già quello che me ne pensi: però mi racomando a voi e a messer Donato e al terzo, poi o prima come volete.

Vostro pieno d'affanni

Michelagniolo Buonarroti, Roma.

 

Cose vechie dal fuoco senza testimone. [478]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1542).

 

CDXXVII.

(A messer Luigi del Riccio in Roma) 388)

 

Messer Luigi. – Voi c'avete spirito di poesia, vi prego che m'abreviate e raconciate uno di questi madrigali quale vi pare il manco tristo, perchè l'ò a dare a un nostro amico.

Vostro Michelagniolo. [479]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1542).

 

CDXXVIII.

A messer Luigi del Riccio in Banchi 389)

 

Messer Luigi, signor mio caro. – Il canto d'Arcadente 390)è tenuto cosa bella; e perchè secondo il suo parlare non intende avere fatto manco piacere a me, che a voi che lo richiedesti, io vorrei non gli essere sconoscente di tal cosa. Però prego pensiate a qualche presente da fargli o di drappi o di danari, e che me n'avisiate; e io non àrò rispetto nessuno a farlo. Altro non ò che dirvi: a voi mi racomando, e a messer Donato, e al cielo e alla terra.

Vostro Michelagniolo un'altra volta. [480]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1542).

 

CDXXIX.

(A messer Luigi del Riccio in Roma).

 

Messer Luigi. – E' mi parebbe di far di non parere ingrato verso Arcadente. Però se vi pare usargli qualche cortesia, súbito vi renderò quello che gli darete. Io ò un pezzo di raso in casa per un giubbone, che mi levò messer Girolamo. Se vi pare, ve lo manderò per dargniene. Ditelo a Urbino o a altri, quello che vi pare. Di tutto vi sodisfarò.

Vostro Michelagniolo. [481]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1542).

 

CDXXX.

A messer Luigi del Riccio, amico carissimo.

 

Messer Luigi. – Chi è povero e non à chi 'l serva, fa di questi errori. Io non potetti ieri nè venire nè rispondere alla vostra, perchè le mia brigate tornorno di notte a casa. Però mi scuso con esso voi; e voi prego mi scusiate con messer Silvestro, 391)e racomandatemi a Cechino 392)[482]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (del luglio 1542).

 

CDXXXI.

(A messer Luigi del Riccio in Roma).

 

Messer Luigi, signor mio caro. – Io vi mando per Urbino che sta meco, scudi venti che vostra Signoria gli dia a maestro Giovanni per l'opera che sapete; e cavando di detta opera ancora detto Urbino, mi bisognia darne altri venti a lui, che saranno quaranta: che àrò già speso cento quaranta scudi: e di detta opera non è fatto per sessanta. Settanta cinque scudi àrà avuti maestro Giovanni, che ve ne guadagnia su trenta, e 'l resto de' cento che io dètti prima, da cinquanta cinque che prese maestro Giovanni per insino in cento, à speso Urbino in giornate e in marmi, poichè la compagnia si divise: e non à auto in dua mesi niente; che àrebbe aver di guadagnio il medesimo che maestro Giovanni, cioè trenta scudi, cavandolo dell'opera; ma con venti lo contenterò 393)

Poichè fu fatto e scritto el giudicio della quantità fatto di sopradetta opera, l'ò misurata da me, e non trovo che ne sie fatta la decima parte. Ma ò ben caro che gli uomini che giudicorno, dicessino la settima in favore di maestro Giovanni, perchè non si potessi dolere. Ma non v'è rimedio: e se nessuno avessi da dolersi, sarei io più che gli altri, che ci ò perduto dua mesi di tempo per impacciarmi con ... 394)ma più mi duole lo sdegnio del Papa, che dugento scudi. [483] Piglio troppa sicurtà in vostra Signoria. Iddio mi dia di poterla ristorare.

Maestro Giovanni à a liberare i marmi che son rimasi a Campidoglio; quegli che poi che e' ne fu pagato, non gli lasciò levare: che fu una delle cagioni della questione nata tra loro: e così à a fare fine d'ogni altra cosa.

Vostro Michelagniolo: Roma. [484]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( di luglio 1542).

 

CDXXXII.

A messer Luigi del Riccio in Roma.

 

Messer Luigi Signior mio caro. – Vostra Signoria à maneggiata questa discordia che è nata fra Urbino e maestro Giovanni, e per non ci avere interesso, ne potrà dare buon giudicio. Io per fare bene all'uno e all'altro, ò dato loro a fare l'opera che sapete. Ora perchè l'uno è troppo tacagnio, e l'altro non è manco pazzo, è nata tal cosa tra loro, che ne potre' seguire qualche grande scandolo o di ferite o di morte; e quando tal cosa seguissi o nell'uno o nell'altro, mi dorrebbe di maestro Giovanni, ma molto più di Urbino, perchè l'ò allevato. Però mi parrebbe, se la ragione lo patisce, cacciar via l'uno e l'altro e che l'opera mi restasse libera, acciò che il lor cattivo cervello non mi rovini e che io la possa seguitare. E perchè è stato detto che la detta opera io la divida, e diene una parte all'uno e una all'altro, questo io non lo posso fare e a darla 395).... a un solo di lor dua, farei ingiuria a quello a chi io non la déssi. Però non mi pare che e' ci sia altro riparo che lasciarmi l'opera libera, acciò la possa seguitare; e de' danari, cioè cento scudi che io ò dati e delle fatiche loro, se l'acconcino tra loro in modo che io non perda. E di tal cosa vostra Signoria prego gli metta d'acordo il meglio che si può, perchè è opera di carità. E perchè forse ci sarà qualcuno che vorrà mostrare d'aver fatto quel poco che è fatto, tutto lui, e di restare avere, oltre a' ricevuti, molti altri danari; quando questo sia, io potrò mostrare ancora io d'avere nella detta opera perduto un mese di tempo per la loro ignioranza e bestialità, e tenuto adrieto l'opera del Papa, che m'è danno di più di dugento scudi; in modo che molto più àrò aver io da loro, che loro dall'opera.

Messer Luigi, io ò fatto questo discorso a vostra Signoria in iscritto, perchè a farlo a boca presente gli uomini mi spargo tutto in modo in loro, che non mi resta fiato da parlare.

Vostro Michelagniolo Buonarroti

al Macello de' Poveri. [485]

 

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Biblioteca Nazionale di Firenze.  Di Roma, 20 di luglio 1542.

 

CDXXXIII.

Supplica a papa Paolo III. 396) 

Avendo messer Michelagnolo Buonarroti tolto a fare più fà la sepoltura di papa Iulio in Santo Piero in Vincola con certi patti et conventioni, come per uno contratto rogato per messer Bartolomeo Cappello sotto dì 18 di aprile 1532 appare; et essendo di poi ricerco et astretto dalla Santità di N. S. papa Paulo Terzo di lavorare e dipignere la sua nova cappella, non possendo attendere al fornire della sepoltura et a quella; per mezo di sua Santità di nuovo riconvenne con lo illustrissimo signor duca di Urbino, al quale è rimasta a cura la prefata sepoltura, come per una sua lettera de' dì 6 di marzo 1542 si vede; che di sei statue che vanno in detta sepoltura, detto messer Michelagnolo ne potessi allogare tre a buono et lodato maestro, il quale le fornissi et ponessi in detta opera; et le altre tre, fra le quali fussi il Moises, le havessi lui a fornire di sua mano et così fussi tenuto far fornire il quadro, cioè il resto dell'ornamento di detta sepoltura, secondo il principio fatto. Onde per dare esecuzione a detto accordo, il prefato messer Michelagnolo allogò a fornire le dette tre statue, quali erano molto innanzi, cioè una Nostra Donna con il Putto in braccio, ritta, et uno Profeta et una Sibilla a sedere, a Raffaello da Montelupo, fiorentino, aprovato fra e' migliori maestri di questi tempi, per scudi quattrocento, come per la scritta fra loro appare; et il resto del quadro et ornamento della sepoltura, eccetto l'ultimo frontispitio, alsì allogò a maestro Giovanni de' Marchesi et a Francesco da Urbino, scarpellini et intagliatori di pietre, per scudi settecento, come per obrighi fra loro apare. Restavagli a fornire le tre statue di sua mano, cioè un Moises et dua prigioni: le quali tre statue sono quasi fornite. Ma perche li detti dua prigioni furno fatti [486] quando l'opera si era disegnata che fussi molto maggiore, dove andavano assai più statue; la quale poi nel sopradetto contratto fu risecata et ristretta; per il che non convengono in questo disegno, nè a modo alcuno ci possono stare bene; però detto messer Michelagnolo per non mancare a l'onore suo, dètte cominciamento a dua altre statue che vanno dalle bande del Moises, la Vita contemplativa et la attiva, le quali sono assai bene avanti, di sorta che con facilità si possono da altri maestri fornire. Et essendo di nuovo detto messer Michelagnolo ricerco, et sollecitato dalla detta Santità di N. S. papa Paulo Terzo a lavorare et fornire la sua cappella, come di sopra è detto; la quale opera è grande et ricerca la persona tutta intera et disbrigata da altre cure; essendo detto messer Michelagnolo vechio, et desiderando servire sua Santità con ogni suo potere; essendone alsì da quella astretto e forzato, nè possendo farlo se prima non si libera in tutto da questa opera di papa Iulio, la quale lo tiene perplesso della mente e del corpo; suprica sua Santità, poi che è resoluta che lui lavori per lei, che operi collo illustrissimo signor duca d'Urbino, che lo liberi in tutto da detta sepoltura, cassandogli et anullandoli ogni obrigazione fra loro con li sottoscritti onesti patti. In prima detto messer Michelagnolo vuole licenzia di possere allogare le altre due statue che restono a finire, al detto Raffaello da Montelupo o a qualsivoglia altri a piacimento di sua Eccellenzia, per il prezo onesto et che si troverrà, che pensa sarà scudi 200 in circa, et il Moises vuol dare finito da lui; et di più vuole dipositare tutta la somma de' danari che andranno in fornire del tutto la detta opera; ancora che li sia scommodo et che in la detta opera abbia messo in grosso; cioè il resto di quello che non avesse pagato a Raffaello da Montelupo per fornire le tre statue allogatoli, come di sopra, che sono circa scudi 300, et il resto di quello non avesse pagato della fattura del quadro et ornamento, che sono circa scudi 500, et li scudi 200, o quello bisognerà per fornire le dua statue utime et di più ducati cento che andranno in fornire l'utimo frontispizio dell'ornamento di detta sepoltura: che in tutto sono scudi 1100 in 1200 o quelli bisognerà, quali dipositerà in Roma in sur uno banco idoneo a nome del prefato illustrissimo signor Duca, suo et de l'opera, con patti espressi che abbino a servire per fornire detta opera et non altro; nè si possino per altra causa toccare o rimuovere. Et è, oltre a questo, contento, per quanto potrà, avere cura a detta opera di statue et ornamento che sia fornita con quella diligenzia che si ricerca: et a questo modo sua Eccellentia sarà sicura che l'opera si fornirà e saprà dove sono i danari per tale effetto; et potrà per sua ministri farla di continuo sollecitare et condurre a prefezione: il che à a desiderare, essendo messer [487] Michelagnolo molto vechio et occupato in opera da tenerlo tanto, che a fatica àrà tempo a fornirla, non che fare altro. Et messer Michelagnolo resterà in tutto libero et potrà servire et sadisfare al desiderio di sua Santità, la quale suprica che ne facci scrivere a sua Eccellenzia, che ne dia qua ordine idoneo et ne mandi proccura sufiziente per liberarlo da ogni contratto et obrigazione che fussi fra loro 397)[488]

 

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Museo Britannico.  Di Roma, (dell'ottobre 1542).

 

CDXXXIV.

A messer Luigi del Riccio.

 

Messer Luigi, amico caro. – Io son molto sollecitato da messer Pier Giovanni 398)al cominciare a dipigniere: come si può vedere, ancora per quattro o sei dì non credo potere, perchè l'aricciato non è secco in modo che si possa cominciare. Ma c'è un'altra cosa che mi dà più noia che l'aricciato, e che non che dipigniere, non mi lascia vivere; e questa è la retificagione che non viene, e conosco come m'è date parole, in modo che io sono in gran disperazione. Io mi son cavato del cuore mille quattro cento scudi, che m'àrebbon servito sette anni a lavorare, che avrei fatto dua sepulture non che una: e questo ò fatto per potere stare in pace, e servire il Papa con tutto il cuore. Ora mi truovo manco i danari e con più guerra e afanni che mai. Quello che ò fatto circa i detti danari, l'ò fatto col consenso del Duca, e col contratto della liberazione; e ora che io gli ò sborsati, non vien la retificagione: in modo che si può molto ben vedere che significa questa cosa, senza scriverlo. Basta, che per la fede di trentasei anni, e per essersi donato volontariamente a altri, io non merito altro: la pittura e la scultura, la fatica e la fede m'àn rovinato, e va tuttavia di male in peggio. Meglio m'era ne' primi anni che io mi fussi messo a fare zolfanelli, ch'i' non sarei in tanta passione! Io scrivo questo a vostra Signoria, perchè come uno che mi vuol bene e che à maneggiata la cosa e sanne il vero, la farà intendere al Papa, acciò che e' sappi che io non posso vivere non che dipigniere: e se ò dato speranza di cominciare, l'ò data con la speranza della detta retificagione; che è già un mese che ci aveva a essere. Non voglio più stare sotto questo peso, nè essere ogni dì vituperato per giuntatore da chi m'à tolto la vita e l'onore. La morte o 'l Papa solo me ne posson cavare.

Vostro Michelagniolo Buonarroti. [489]

 

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Biblioteca Nazionale di Firenze.  Di Roma, ( d'ottobre 1542).

 

CDXXXV. 399)

A Monsignore....................

 

Monsignore. – La vostra Signoria mi manda a dire che io dipinga, et non dubiti di niente. Io rispondo, che si dipinge col ciervello et non con le mani; et chi non può avere il ciervello seco, si vitupera: però fin che la cosa mia non si acconcia, non fo cosa buona. La retificagione dell'utimo contratto non viene; e per vigore dell'altro, fatto presente Clemente, 400)sono ogni dì lapidato come se havessi crocifixo Cristo. Io dico che detto contratto non intesi che fussi recitato presente papa Clemente, come ne ebbi poi la copia: et questo fu, che mandandomi il dì medesimo Clemente a Firenze, Gianmaria da Modena 401)imbasciadore fu col notaio, et fecielo distendere a suo modo; in modo che quand'io tornai, e che io lo riscossi, vi trovai su più mille ducati che non si era rimasto; trova'vi su la casa dov'io sto, [490] et cierti altri uncini da rovinarmi; che Clemente non gli àre' sopportati: et frate Sebastiano ne può essere testimonio, che volse che io lo faciessi intendere al Papa, e fare appiccare il notaio: io non volsi, perchè non restavo obrigato a cosa ch'io non l'avessi potuta fare, se fussi stato lasciato. Io giuro che non so d'avere avuti i danari che detto contratto dicie, et che disse Gianmaria che trovava che io havevo havuti. Ma pogniamo che io li abbia havuti, poi che io gli ò confessati, et che io non mi posso partire dal contratto, e altri danari, se altri se ne trova, e faccisi una massa d'ogni cosa, e vegasi quello ch'ò fatto per papa Iulio a Bologna, a Firenze e a Roma, di bronzo, di marmo e di pittura, et tutto il tempo ch'io stetti seco, che fu quanto fu Papa; et vegasi quello che io merito. Io dico che con buona coscienza, secondo la provisione che mi dà papa Pagolo, che dalle rede di papa Iulio io resto avere cinquemilia scudi. Io dico ancora questo: che (se) io ò avuto tal premio delle mie fatiche da papa Iulio, mie colpa, per non mi essere saputo governare; che se non fussi quello che m'à dato papa Pagolo, io morrei oggi di fame. E secondo questi imbasciadori, e' pare che e' mi abbi aricchito, et che io abbi rubato l'altare: e fanno un gran romore: et io saprei trovar la via da fargli star cheti, ma non ci sono buono. Gianmaria imbasciadore a tempo del Duca vechio, 402)poi che fu fatto il contratto sopradetto, presente Clemente, tornando io da Firenze, e cominciando a lavorare per la sepultura di Iulio, mi disse se io volevo fare un gran piacere al Duca, che io m'andassi con Dio, che non si curava di sepultura, ma che avea ben per male che io servissi papa Pagolo. Allora conobbi per quel che gli avea messa la casa in sul contratto: per farmi andare via et saltarvi dentro con quel vigore: sì che si vede a quel che ucciellano, e fanno vergogna a' nimici, a' loro padroni. Questo che è venuto adesso, 403)ciercò prima quello ch'io avevo a Firenze, che e' volessi vedere a che porto era la sepultura. Io mi truovo aver perduta tutta la mia giovineza, legato a questa sepultura, con la difesa quant'ò potuto con papa Leone e Clemente; et la troppa fede non voluta conosciere m'à rovinato. Così vuole la mia fortuna! Io veggo molti con dumila e tremila scudi d'entrata starsi nel letto, et io con grandissima fatica m'ingiegno d'impoverire.

Ma per tornare alla pittura, io non posso negare niente a papa Pagolo: io dipignerò malcontento e farò cose malcontente. Ò scritto questo a vostra Signoria, perchè quando accaggia, possa meglio dire il vero al Papa; et anche àrei caro [491] che il Papa l'intendessi, per sapere di che materia tiene questa guerra che m'è fatta. Chi à intendere, intenda.

Servitore della vostra Signoria

Michelagniolo.

 

Ancora mi occorre cose da dire: e questo è, che questo imbasciadore dicie che io ò prestati a usura i danari di papa Iulio, e che io mi sono fatto ricco con essi: come se papa Iulio mi avessi innanzi conti otto milia ducati. I denari che ò auti per la sepultura vuole intendere le spese fatte in quel tempo per detta sepultura, si vedrà che s'apressa alla somma che àrebbe a dire il contratto fatto a tempo di Clemente; perchè il primo anno di Iulio che m'allogò la sepultura, stetti otto mesi a Carrara a cavare marmi et condussigli in sulla piazza di Santo Pietro, dove avevo le stanze dreto a Santa Caterina; dipoi papa Iulio non volse più fare la sepultura in vita, et messemi a dipignere; dipoi mi tenne a Bologna dua anni a fare il Papa di bronzo che fu disfatto; poi tornai a Roma, et stetti seco insino alla morte, tenendo sempre casa aperta, senza parte e senza provisione, vivendo sempre de' denari della sepultura: che non avevo altra entrata. Poi dopo detta morte di Iulio, Aginensis volse seguitare detta sepultura, ma maggior cosa; ond'io condussi e' marmi al Maciello de' Corvi, et feci lavorare quella parte che è murata a Santo Pietro in Vincola, et feci le figure che ò in casa. In questo tempo papa Leone non volendo che io facessi detta sepultura, finse di volere fare in Firenze la facciata di San Lorenzo et chiesemi a Aginensis; onde e' mi dètte a forza licenzia, con questo, che a Firenze io facessi detta sepultura di papa Iulio. Poi che io fui a Firenze per detta facciata di San Lorenzo, non vi avendo marmi per la sepultura di Iulio, ritornai a Carrara et stettivi tredici mesi, et condussi per detta sepultura tutti e' marmi in Firenze, et mura'vi una stanza per farla, et cominciai a lavorare. In questo tempo Aginensis mandò messer Francesco Palavisini, che è oggi il vescovo d'Aleria, 404)a sollecitarmi, et vidde la stanza, et tutti i detti marmi e figure bozzate per detta sepultura, che ancora oggi vi sono. Veggiendo questo, cioè ch'i' lavoravo per detta sepultura, Medici che stava a Firenze, che fu poi papa Clemente, non mi lasciò seguitare: [492] et così stetti impacciato insino che Medici fu Clemente: onde in 405)sua presenza si fe' poi l'ultimo contratto di detta sepultura innanzi a questo d'ora, 406)dove fu messo ch'io avevo ricieuti gli otto milia ducati ch'e' dicono che io ò prestati a usura. Et io voglio confessare un peccato a vostra Signoria, che essendo a Carrara quando vi stetti tredici mesi per detta sepultura, mancandomi e' denari, spesi mille scudi ne' marmi di detta opera, che m'avea mandati papa Leone per la facciata di Santo Lorenzo, o vero per tenermi occupato: et a lui dètti parole, mostrando dificultà; et questo facievo per l'amore che portavo a detta opera: di che ne son pagato col dirmi ch'i' sia ladro e usuraio da ignoranti che non erono al mondo.

Io scrivo questa storia a vostra Signoria, perchè ò caro giustificarmi con quella, quasi che come col Papa, a chi è detto mal di me, secondo mi scrive messer Piergiovanni, che dicie che m'à avuto a difendere; e ancora che quando vostra Signoria vede di potere dire in mia difensione una parola, lo facci, perchè io scrivo il vero: apresso degli omini, non dico di Dio, mi tengo uomo da bene, perchè non ingannai mai persona, e ancora perchè a difendermi dai tristi bisogna qualche volta diventare pazzo, come vedete.

Prego vostra Signoria, quando gli avanza tempo, legghi questa storia, et serbimela, et sappi che di gran parte delle cose scritte ci sono ancora testimoni. Ancora quando il Papa la vedessi, l'àrei caro, et che la vedessi tutto il mondo, perchè scrivo il vero, et molto manco di quello che è, et non sono ladrone usurario, ma sono cittadino fiorentino, nobile, e figliolo d'omo dabbene, et non sono da Cagli.

Poi ch'io ebbi scritto, mi fu fatta una imbasciata da parte dello imbasciadore d'Urbino, cioè, che s'io voglio che la retificazione venga, ch'io acconci la coscienzia mia. Io dico che e' s'à fabricato uno Michelagnolo nel cuore, di quella pasta che e' v'ha dentro.

Seguitando pure ancora circa la sepultura di papa Iulio, dico che poi ch'ei si mutò di fantasia, cioè del farla in vita sua, come è detto, et venendo certe barche di marmi a Ripa, che più tempo inanzi avevo ordinato a Carrara, non possendo avere danari dal Papa, per essersi pentito di tale opera; mi bisognò per pagare i noli, o cento cinquanta o vero dugiento ducati, che me gli prestò Baldassarre Balducci, cioè il banco di messer Iacopo Gallo, per pagare e' noli dei sopradetti marmi; et venendo in questo tempo scarpellini da Fiorenza, i quali avevo ordinati per detta sepultura, de' quali ne è ancora vivi qualcuno, et avendo [493] fornita la casa che m'aveva data Iulio dietro a Santa Caterina, di letti et altre masserizie per gli omini del quadro et per altre cose per detta sepultura, mi parea senza denari essere molto impacciato; et stringiendo il Papa a seguitare il più che potevo, mi fecie una mattina che io ero per parlargli per tal conto, mi fecie mandare fuora da un palafreniere. Come uno vescovo luchese che vidde questo atto, disse al palafreniere: "Voi non conosciete costui?" E 'l palafreniere mi disse: "Perdonatemi, gentilomo, io ò commessione di fare così." Io me ne andai a casa, e scrissi questo al Papa: – "Beatissimo Padre: io sono stato stamani cacciato di Palazzo da parte della vostra Santità; onde io le fo intendere che da ora innanzi, se mi vorrà, mi ciercherà altrove che a Roma." – E mandai questa lettera a messere Agostino scalco che la déssi al Papa; et in casa chiamai uno Cosimo fallegname, che stava meco et facevami masserizie per casa, et uno scarpellino, che oggi è vivo, che stava pur meco, et dissi loro: "Andate per un giudeo, e vendete ciò che è in questa casa, et venitevene a Firenze;" et io andai, et montai in su le poste, et anda'mene verso Firenze. El Papa, avendo ricieputa la lettera mia, mi mandò dreto cinque cavallari, e' quali mi giunsono a Poggi Bonzi circa a tre ore di notte, e presentornomi una lettera del Papa, la quale diceva: – "Súbito vista la presente, sotto pena de la nostra disgrazia, che tu ritorni a Roma." – Volsono i detti cavallari che io rispondessi, per mostrare d'avermi trovato. Risposi al Papa, che ogni volta che m'osservassi quello a che era obrigato, che io tornerei; altrimenti non sperassi d'avermi mai. E standomi di poi in Firenze, mandò Iulio tre Brevi 407)alla Signoria. All'utimo la Signoria mandò per me e dissemi: – "Noi non vogliamo pigliare la guerra per te contra papa Iulio: bisogna che tu te ne vadi; et se tu vuoi ritornare a lui, noi ti faremo lettere di tanta autorità, che quando faciessi ingiuria a te, la farebbe a questa Signoria." – Et così mi fecie: et ritornai al Papa: et quel che seguì sarie lungo a dire. Basta, che questa cosa mi fecie danno più di mille ducati, perchè partito che io fui da Roma, ne fu gran rumore con vergogna del Papa; et quasi tutti e' marmi che io avevo in sulla piazza di Santo Pietro mi furno sacheggiati, et massimo i pezzi piccoli; ond'io n'ebbi a rifare un'altra volta: in modo ch'io dico e afermo, che o di danni o interessi io resto avere dalle rede di papa Iulio cinquemila ducati: et chi m'à tolta tutta la mia giovineza et l'onore et la roba mi chiama ladro! Et di nuovo, come ò scritto [494] innanzi, l'imbasciadore d'Urbino mi manda a dire che io aconci la coscienza prima, e poi verrà la retificagione del Duca. Innanzi che e' mi facessi dipositare 1400 ducati, non diceva così. In queste cose ch'io scrivo, solo posso errare ne' tempi dal prima al poi, ogni altra cosa è vera, meglio che io non scrivo.

Prego vostra Signoria, per l'amor di Dio e della verità, quando à tempo, lega queste cose, acciò quando acadessi mi possa col Papa difendermi da questi che dicon male di me, senza notizia di cosa alcuna, e che m'ànno messo nel ciervello del Duca per un gran ribaldo con le false informazioni. Tutte le discordie che naqquono tra papa Iulio e me, fu la invidia di Bramante et di Raffaello da Urbino: et questa fu causa che non seguitò la sua sepultura in vita sua, per rovinarmi: et avevane bene cagione Raffaello, che ciò che aveva dell'arte, l'aveva da me. [495]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( d'ottobre 1542).

 

CDXXXVI.

(A messer Luigi del Riccio in Roma).

 

Messer Luigi. – Io credo che vostra Signoria abbi comodità d'intendere in Palazzo a che termine è la cosa mia circa la retificagione che sapete: però prego quella, possendo, il facci; chè mi sarà grandissimo piacere; perchè, come ve n'ò scritto un'altra volta, non posso vivere non che dipigniere; e penso, sendo mandato qua uno dal Duca, e non la avendo portata, che l'abbia a esser cosa lunga, e che sie messo nel capo al Papa qualche cosa da ritardarla. Però, quando potete, vi prego m'avisiate di qualche cosa.

Vostro Michelagniolo. [496]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( d'ottobre 1542).

 

CDXXXVII.

(A messer Luigi del Riccio in Roma).

 

Messer Luigi, amico caro. – Io mi son resoluto, poichè ò visto che la retificagione non viene, di starmi in casa a finire le tre figure come son d'acordo col Duca, e tornami molto meglio che stracinarmi ogni dì a Palazzo: e chi si vuol crucciar, si crucci. A me basta aver fatto in modo che 'l Papa non si può doler di me. E a me la retificagione non era piacer nessuno, ma a sua Santità, volendo ch'i' dipignessi. Basta, io non sono per entrar tra quella e 'l Duca, e se ella à visto che io ò abbandonato la sua pittura, manda per l'imbasciadore, sare' forse buono avisarlo della risoluzione che ò fatta, acciò sappi che rispondere, quando vi paia: e per questo vi scrivo tal cosa.

Vostro Michelagniolo. [497]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, 17 d'ottobre 1542.

 

CDXXXVIII. 408)

A Monsignor .... datario. 409)

 

Reverendo e magnifico signor Datario. – Io resto avere della provisione ordinaria che mi dà nostro Signore delli scudi 50 il mese, la paga di otto mesi, cioè da febraro in qua, che sono per tutto il presente mese scudi quatrocento d'oro in oro italiani; quali vi piacerà pagare per me a Salvestro da Montauto e Compagnia, et così seguitare mese per mese di dar loro la paga ordinaria, pigliandone quitanza: che saranno bene dati, et io di così mi contento. Et a vostra Signoria reverenda et magnifica mi racomando, e prego Iddio che li conceda quello desidera.

Di casa mia dal Macello de' Corvi, addì 17 d'ottobre 1542.

A' comandi di vostra Signoria

Michelagniolo Buonarroti. [498]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1543).

 

CDXXXIX.

A messer Luigi del Riccio, amico anzi patrone onorando in Roma.

 

Messer Luigi mio caro. – Perchè io so che voi siate maestro di cerimonie, tanto quant'io ne sono alieno; avend'io ricevuto da monsignor di Todi 410)il presente che vi dirà Urbino, vi prego, facendovene parte e credendo che siate amico di sua Signoria, quando vi vien bene, in nome mio la ringraziate con quella cerimonia che v'è facile a fare, e dura (a me): e fateme debitore di qualche berlingozzo.

Vostro Michelagniolo Buonarroti. [499]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, 26 di febbraio 1544.

 

CDXL. 411)

(Al Castellano di Sant'Angelo di Roma).

 

Monsignore Castellano. – Circa il modello di che si disputò ieri, io non dissi interamente l'animo mio, del quale io sono richiesto da vostra Signoria, perchè mi pareva troppo offendere quelle persone a chi io porto grandissima afezione; e questo è il capitano Giovan Francesco, 412)con il quale in qualche cosa non convengo seco; perchè e' bastioni cominciati mi pare che con la ragione et con la forza si possino difendere et seguitare; et nol faccendo, dubito si facci molto peggio; perchè in tanti pareri et modegli vari mi pare che abbino messo in gran confusione il Papa et in tal fastidio, che non si risolvendo a cosa nessuna, potrebbe non seguitare a questo modo, nè fare a quell'altro; che sarebbe gran male e poco onore di sua Santità. Però, come è detto, a me pare di seguitare, non dico particularmente quel che è cominciato, ma solo l'andamento del Monte, migliorando qualcosa, senza danno del fatto, col consiglio del capitano Giovan Francesco detto, per avere occasione di levare via il governo che vi è, se è come si dice, e mettervi detto capitano Giovan Francesco; il quale ò per valente e dabbene in tutte le cose. E quando questo si facci, io me gli offero per l'onore del Papa, poi che più volte son richiesto non come compagnio, ma come ragazo in tutte le cose.

Dagli Spinegli a Castello non farei altro ch'un fosso, perchè il corridor basta, quando sia aconcio bene 413)

Addì XXVJ di febraro 1544.

Servitore di vostra Signoria

Michelagniolo Buonarroti. [500]

 

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Raccolta del cav. Palagi in Firenze.  Di Roma, ( 1544).

 

CDXLI.

(A papa Paolo III) 414)

 

Beatissimo Patre. – Come quella à 'nteso per el capitolo di Vetruvio, l'architettura non è altro che ordinazione e disposizione et una bella spezie et un conueniente consenso de' membri dell'opera, et conueneuoleza et distribuzione.

Et prima: qui non è ordinazione nessuna; perchè l'ordinazione è una piccola comodità de' membri dell'opera separatamente et uniuersal­mente posti, di consenso apparechiati; anzi c'è tutto disordine dentro, perchè li membri di detta cornicie sono sproporzionati infra loro, nè ànno conuenienza l'uno all'altro.

Seconda: qui non è disposizione alcuna. La disposizione è una certa collocazione elegantemente composta secondo la qualità (e) efetto dell'opera. Qui non è qualità nessuna per l'opera fatta, e fatta secondo le regole di Vetruvio: et questa cornice acusa più presto qualità barbara o altrimenti.

Terza: una bella spezie de la comodità della composizione de' membri in aspetto: in questa non si vede comodità nessuna, anzi tutte scomodità: la prima scomodità si è che la minaccia di una grossa spesa da non finir mai detta opera; seconda scomodità è, che la minaccia tirare quella facciata del palazzo a terra. Apresso tre sono le spezie della cornice; doriche, ioniche e corintie. Questa non è di nessuna di queste tre generazioni, ma è bastarda.

Quarta è dell'opera e de' membri un conueniente consenso, che le parte separatamente rispondino all'uniuersa spezie della figura, con la rata parte: in essa cornice non c'è menbro nessuno che risponda con la rata parte al tutto [501] della cornice, perchè le mensole son piccole e rare a simile grandeza, el fregio è piccolo a sì gran capassa, e 'l bastone da basso è piccolissimo a tanto volume.

Quinta è el decoro, (che) è uno amendato aspetto nell'opere provar le cose composte con alturità detta conueneuoleza. In questa cornice non è conueneuoleza alcuna, anzi u'è tutta sconueneuoleza: prima aparisce quel gran capo sun una piccola facciata, e maggiore el capo ch'el resto, e non conuiene sì gran capo a sì poca alteza; l'altra la mana del modano non accompagna colla mano del morto: è un altro fare.

Sesta, distribuzione: la distribuzione secondo l'abondanzia delle cose, de' loci (sic) una comoda dispensazione. Qui si vede non essere ben dispensato niente, ma dispensato ogni cosa a caso e secondo el capriccio che gli è tocco, in un lato è stato largo a dispensare et in un altro loco è stato parco. Questo è quanto m'occorre circa a questo dire a vostra Santità, alla quale umilmente i' bacio e' piedi: e se no' mi fo uedere inanzi a vostra Santità, n'è causa el mal mio, che quante uolte sono uscito, sempre son ricascato.

Egli è un altro grado di distribuizione quan(do) l'opera sarà fatta secondo l'uso del patre della famiglia, et secondo l'abundanzia de' danari, et secondo l'eleganzia e degnità sua, li edificii sieno ordinati alti; imperò che altrimenti si uede che bisogna constituire le case della città et altrimenti quelle delle possessione rustice, doue si ripongano li frutti; non al medesimo modo alli usurai, altrimenti alli ricchi et dilicati e potenti, e' quali con le loro cogitazione gouernano la republica; atte a quell'uso siin collocate. Le distribuizione delli edificii senza manco son da fare che siino atte secondo el grado di tutte le persone. [502]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( di gennaio 1545).

 

CDXLII.

(A messer Luigi del Riccio in Roma).

 

Messer Luigi, signor mio caro. – I' mando Gabbriello che sta meco a vostra Signoria che gli dia i danari di che sapete: è fidato; potete dargliene sicuramente. Altro non m'acade. Son guarito, 415)e spero vivere ancora qualche anno, poichè il Cielo à messo la mia sanità in man di maestro Baccio 416)e nel trebbian degli Ulivieri 417)

Servitore di vostra Signoria

Michelagniolo al Macel dei Corvi. [503]

 

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Museo Britannico.  Di Roma, 25 di gennaio 1545.

 

CDXLIII. 418)

 

Magnifici messer Salvestro da Monteauto e compagni di Roma per l'adrieto, e per loro Antonio Covoni e compagni. – Sarete contenti pagare a Raffaello da Monte Lupo scultore scudi cinquanta di moneta a iuli dieci per iscudo, che sono per ogni resto di quello potessi adomandare per fattura delle tre statue di marmo fatte e messe a Santo Pietro in Vincola nella sepultura di papa Iulio; cioè, per una Nostra Donna col Putto in braccio e una Sibilla e un Profeta; delle quali secondo le convenzione resterebbe avere scudi cento settanta; ma perchè per essere stato malato e non aver possuto e aver fatto lavorare a altri, siamo convenuti d'accordo darli questi scudi cinquanta per ogni resto: che di così piglierete la quitanza, ponendogli a conto degli scudi cento settanta che vi restano in deposito per detto conto. Da Roma, alli venticinque di gennaro 1545, a Nativitate.

Vostro Michelagniolo Buonarroti di mano propia.

 

Vista per me Hieronimo Tiranno, Oratore ducale d'Urbino, et approvata in quanto li detti cinquanta scudi gli siano debiti secondo il tenor del contratto fatto con detto messer Raphaello per mano del Cappello, et non altrimenti, nè per altro modo. Dato come di sopra alli 27 di gennaio 1545.

Il medesimo Hieronimo Tiranno. [504]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (26 di gennaio 1545).

 

CDXLIV. 419)

(A messer Luigi del Riccio).

 

A non parlar qualche volta, sebbene scorretto in gramatica, mi sarebbe vergogna, sendo tanto pratico con voi. Il sonetto di messer Donato 420)mi par bello quante cosa fatta a' tempi nostri; ma perch'io ò cattivo gusto, non posso far neanco stima d'un panno fatto di nuovo, benchè romagnuolo, che delle veste usate di seta e d'oro che farén parer bello un uom da sarti.

Scrivetegniene e ditegniene e dategniene e racomandatemi a lui. [505]

 

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Biblioteca Nazionale di Firenze.  Di Roma, 3 di febbraio 1545.

 

CDXLV. 421)

(A messer Salvestro da Montauto in Roma).

 

Magnifici messer Salvestro et Compagnia di Roma per l'adrieto. – Come vi è noto, essendo io occupato per servizio di nostro Signore papa Paulo terzo in dipignere la sua nuova Cappella, et non possendo dare perfezione alla sepultura di papa Iulio secondo in Santo Pietro in Vincola; interponendosi la prefata Santità di nostro Signore, di consenso e per convenzione fatta con il magnifico Hieronimo Tiranno, oratore dell'illustrissimo signor Duca d'Urbino; alla quale convenzione dipoi sua Eccellenza retificò; depositai presso di voi più somme di danari per fornire detta opera, dei quali Raffaello da Monte Lupo ne aveva avere scudi 445 di iuli dieci per scudo, per resto di scudi 550 simili; et questi per fornire cinque statue di marmo da me cominciate e sbozzate, e per il prefato ambasciatore del Duca d'Urbino allogategli: cioè, una Nostra Donna con il Putto in braccio, una Sibilla, un Profeta, una Vita attiva, e una Vita contemplativa: come di tutto appare contratto per mano di messer Bartolomeo Cappello notaro di Camera, sotto dì XXI d'agosto 1542. Delle quali cinque statue, avendo nostro Signore a mia preghiera e per mia sodisfazione concessomi un poco di tempo, ne forni' dua di mia mano, cioè la Vita contemplativa e l'attiva, per il medesimo prezo che aveva a fare il detto Raffaello e dei medesimi danari che aveva avere lui. E dipoi il detto Raffaello à fornite le altre tre e messe in opera, come in detta sepultura si vede. Per il che gli pagherete a suo piacere scudi cento settanta di moneta a iuli dieci per iscudo che vi restano in mano di detta somma, pigliando da lui quitanza finale, etiam per mano di detto notaro, per la quale si chiami di detta opera sodisfatto et interamente pagato: et poneteli a conto di detta somma che vi resta in mano. Et bene valete.

Da Roma, ai 3 di febraio 1545, a Nativitate.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [506]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, 13 di marzo (1545).

 

CDXLVI.

A messer Luigi del Riccio in Roma.

 

E oggi a dì tredici di marzo ò ricevuti scudi cento dal Melighino per la mia provvigione di Gennaio e Febbraio passati.

Messer Luigi. – Io non ò mai avuti danari dal Meligino, che io non abbi fatto la quitanza: però se io pigliassi errore, si può riconoscere per le quitanze di mia mano.

Vostro Michelagniolo Buonarroti. [507]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1545).

 

CDXLVII. 422)

A messer Luigi del Riccio.

 

L'amico nostro morto parla e dice: se 'l Cielo tolse ogni bellezza a tutti gli altri uomini del mondo per far me solo, come fece, bello, e se per legge divina al dì del gudicio io debba ritornare il medesimo che vivo so' stato; ne seguita, che la bellezza che m'à data, non la può rendere a chi e' l'à tolta, ma che io debba esser bello più che gli altri in eterno e lor bruti. E questo è el contrario del concetto che mi dicesti ieri, e l'uno è favola, e l'altro è verità.

Vostro Michelagniolo Buonarroti. [508]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( 1545).

 

CDXLVIII. 423)

(A Luigi del Riccio).

 

Io vi rimando i melloni col polizino; el disegno non ancora, ma lo farò a ogni modo come posso meglio disegnare. Racomandatemi a Baccio, e ditegli che se io avessi avuto qua di quegli intingoli che e' mi dava costà, ch'i' sarei oggi un altro Graziano. E lo ringraziate da mia parte. [509]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( 1545).

 

CDXLIX.

(A messer Luigi del Riccio in Roma).

 

Messer Luigi. – Io vi prego mi mandiate l'ultimo madrigale che non intendete, acciò che io lo raconci, perchè 'l sollecitatore de' polizini, che è Urbino, fu sì pronto, che non me lo lasciò rivedere.

Circa l'esser domani insieme, io fo mie scuse con esso voi, perchè il tempo è cattivo e ò faccenda in casa. Farem poi quel medesimo che faremo domani, questa quaresima a Lungezza 424)con una grossa tinca 425)[510]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1545).

 

CDL. 426)

(A messer Luigi del Riccio in Roma).

 

Messer Luigi. – Io mi racomando a voi e a chi voi amate. Messer Giuliano e messer Ruberto 427)che mi scrivete, io son lor servidore, e se io non fo quello che si conviene, fuggo i creditori, perchè ò gran debito e pochi danari. [511]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1545).

 

CDLI.

(A Luigi del Riccio).

 

Messer Luigi, amico caro. – Io vi prego, che quand'io vengo costà, che voi facciate a me quel ch'io fo a voi, quando venite qua. Voi mi fate venire a darvi noia e non mel fate dire; in modo ch'i' resto un bufolo prosuntuoso infino ne' servidori.

Io credo giovedì dare ordine da tirar le figure 428)a San Piero in Vincola, come v'ò detto altre volte: e perchè io le voglio tirar co' danari che vi restano in mano di dette figure, mi par ch'io facci un mandato di detti danari, e che l'imbasciadore lo segni, acciò non si possa mai nè a voi nè a me dir niente. Però io vi prego facciate una minuta, come vi par che abbia a star detto mandato.

Ier mattina io non conoscevo il figliuol di messer Bindo Altoviti, e voi se 'l volevi menare qua, lo potevi dire liberamente, perchè io mi tengo servidore di messer Bindo e di tutti e' sua. [512]

 

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Biblioteca Nazionale di Firenze.  Di Roma, (1545).

 

CDLII. 429)

A messer Salvestro da Montauto in Roma.

 

Magnifico messer Salvestro da Montauto e compagni di Roma per l'adrietro, e per loro Antonio Covoni e compagni. – Del pagamento delle tre figure di marmo, che à fatte over finite Raffaello da Montelupo scultore, vi resta in deposito scudi cento settanta di moneta, cioè di 10 iuli l'uno, et avendole detto Raffaello, come è detto, finite et messe in opera a San Piero in Vincola nella sepultura di papa Iulio, sarete contenti per l'ultimo suo pagamento pagarli a suo piacere i sopra detti cento settanta scudi, perchè à fatto tutto quello a che s'era obrigato delle tre figure dette, cioè una Nostra Donna col Putto in braccio, un Profeta e una Sibilla, tutte qualcosa più ch'el naturale.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [513]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( 1545).

 

CDLIII.

A messer Luigi del Riccio.

 

Messer Luigi. – Voi sapete che 'l fuoco à scoperto una parte della Cappella: 430)però a me pare, che la si debba ricoprire nel modo che stava, più presto che si può, salvaticamente, se non altrimenti, per insino a tempo nuovo, per rispetto delle piogge, che non solamente guaston le pitture, ma muovono anche le mura. E perchè la se ne va in terra per l'ordinario, queste non gli sarebbon punto a proposito. Io scrivo questo, acciò che il Papa non sie messo in qualche grande spesa a utilità più d'altri, che della Cappella. Però vi prego, o che parlando al Papa lo facciate intendere, o per via di messer Aurelio, al quale ancora vi prego mi racomandiate.

Vostro Michelagniolo. [514]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( 1545).

 

CDLIV. 431)

(Alla Vittoria Colonna, marchesana di Pescara in Roma).

 

Volevo, Signora, prima che io pigliassi le cose che vostra Signoria m'à più volte volute dare, per riceverle manco indegnamente che io potevo, far qualche cosa a quella di mia mano: dipoi riconosciuto e visto che la grazia di Iddio non si può comperare, e ch'el tenerla a disagio è peccato grandissimo; dico mia colpa e volentieri dette cose accetto: e quando l'àrò, non per averle in casa, ma per essere io in casa loro, mi parrà essere in paradiso: di che ne resterò più obrigato, se più posso essere di quel ch'i' sono, a vostra Signoria.

L'aportatore di questa sarà Urbino che sta meco, al quale vostra Signoria potrà dire quando vuole ch'i' venga a vedere la testa e' à promesso mostrarmi. E a quella mi racomando.

Michelagniolo Buonarroti. [515]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( 1545).

 

CDLV. 432)

(Alla Vittoria Colonna in Roma).

 

Signora Marchesa. – E' non par, sendo io in Roma, che egli accadessi lasciar il Crocifisso 433)a messer Tommao 434)e farlo mezzano fra vostra Signoria e me suo servo, acciocchè io la serva, e massimo avendo io desiderato di far più per quella che per uomo che io conoscessi mai al mondo; ma l'occupazione grande in che sono stato, e sono, non à lasciato conoscer questo a vostra Signoria: e perchè io so che ella sa che amore non vuol maestro, e che chi ama non dorme, manco accadeva ancora mezzi: e benchè e' paressi che io non mi ricordassi, io facevo quello ch'io non diceva per giugnere con cosa non aspettata. È stato guasto il mio disegno: Mal fa chi tanta fè sì tosto oblia.

Servitore di vostra Signoria

Michelagniolo Buonarroti in Roma. [516]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( 1545).

 

CDLVI.

(A messer Luigi del Riccio).

 

Messer Luigi. – Quello amico, se di quel parlate, sia il benvenuto se gli è tornato; e perchè me n'avete detto tanto male voi con messer Donato insieme, m'è piovuto in sul fuoco. Però da qui inanzi guardatevi dall'offerire. Domani dopo desinare verrò a voi, e farò quanto mi comanderete. [517]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Firenze, ( di dicembre 1545).

 

CDLVII.

A messer Luigi del Riccio, amico caro in Lione.

 

Messer Luigi, amico caro. – A tutti i vostri amici duole assai il vostro male, e più, non ve ne possendo aiutare, e massimo a messer Donato e a me. Ma pure speriamo che abbi a esser piccola cosa, che a Dio piaccia.

Per un'altra vi scrissi, come se stavi molto a tornare, che io pensavo venirvi a vedere; e così vi raffermo: perchè avendo io perduto il porto di Piacenza, 435)e non possendo stare a Roma senza entrata, penso di consumar più presto quel poco che io ò su per le osterie, che stare aggranchiato a Roma com'un furfante. Però son disposto, non accadendo altro, dopo pasqua d'Agnello andare a Santo Iacopo di Galizia, e non sendo voi tornato, di far la via d'onde intenderò che siate.

Urbino à parlato a messer Aurelio e parlerà di nuovo; e per quello che mi dice, àrete per la sepultura di Cecchino 436)il luogo dove avete desiderato: e detta sepultura è al fine, e riuscirà cosa bella.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma.

 

(Di mano del Del Riccio.)

1545. Di messer Michelagnolo Buonarroti dirizzata e tornata da Lione a dì 22 di dicembre. [518]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (del marzo 1546).

 

CDLVIII.

A messer Luigi del Riccio in Roma.

 

Messer Luigi, amico carissimo. – Io mi ero resoluto, come sapete, di tôrre per giusto prezzo le possessione de' Corboli 437)Ora me ne tiro a dietro: e la cagione è questa, che oltre a la decima, ànno venti cinque scudi d'albitrio, che mi sare' posto venti cinque volte l'anno. Però io non vi voglio più tenere sospesi; sì che fatene il fatto vostro, come meglio potete. E a voi mi racomando.

Vostro Michelagniolo. [519]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, 26 d'aprile 1546.

 

CDLIX. 438)

Al Cristianissimo Re di Francia.

 

Sacra Maestà. – Io non so qual si sie più o la grazia o la maraviglia che vostra Maestà si è degnata scrivere a un mie pari, e più ancora a richiederlo delle sua cose non degnie non c'altro del nome di vostra Maestà: ma come si sieno, sappi vostra Maestà che molto tempo è che ò desiderato servir quella, ma per non l'avere avuto a proposito, come non è stato in Italia all'arte mia, non l'ò potuto fare. Ora mi trovo vechio e per qualche mese ocupato nelle cose di papa Pagolo; ma se mi resta dopo tale ocupazione qualche spazio di vita, quello che ò desiderato, come è detto, più tempo di fare per vostra Maestà m'ingegnierò metterlo a effetto, cioè una cosa di marmo, una di bronzo, una di pittura. E se la morte interrompe questo mio desiderio, e che si possa sculpire o dipigniere nell'altra vita, non mancherò di là, dove più non s'invechia. Ed a vostra Maestà prego Dio che doni lunga e felice vita. Di Roma, il giorno XXVI d'aprile MDXLVI.

Di vostra Cristianissima Maestà

Umilissimo servitore

Michelagniolo Buonarroti. [520]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( 1546).

 

CDLX.

(A messer Luigi del Riccio).

 

Messer Luigi. – E' vi pare che io vi risponda quello che voi desiderate, quando bene e' sia il contrario. Voi mi date quello che io v'ò negato, e negatemi quello che io v'ò chiesto. E già non peccate per ignoranza mandandomelo per Ercole, vergogniandovi a darmelo voi.

Chi m'à tolto alla morte, può ben anche vituperarmi; ma io non so già qual si pesi più o 'l vitupero o la morte. Però io vi prego e scongiuro per la vera amicizia che è tra noi, che non mi pare che voi facciate guastare quella stampa 439)e abbruciare quelle che sono stampate; e che se voi fate bottega di me, non la vogliate far fare anche a altri; e se fate di me mille pezzi, io ne farò altrettanti, non di voi, ma delle cose vostre.

Michelagniolo Buonarroti.

 

Non pittore nè scultore nè architettore, ma quel che voi volete, ma non briaco, come vi dissi in casa. [521]

 

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Archivio di Santa Maria Nuova.  Di Roma, 19 d'aprile 1549.

 

CDLXI.

(A Benvenuto Ulivieri in Roma) 440)

 

Magnifici messeri, Benvenuto e compagni di Roma. – Piaceravvi pagare a messere Bartolomeo Bettini e compagni scudi venti dua d'oro in oro ogni mese; cominciando la prima paga del mese di gennaro prossimo passato, che saranno ben pagati, perchè da detti Bettini me ne vaglio mese per mese; che sono li scudi venti dua per mese d'oro in oro che vi sono rimessi del mio Notariato del civile di Romagnia: e così piaccia a vostra Signoria di seguire, fino che altro non acade. A dì diciannove d'aprile 1549.

Io Michelagniolo Buonarroti

di mano propria 441) [522]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( 1549).

 

CDLXII.

A messer Benedetto Varchi. 442)

 

Messer Benedetto. – Perchè e' paia pure che io abbia ricevuto, come ò, il vostro Libretto, risponderò qualche cosa a quel che e' mi domanda, 443)benchè ignorantemente. Io dico che la pittura mi pare più tenuta buona, quanto più va verso il rilievo, et il rilievo più tenuto cattivo, quanto più va verso la pittura: et però a me soleva parere che la scultura fussi la lanterna della pittura, et che dall'una all'altra fussi quella differenza ch'è dal sole alla luna. Ora, poi che io ò letto nel vostro Libretto, dove dite, che, parlando filosoficamente, quelle cose che ànno un medesimo fine, sono una medesima cosa; sono mutato d'oppinione: et dico, che se maggiore iudicio et difficultà, impedimento et fatica non fa maggiore nobiltà; che la pittura et scultura è una medesima cosa: et perchè ella fussi tenuta così, non doverrebbe ogni pittore far manco di scultura che di pittura; e 'l simile, lo scultore di pittura che di scultura. Io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare: quella che si fa per via di porre, è simile alla pittura: basta, che venendo l'una e l'altra da una medesima intelligenza, cioè scultura et pittura, si può far fare loro una buona pace insieme, et lasciar tante dispute; perchè vi va più tempo, che a far le figure. Colui che scrisse che la pittura era più nobile della scultura, s'egli avessi così bene inteso l'altre cose ch'egli ha scritte, le àrebbe meglio scritte [523] la mia fante. Infinite cose, et non più dette, ci sarebbe da dire di simili scienze; ma, come ho detto, vorrebbono troppo tempo, et io n'ho poco, perchè non solo son vechio, ma quasi nel numero de' morti: però priego mi abbiate per iscusato. E a voi mi racomando et vi ringrazio quanto so et posso del troppo onore che mi fate, et non conveniente a me.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [524]

 

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Di Roma, ( 1549).

 

CDLXIII.

(A messer Luca Martini) 444)

 

Magnifico messer Luca. – I' ò ricevuto da messer Bartolommeo Bettini una vostra con un Libretto, comento di un sonetto di mia mano 445)Il sonetto vien bene da me, ma il comento viene dal Cielo; e veramente è cosa mirabile, non dico al giudizio mio, ma degli uomini valenti, e massimamente di messer Donato Giannotti, il quale non si sazia di leggerlo: ed a voi si racomanda. Circa il sonetto, io conosco quello ch'egli è; ma come si sia, non mi posso tenere che io non ne pigli un poco di vanagloria, essendo stato cagione di sì bello e dotto Comento. E perchè nell'autore di detto, sento per le sue parole e lodi d'essere quello ch'io non sono, prego voi facciate per me parole verso di lui come si conviene a tanto amore, affezione e cortesia. Io vi prego di questo, perchè mi sento di poco valore; e chi è in buona oppenione, non debbe tentare la fortuna; e meglio è tacere, che cascare da alto. Io son vechio, e la morte m'à tolti i pensieri della giovaneza; e chi non sa che cosa è la vechieza, abbia tanta pazienza che v'arrivi; che prima nol può sapere. Racomandatemi, come è detto, al Varchi, come suo affezionatissimo, e delle sue virtù, e al suo servizio dovunque io sono.

Vostro e al servizio vostro in tutte le cose a me possibili.

Michelagniolo Buonarroti in Roma. [525]

 

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Biblioteca Nazionale di Firenze.  Di Roma, ( d'ottobre 1549).

 

CDLXIV. 446)

A Giovan Francesco, prete in Santa Maria in Firenze.

 

Messer Giovan Francesco. – Perchè è assai tempo che io non v'ò scritto, ora per mostrarvi per questa che io son vivo, e per intendere per una vostra il medesimo di voi, vi fo questi pochi versi, e racomandomi a voi, e prégovi che questa va a messer Benedetto Varchi, luce e splendore della Accademia fiorentina, che gniene diate, e ringraziatelo da mia parte quel più ch'io non fo nè posso io. Altro non mi acade. Scrivetemi qualche cosa.

Standomi a questi dì in casa molto appassionato, fra certe mia cose, trovai un numero grande di quelle cose 447)che già vi solevo mandare: delle quali ve ne mando quattro, forse mandate altre volte.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [526]

 

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Museo Britannico.  Di Roma, ( d'ottobre 1549).

 

CDLXV.

A Giovan Francesco (Fattucci), prete in Santa Maria in Firenze. 448)

 

Messer Giovan Francesco. – Perchè è pure assai tempo che io non v'ò scritto, per mostrarvi per questa come ancora son vivo, e per intendere per una vostra il medesimo di voi, vi fo questi pochi versi; e racomandomi a voi, e pregovi che questa che va a messer Benedetto Varchi, luce e splendore della Accademia fiorentina, perchè stimo sia molto amico vostro, gniene diate, e ringraziatelo da mia parte quel più che io non fo nè posso far io.

E perchè standomi a questi dì molto malcontento in casa, cercando fra certe mie cose, mi venne alle mani un numero grande di quelle frascherie, 449)che già solevo mandarvi altre volte; delle quali ve ne mando quattro, forse mandatevi altre volte. Voi direte bene che io sia vecchio e pazo: e io vi dico, che per istar sano e con manco passione, non ci trovo meglio che la pazzia. Però non ve ne maravigliate: e rispondetemi qualche cosa, ve ne priego: e sono sempre

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [527]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma ( d'ottobre 1549).

 

CDLXVI. 450)

A meser Giovan Francesco Fattucci, prete di

Santa Maria del Fiore, amico carissimo a Firenze.

 

Messer Giovan Francesco, amico caro. – Benchè da più mesi in qua non ci siamo scritti niente, non è però dimenticata la lunga et buona amicizia, et che io non desideri il vostro bene, come sempre ò fatto, et che io non v'ami con tutto il core, et più per gl'infiniti piaceri ricevuti. Circa la vechieza, in che noi egualmente ci troviamo, àrei caro di sapere come la parte vostra vi tratta, perchè la mia non mi contenta molto: però vi prego mi scriviate qualche cosa. Voi sapete come abbiamo Papa nuovo, e chi: di che se ne rallegra tutta Roma, grazia di Dio, et non se ne aspetta altro che grandissimo bene, massime pe' poveri, per la sua liberalità. Circa le cose mie àrei caro, et farestimi grandissimo piacere, che m'avvisassi come le cose di Lionardo vanno, et della verità senza rispetti, perchè è giovane e stonne con gelosia, et più per essere solo et senza consiglio. Altro non m'acade, salvo che a questi dì messer Tomao de' Cavalieri m'ha pregato ch'io ringrazi da sua parte il Varchi per un certo libretto 451)mirabile che c'è di suo in istampa, dove dice che parla molto onorevolmente di lui, et non manco di me; et àmmi dato un sonetto fattogli da me in quei medesimi tempi, pregandomi che io gliene mandi per una giustificazione; il qual vi mando in questa: se vi piace, date; se no, datelo al fuoco, et pensate che io combatto colla morte, et che io ò il capo a altro: pure bisogna alle volte far così. Del farmi tanto onore detto messer Benedetto ne' suoi sonetti, come è detto, vi prego lo ringraziate, offerendogli quel poco che io sono.

Vostro Michelagniolo in Roma. [528]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, 1 d'agosto 1550.

 

CDLXVII.

(A messer Giovan Francesco Fattucci in Firenze) 452)

 

Messer Giovan Francesco, amico caro. – Accadendomi iscrivere costà a Giorgio pittore, piglio sicurtà di darvi un poco di noia; cioè che gli diate la lettera che sarà in questa, stimando che sia amico vostro: e per non essere troppo breve nello iscrivervi, non avendo da scrivere altro, vi mando qualche una delle mie novelle 453)che io iscrivevo alla marchesa di Pescara, la quale mi voleva grandissimo bene, e io non meno a lei. Morte mi tolse uno grande amico. Altro non mi acade. Stommi a lo usato, sopportando con pazienza e' difetti della vechieza. Credo così facciate voi. Addì primo d'agosto 1550. [529]

 

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Di Roma, 1 d'agosto 1550.

 

CDLXVIII. 454)

A messer Giorgio Vasari, pittore e amico singulare in Firenze.

 

Messer Giorgio, amico caro. – Circa al rifondare San Piero a Montorio, 455)come il Papa non volse intendere, non ve ne scrissi niente, sapendo voi essere avisato dall'uomo vostro di qua. Ora mi accade dirvi quello che segue, e questo è, che iermattina, sendo il Papa andato a detto Montorio, mandò per me. Non fu' a tempo: riscontra'lo in sul ponte che tornava. Ebbi lungo ragionamento seco circa le sepulture allogatevi, e all'ultimo mi disse che era resoluto non volere metter dette sepulture in su quel monte, ma nella chiesa de' Fiorentini; e richiesemi di parere e di disegno, et io ne lo confortai assai, stimando che per questo mezzo detta chiesa s'abbi a finire. Circa le vostre tre ricevute, non ho penna da rispondere a tante altezze; ma se avessi caro di essere in qualche parte quello che mi fate, non l'àrei caro per altro, se non perchè voi avessi un servitore che valessi qualche cosa. Ma io non mi maraviglio, sendo voi risucitatore d'uomini morti, che voi allunghiate vita a' vivi, ovvero che i malvivi furiate per infinito tempo alla morte. Per abbreviare io sono tutto vostro, com'io sono.

A dì 1 d'agosto 1550.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [530]

 

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Di Roma, 22 d'agosto 1550.

 

CDLXIX.

A messer Giorgio Vasari, amico e pittore singolare.

 

Messer Giorgio, amico caro. – Io ebbi molti giorni sono una vostra: non risposi súbito per non parer mercatante. Ora vi dico, che delle molte lodi che per la detta mi date, se io ne meritassi sol una, mi parrebbe, quand'io mi vi dètti in anima et in corpo, avervi dato qualche cosa, e aver sodisfatto a qualche minima parte di quello che io vi son debitore; dove vi ricognosco ogni ora creditore di molto più che io non ò da pagare; e perchè son vechio, oramai non spero in questa, ma nell'altra vita poter pareggiare il conto: però vi prego di pazienza.

Circa all'opera vostra, 456)io sono stato a veder Bartolommeo, e parmi che la vadi tanto bene, quant'è possibile. Lui lavora con fede e con amore e è valente giovane, come sapete, e tanto da bene, che e' si può chiamare l'angelo Bartolommeo.

A dì 22 d'agosto 1551.

Vostro Michelangniolo Buonarroti in Roma. [531]

 

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Di Roma, 13 d'ottobre 1550.

 

CDLXX.

A messer Giorgio Vasari, pittore e amico singulare in Firenze.

 

Messer Giorgio, signor mio caro. – Súbito che Bartolommeo 457)fu giunto qua, andai a parlare al Papa; e visto che voleva far rifondare a Montorio per le sepulture, proveddi d'un muratore di Santo Pietro. El Tantecose 458)lo seppe, e volsevi mandare uno a suo modo. Io, per non combattere con chi dà le mosse a' venti, mi son tirato a dietro, perchè sendo uomo leggieri, non vorrei essere traportato in qualche macchia. Basta che nella chiesa de' Fiorentini non mi pare s'abbi più a pensare. Tornate presto e sano. Altro no' mi accade.

Addì 13 di ottobre 1550.

Michelagniolo Buonarroti in Roma. [532]

 

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Di Roma, ( 1552).

 

CDLXXI. 459)

(A Benvenuto Cellini).

 

Benvenuto mio. – Io vi ò conosciuto tant'anni per il maggior orefice che mai ci sia stato notizia, ed ora vi conoscerò per iscultore simile. Sappiate che messer Bindo Altoviti mi menò a vedere una testa del suo ritratto di bronzo, 460)e mi disse ch'ella era di vostra mano: io n'ebbi molto piacere; ma mi seppe troppo male ch'ella era messa a cattivo lume: che s'ella avesse il suo ragionevole lume, la si mostrerebbe quella bell'opera ch'ell'è. [533]

 

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Di Roma, d'aprile 1554.

 

CDLXXII.

A Giorgio Vasari.

 

 

Messer Giorgio, amico caro. – Io ò auto grandissimo piacere della vostra, visto che pur ancora vi ricordate del povero vechio, e più per essersi trovato al trionfo che mi scrivete, d'aver visto rinnovare un altro Buonarroto: 461)del quale aviso vi ringrazio quanto so e posso: ma ben mi dispiace tal pompa, perchè l'uomo non dee ridere, quando il mondo tutto piange: però mi pare che Lionardo non abbi molto giudicio e massimo per fare tanta festa d'uno che nasce, con quella allegrezza che s'à a serbare alla morte di chi è ben vissuto. Altro non m'acade. Vi ringrazio sommamente dell'amore che mi portate, benchè io non ne sia degno. Le cose di qua stanno pur così. A dì non so quanti d'aprile 1554.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [534]

 

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Di Roma, 19 di settembre 1554.

 

CDLXXIII.

A Giorgio Vasari. 462)

 

Messer Giorgio, amico caro. – Voi direte ben ch'io sie vechio e pazzo a voler fare sonetti: ma perchè molti dicono ch'io son rimbambito, ò voluto far l'uficio mio. Per la vostra veggio l'amor che mi portate: e sappiate per cosa certa ch'io àrei caro di riporre queste mia debile ossa a canto a quelle di mio padre, come mi pregate; ma partendo ora di qua, sarei causa d'una gran rovina della fabbrica di Santo Pietro, d'una gran vergognia e d'un grandissimo peccato. Ma come sie stabilito tutta la composizione che non possa esser mutata, spero far quanto mi scrivete, se già non è peccato tenere a disagio parechi giotti ch'aspetton ch'io mi parta presto.

A dì 19 di settembre 1554.

Michelagniolo Buonarroti in Roma. [535]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, ( 1555.)

 

CDLXXIV. 463)

(A messer Bartolomeo Ammannati).

 

Messer Bartolomeo, amico caro. – E' non si può negare che Bramante non fussi valente nella architettura, quanto ogni altro che sia stato dagli antichi in qua. Lui pose la prima pianta di Santo Pietro, non piena di confusione, ma chiara e schietta, luminosa e isolata atorno, in modo che non nuoceva a cosa nessuna del palazzo; e fu tenuta cosa bella, e come ancora è manifesto; in modo che chiunque s'è discostato da detto ordine di Bramante, come à fatto il Sangallo, s'è discostato dalla verità; e se così è, chi à occhi non appassionati, nel suo modello lo può vedere. Lui con quel circolo che e' fa di fuori, la prima cosa toglie tutti i lumi a la pianta di Bramante; e non solo questo, ma per sè non à ancora lume nessuno: e tanti nascondigli fra di sopra e di sotto, scuri, che fanno comodità grande a infinite ribalderie: come tener segretamente sbanditi, far monete false, impregniar monache e altre ribalderie, in modo che la sera, quando detta chiesa si serrassi, bisognerebbe venticinque uomini a cercare chi vi restassi nascosi dentro, e con fatica gli troverebbe, in modo starebbe. Ancora ci sarebbe quest'altro inconveniente, che nel circuire con l'aggiunta che il modello fa di fuora detta composizione di Bramante, saria forza di mandare in terra la cappella di Paolo, le stanze del Piombo, la Ruota e molte altre: nè la cappella di Sisto, credo, riuscirebbe netta. Circa la parte fatta dal circulo di fuori, che dicono che costò centomila scudi, questo non è vero, perchè con sedicimila si farebbe, e rovinandolo poca cosa si perderebbe, perchè le pietre fattevi e' fondamenti non potrebbero venire più a proposito, e migliorerebbesi la [536] fabrica dugentomila scudi e trecento anni di tempo. Questo è quanto a me pare e senza passione; perchè il vincere mi sarebbe grandissima perdita. E se potete fare intendere questo al Papa, mi farete piacere, chè non mi sento bene.

Vostro Michelagniolo.

 

 464) Osservando il modello del Sangallo, ne séguita ancora: che tutto quello che s'è fatto a mio tempo non vadi in terra, che sarebbe un grandissimo danno. [537]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, 11 di maggio 1555.

 

CDLXXV. 465)

A messer Giorgio, pittore eccellentissimo in Firenze.

 

Io fu' messo a forza ne la fabrica di Santo Pietro, e ò servito circa otto anni non solamente in dono, ma con grandissimo mie danno e dispiacere: e ora che l'è avviata e che c'è danari da spendere, e che io sono per voltare presto la cupola, se io mi partissi, sarebbe la rovina di detta fabrica; sarebemi grandissima vergognia in tutta la Cristianità, e a l'anima grandissimo peccato: però, messer Giorgio mio caro, io vi prego che da mia parte voi ringraziate il Duca delle sue grandissime offerte che voi mi scrivete, e che voi preghiate suo' Signoria che con sua buona licenzia e grazia io possi seguitare qua tanto che io me ne possi partire con buona fama e onore e senza peccato.

Addì undici di magio 1555.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [538]

 

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Di Roma, 22 di giugno 1555.

 

CDLXXVI. 466)

Al mio caro messer Giorgio Vasari in Firenze.

 

Messer Giorgio, amico caro. – A queste sere mi venne a trovare a casa un giovane molto discreto e da bene, cioè messer Lionardo, 467)cameriere del Duca, e fecemi con grande amore e affezione da parte di sua Signoria le medesime offerte che voi per l'ultima vostra. Io gli risposi il medesimo ch'i' risposi a voi, cioè che ringraziassi il Duca da mia parte di sì grande offerte, il più e 'l meglio che sapeva, e che pregassi sua Signoria che con sua licenzia io seguitassi qua la fabbrica di Santo Pietro fin che fussi a termine, che la non potessi esser mutata per dargli altra forma; perchè partendomi prima, sare' causa d'una gran rovina, d'una gran vergognia e d'un gran peccato; e di questo vi prego per l'amor di Dio e di Santo Pietro ne preghiate il Duca, e racomandatemi a sua Signoria. Messer Giorgio mio caro, io so che voi conoscete nel mio scrivere ch'io sono alle 24 ore, e non nasce in me pensiero che non vi sia dentro sculpita la morte: e 468)Idio voglia ch'i' la tenga ancora a disagio qualch'anno.

A dì 22 di giugno 1555.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [539]

 

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Di Roma, 23 di febbraio 1556.

 

CDLXXVII.

A messer Giorgio Vasari, amico caro in Firenze.

 

Messer Giorgio, amico caro. – Io posso male scrivere, ma pur per risposta della vostra dirò qualche cosa. Voi sapete come Urbino è morto: 469)di che m'è stato grandissima grazia di Dio, ma con grave mio danno e infinito dolore. La grazia è stata, che dove in vita mi teneva vivo, morendo m'à insegnato morire, non con dispiacere, ma con desidéro della morte. Io l'ò tenuto ventisei anni, et òllo trovato realissimo e fedele; e ora ch'io l'avevo fatto ricco e che io l'aspettavo bastone e riposo della mia vechieza, m'è sparito; nè m'è rimasto altra speranza che rivederlo in paradiso. E di questo n'à mostro segno Iddio per la felicissima morte ch'egli à fatto: e più assai che 'l morire, gli è incresciuto il lasciarmi vivo in questo mondo traditore, con tanti affanni; benchè la maggior parte di me n'è ita seco, nè mi rimane altro che un'infinita miseria 470)E mi vi racomando e prègovi, se non v'è noia, che facciate mie scusa con messer Benvenuto 471)del non rispondere alla sua, perchè m'abonda tanta passione in simil pensieri, ch'io non posso scrivere; e racomandatemi a lui, e io a vo' mi racomando. A dì 23 di febraio 1556.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [540]

 

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Di Roma, 28 di maggio 1556.

 

CDLXXVIII. 472)

A messer Giorgio Vasari, amico carissimo in Firenze.

 

Messer Giorgio. – Non ier l'altro parlai con messer Salustio 473)e non prima, perchè non è stato in Roma. Parmi che e' sia vòlto a farvi ogni piacere, ma pargli d'aspettare l'ocasione, e dice che volendo il Papa mettere la vostra tavola 474)altrove, e non facendo sua Santità niente di simil cose che nol chiami, tocherà a lui il porla dove meglio gli parrà: e allora sarà tempo ricordargli la mercè vostra: e ò speranza che vi gioverà assai, che così è il suo desiderio.

A dì 28 di maggio 1556.

Vostro Michelagniolo in Roma. [541]

 

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Di Roma, 28 di dicembre 1556.

 

CDLXXIX.

(A Giorgio Vasari).

 

Messer Giorgio. – Io ò ricevuto il libretto di messer Cosimo, 475)che voi mi mandate, e in questa sarà una di ringraziamento che va a sua Signoria. Pregovi che gniene diate e a quella mi racomandiate. Io ò a questi dì auto con gran disagio e spesa un gran piacere nelle montagne di Spuleti 476)a visitare que' romiti, in modo che io son ritornato men che mezzo a Roma; perchè veramente e' non si trova pace se non ne' boschi. Altro non ò che dirvi. Mi piace che siate sano e lieto. E a voi mi racomando.

A dì 18 di dicembre 1556.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [542]

 

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Di Roma, 28 di marzo (1557).

 

CDLXXX. 477)

(Alla Cornelia vedova dell'Urbino).

 

Io m'ero accorto che tu t'eri sdegniata meco, ma non trovavo la cagione. Ora per l'ultima tua mi pare avere inteso il perchè. Quando tu mi mandasti i caci, mi scrivesti che mi volevi mandare più altre cose, ma che i fazzoletti non erano ancor forniti; e io perchè non entrassi in ispesa per me, ti scrissi che tu non mi mandassi più niente, ma che mi richiedessi di qualche cosa, che mi faresti grandissimo piacere, sappiendo, anzi dovendo esser certa dell'amore che io porto ancora a Urbino, benchè morto, e alle cose sue. Circa al venir costà a vedere e' putti, o mandar qui Michelagniolo, 478)è di bisogno ch'io ti scriva in che termine io mi trovo. Il mandar qua Michelagniolo non è al proposito, perchè sto senza donne e senza governo, e il putto è troppo tènero per ancora, e potrìa nascere cosa, ch'io ne sarei molto malcontento: e dipoi c'è ancora, che 'l Duca di Firenze da un mese in qua, sua grazia, fa gran forza ch'io torni a Firenze con grandissime offerte. Io gli ò chiesto tempo tanto, ch'io acconci qua le cose mie, e che io lasci in buon termine la fabrica di San Pietro: in modo che io stimo star qua tutta questa state: e acconcie le cose mie e le vostre circa al Monte della Fede, questo verno andarmene a Firenze per sempre, perchè sono vechio, e non ò tempo di più ritornare a Roma; e passerò di costà; e volendomi dar Michelagniolo, lo terrò in Firenze con più amore, che i figliuoli di Leonardo mio nipote; insegnandogli quello che io so, che 'l padre desiderava ch'egli imparasse. Ieri a dì ventisette di marzo ebbi l'ultima tua lettera.

Michelagniolo Buonarroti in Roma. [543]

 

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Archivio di Stato in Firenze.  Di Roma, ( del maggio 1557).

 

CDLXXXI. 479)

Allo illustrissimo signore Cosimo duca di Fiorenza.

 

Signor Duca. – Circa tre mesi sono, o poco meno ch'i' feci intendere a vostra Signoria, che io non potevo ancora lasciare la fabrica di Santo Pietro senza gran danno suo e senza grandissima mia vergognia; e che a volerla lasciare nel termine desiderato, non mancando le cose necessarie a quella, mi bisogniava non manco d'un anno di tempo ancora: e di darmi questo tempo, mi parve che vostra Signoria se ne contentassi. Ora ò una di nuovo pur di vostra Signoria, la quale mi sollecita al tornare più che io non aspettavo: ond'io n'ò passione e non poca, perchè sono in maggior fatica e fastidio circa le cose della fabrica ch'i' fussi mai; e questo è che nella vòlta della capella del Re di Francia, che è cosa artifiziosa e non usata, per esser vechio e non vi potere andare spesso, è natovi un certo errore, che mi bisognia disfare gran parte di quel che v'era fatto: e che cappella questa sia, ne può far testimonianzia Bastiano da Sangimigniano, 480)ch'è stato qua soprastante, e di quanta importanza ell'è a tutto il resto della fabrica. E corretta detta cappella, per tutta questa state credo si finirà; non mi resta a fare altro poi, che a lasciarci el modello 481)del tutto, com'io son pregato da ognuno e massimo da Carpi; 482)e poi tornarmi a Firenze con animo di riposarmi co' la morte, con la quale dì e notte cerco di domesticarmi, a ciò che la non mi tratti peggio che gli altri vechi.

Ora, per tornare al proposito, prego vostra Signoria mi conceda il tempo chiesto d'un anno ancora per conto della fabrica, come mi parve che per l'altra mia la si contentassi.

Minimo servo di vostra Signoria

Michelagniolo Buonarroti in Roma. [544]

 

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Di Roma, ( di maggio 1557).

 

CDLXXXII.

(A Giorgio Vasari) 483)

 

Messer Giorgio, amico caro. – Io chiamo Iddio in testimonio, come io fu' contra mia voglia con grandissima forza messo da papa Pagolo nella fabrica di Santo Pietro di Roma dieci anni sono; e se si fussi insino a oggi seguitato di lavorare in detta fabrica, come si faceva allora, io sarei ora a quello di detta fabrica, ch'io ò desiderato, per tornarmi costà: ma per mancamento di lavori, ella s'è molto allentata: e allentasi, quando ella è giunta in più faticosa e difficil parte: in modo che abbandonandola ora, non sarebbe altro che con grandissima vergognia perdere tutto il premio delle fatiche ch'io vi ò durate in detti X anni per l'amor di Dio. Io vi ò fatto questo discorso per risposta della vostra, e perchè ò una lettera del Duca che m'à fatto molto maravigliare, che sua Signoria si sia degnata a scrivere con tanta dolcezza. Ne ringrazio Iddio e sua Eccellenzia quanto so e posso. Io esco di proposito, perchè ò perduto la memoria e 'l cervello, e lo scrivere m'è di grande afanno, perchè non è mia arte. La conclusione è questa: di farvi intendere quello che segue dello abbandonare la sopradetta fabrica, e partirsi di qua. La prima cosa, contenterei parecchi ladri, e sarei cagione della sua rovina, e forse ancora del serrarsi per sempre; 484)l'altra ch'io ci ò qualche obrigo e una casa e altre cose, tanto che vagliono qualche migliaio di scudi, e partendomi senza licenzia, non so come andassino; l'altra ch'io son mal disposto della vita e di renella, pietra e fianco, come ànno tutti e' vechi; e maestro Eraldo 485)ne può far testimonianza, che ò la vita per lui. Però il tornar costà per ritornar qua, a me non ne basta l'animo; e 'l tornarvi per sempre, ci vuole qualche tempo per assettar qua le cose in modo ch'io non ci abbi più a pensare. Egli è ch'io parti' di costà, tanto che, quand'io [545] giunsi qua, era ancor vivo papa Clemente, che in capo di duo dì morì poi 486)Messer Giorgio, io mi raccomando a voi e pregovi mi raccomandiate al Duca, e che facciate per me 487)perchè a me non basta l'animo ora se non di morire, e ciò che vi scrivo dello stato mio qua è più che vero. La risposta ch'i' feci al Duca, la feci perchè mi fu detto ch'i' rispondessi, perchè non mi bastava l'animo a scrivere a sua Signoria e massimo sì presto; e se io mi sentivo da cavalcare, io venivo súbito costà e tornavo, che qua non si sarìa saputo.

Michelagniolo Buonarroti. [546]

 

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Di Roma, (17 d'agosto 1557).

 

CDLXXXIII.

(A Giorgio Vasari).

 

La cèntina segnata di rosso la prese il capomaestro in sul corpo di tutta la vôlta. Dipoi come si cominciò appressare al mezzo tondo, che è nel colmo di detta vôlta, s'accorse dell'errore che facea detta cèntina, come si vede qui nel disegno, che con una cèntina sola si governava, dove ànno a essere infinite, come son qui nel disegno le segnate di nero. Con questo errore è ita la vôlta tanto innanzi, che s'à disfare un gran numero di pietre, perchè in detta vôlta non ci va nulla di muro, ma tutto trevertino; e il diametro de' tondi senza la cornice che gli recigne è ventidue palmi. Questo errore, avendo il modello fatto appunto, com'io fo d'ogni cosa, 488)ma è stato per non vi potere andare spesso per la vechiezza: e dove io credetti che ora fussi finita detta vôlta, non sarà finita in tutto questo verno: e se si potesse morire di vergognia e dolore, io non sarei vivo. Pregovi raguagliate il Duca, perchè non sono ora a Firenze: 489)benchè più altre cose mi tengono che io non le posso scrivere.

Vostro Michelagniolo in Roma. [547]

 

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Di Roma, (17) d'agosto 1557.

 

CDLXXXIV.

A messer Giorgio Vasari in Firenze.

 

Messer Giorgio. – Perchè sia meglio inteso la difficultà della vôlta ch'io mandai disegnata, ve ne mando la pianta, che non la mandai allora, cioè detta vôlta, per osservare il nascimento suo insino di terra. È stato forza dividerle in tre vôlte, in luogo delle finestre da basso divise da pilastri, come vedete che vanno piramidati al mezzo tondo del colmo della vôlta, come fa il fondo e' lati della vôlta. Ancora e' bisognia governarle con un numero infinito di cèntine, e tanto fanno mutazione e per tanti versi di punto in punto, che non ci si può tener regola ferma; e' tondi e' quadri che vengono nel mezzo de' loro fondi, ànno a diminuire e acrescere per tanti versi e andare per tanti punti, che è difficil cosa a trovarne il modo vero. Nondimeno avendo il modello, com'io fo di tutte le cose, non si doveva mai pigliare sì grande errore di volere con una cèntina sola governare tutt'a tre que' gusci; onde n'è nato, ch'è bisogniato con vergognia e danno disfare: e disfassene ancora un gran numero di pietre. La vôlta e' conci e' vani è tutta di trevertino, come l'altre cose da basso: cosa non usata a Roma.

 490) Ringrazio quanto so e posso il Duca della sua carità, e Dio mi dia grazia ch'io possa servirlo di questa povera persona, ch'altro non c'è: la memoria e 'l cervello son iti a aspettarmi altrove.

D'agosto 1557.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [548]

 

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Di Roma, 28 di settembre 1558.

 

CDLXXXV. 491)

A messer Giorgio Vasari, pittore singularissimo in Firenze.

 

Messer Giorgio, amico caro. – Circa la scala della Libreria, di che m'è stato tanto parlato, crediate che se io mi potessi ricordare come io l'avevo ordinata, che io non mi farei pregare. Mi torna bene nella mente come un sogno una certa scala, ma non credo che sia apunto quella che io pensai allora, perchè mi torna cosa goffa, pure la scriverò qui: cioè, che se voi togliessi una quantità di scatole aovate, di fondo di un palmo l'una, ma non d'una lunghezza e larghezza; e la maggiore prima ponessi in sul pavimento, lontana dal muro dalla porta tanto, quanto volete che la scala sia dolce o cruda; e un'altra ne mettessi sopra questa che fussi tanto minore per ogni verso, che in su la prima, di sotto avanzassi tanto piano quanto vuole il piè per salire, diminuendole e ritirandole verso la porta fra l'una e l'altra, sempre per salire; e che la diminuzione dell'ultimo grado sia quant'il vano della porta; e detta parte di scala aovata abbi come due alie, una di qua et una di là; che vi seguitino e' medesimi gradi, ma diritti e non aovati; questi pe' servi e 'l mezzo pel signore, dal mezzo in su di detta scala; le rivolte di dette alie ritornino al muro; dal mezzo in giù in sino in sul pavimento, si discostino con tutta la scala dal muro circa tre palmi, in modo che l'imbasamento del Ricetto non sia occupato in luogo nessuno e resti libera ogni faccia. Io scrivo cosa da ridere, ma so bene che messer Bartolomeo e voi troverete cosa al proposito 492)

Del modello che mi scrivete, non sapete voi che non accadeva scriverne niente, ma súbito mandarlo ove piacessi al Duca? E non che il modello, ma [549] volessi Iddio che qua si trovassi qualche cosa bella a mio modo, che io non guarderei in cosa nessuna per mandarla a sua Signoria. De le offerte grandissime, prego ne ringraziate sua Signoria. So bene che non le merito, ma pure ne fo capitale 493)

Roma, 28 settembre 1558.

Vostro Michelagniolo in Roma. [550]

 

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Di Roma ( di gennaio 1559).

 

CDLXXXVI. 494)

(A messer Bartolommeo Ammannati in Firenze).

 

Messer Bartolomeo. – Io vi scrissi com'io avevo fatto un modello piccolo di terra della scala della Libreria; ora ve lo mando in una scatola, e per esser cosa piccola non ho potuto fare se non l'invenzione, ricordandomi che quello che già vi ordinai, era isolato e non s'appoggiava se non alla porta della Libreria. Sommi ingegnato tenere il medesimo modo, e le scale che mettono in mezzo la principale, non vorrei ch'avessin nella stremità balaustri, come la principale, ma fra ogni due gradi un sedere, come è accennato dagli adornamenti. Base, cimase a que' zoccoli ed altre cornicie non bisogna che io ve ne parli, perchè siate valente, e essendo nel luogo, molto meglio vedrete il bisogno che non fo io. Della altezza e larghezza occupatene il luogo manco che potete col ristrigniere e allargare come a voi parrà.

Ò openione che quando detta scala si facesse di legname, cioè d'un bel noce, che starebbe meglio che di macigno e più a proposito a' banchi, al palco e alla porta 495)Altro non m'acade. Son tutto vostro, vechio, cieco e sordo e mal d'acordo con le mani e con la persona.

Vostro Michelagniolo Buonarroti in Roma. [551]

 

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Archivio di Stato in Firenze.  Di Roma, 1 di novembre 1559.

 

CDLXXXVII. 496)

(Al duca Cosimo de' Medici).

 

Illustrissimo signor Duca di Firenze. – I Fiorentini ànno avuto già più volte grandissimo disidèro di far qua in Roma una chiesa di Sangiovanni. Ora a tempo di vostra Signoria sperando averne più comodità, se ne sono resoluti, e ànno fatto cinque uomini sopra di ciò, e' quali m'ànno più volte richiesto e pregato d'un disegnio per detta chiesa. Sappiendo io che papa Leone dètte già prencipio a detta chiesa, ò risposto loro non ci volere attendere senza licenzia e commessione del Duca di Firenze. Ora come si sia seguito poi, io mi truovo una lettera della vostra Illustrissima Signoria molto benignia e graziosa, la quale tengo per espresso comandamento, che io debba attendere alla sopradetta chiesa de' Fiorentini, mostrando averne aver piacer grandisimo. Ònne fatti già più disegni 497)convenienti al sito che m'ànno dato per tale opera i sopradetti deputati. Loro, come uomini di grande ingegnio e di gudicio, n'ànno eletto uno, el quale in verità m'è parso el più onorevole; el quale si farà ritrarre e disegniare più nettamente, ch'io non ò potuto per la vecchiezza, e manderassi alla Illustrissima vostra Signoria: e quello si eseguirà che a quella parrà.

Duolmi a me in questo caso assai esser sì vechio e sì male d'acordo con la vita, che io poco posso promettere di me per detta fabrica; pure mi sforzerò, standomi in casa, di fare ciò che mi sarà domandato da parte di vostra Signoria, e Dio voglia ch'i' possa non mancar di niente a quella. A dì primo novembre 1559.

Di vostra Eccellenza servitore

Michelagniolo Buonarroti in Roma. [552]

 

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Archivio di Stato in Firenze.  Di Roma, 5 di marzo 1560.

 

CDLXXXVIII. 498)

Allo Illustrissimo et Eccellentissimo signor Duca di Firenze et Siena,

mio padrone osservandissimo.

 

Illustrissimo Signor mio osservandissimo. – Questi deputati sopra la fabrica della chiesa de' Fiorentini si sono resoluti mandare Tiberio Calcagni a vostra Eccellenza Illustrissima: la qual cosa mi è molto piaciuta, perchè con i disegni che egli porta, ella sarà capace più che colla pianta che vidde, di quello ci occorrerebbe di fare; e se questi le sodisfaranno, si potrà dipoi dar principio con lo aiuto della vostra Eccellenza a fare li fondamenti, e a seguitare questa santa impresa. E mi è parso il debito mio con questi pochi versi dirle, avendomi la vostra Eccellenza comandato che io attenda a questa fabrica, che io non mancherò di quanto saperrò et potrò fare, sebene per la età e indisposizione mia non posso quanto vorrei, e che sarebe il debito mio di fare per servizio di vostra Eccellenza e della Nazione. Alla quale con tutto il quore mi racomando e offero, e prego Iddio la mantenghi in felicissimo stato.

Di Roma, alli V di marzo 1560.

(Sottoscritto) Di vostra Eccellenza servitore

Michelagniolo Buonarroti. [553]

 

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Archivio di Stato in Firenze.  Di Roma, 25 d'aprile 1560.

 

CDLXXXIX. 499)

A l'illustrissimo Duca di Fiorenza.

 

Illustrissimo signor Duca. – Io ò visto e' disegni delle stanze dipinte da messer Giorgio, 500)e il modello della sala grande 501)con il disegnio della fontana di messer Bartolommeo che va in detto luogo. Circa alla pittura m'è parso veder cose maravigliose, come sono e saranno tutte quelle che sono e saran fatte sotto l'ombra di vostra Eccellenza. Circa al modello della sala così com'è, mi par basso; bisognerebbe, poichè si fa tanta spesa, alzarla almeno braccia 12. Circa alla correzione del palazzo, a me pare, per i disegni che ò visti, non si potesse accomodar meglio. Quanto alla fontana di messer Bartolommeo che va in detta sala, mi pare una bella fantasia che riuscirà cosa mirabile; del che io prego Dio che vi dia lunga vita, acciò che quella possa condurre e queste e dell'altre cose. Circa alla fabrica de' Fiorentini qua, mi duole esser sì vechio e vicino alla morte per non poter sadisfare in tutto al desiderio suo; pur vivendo farò quanto potrò: e a quella mi raccomando. Di Roma li dì 25 di aprile 1560.

Di vostra Eccellenza Illustrissima servitore

Michelagniolo Buonarroti. [554]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (1560).

 

CDXC.

(Al cardinale Rodolfo Pio da Carpi) 502)

 

Monsignore reverendissimo. – Quando una pianta à diverse parti, tutte quelle che sono a un modo di qualità e quantità, ànno a essere adorne di un medesimo modo e d'una medesima maniera; e similmente e' loro riscontri. Ma quando la pianta muta del tutto forma, è non solamente lecito, ma necessario, mutare dal detto ancora gli adornamenti, e similmente e' loro riscontri: e i mezzi sempre sono liberi come vogliono; siccome il naso, che è nel mezzo del viso, non è obligato nè all'uno nè all'altro ochio, ma l'una mano è bene obligata a essere come l'altra, e l'uno ochio come l'altro, per rispetto degli lati e de' riscontri. E però è cosa certa, che le membra dell'architettura dipendono dalle membra dell'uomo. Chi non è stato o non è buon maestro di figure, e massime di notomia, non se ne può intendere.

Michelagniolo Buonarroti. [555]

 

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Di Roma, (1560).

 

CDXCI. 503)

A' Soprastanti della Fabrica di Santo Pietro.

 

Voi sapete che io dissi al Balduccio che non mandassi la sua calce, se la non era buona. Ora avendola mandata trista, senza dubbio d'aversela a ripigliare, si può credere che e' si sia patteggiato con chi l'à accettata. Questo fa un gran favore a quegli che io ò cacciato di detta fabrica per simil conto: e chi accetta le cose cattive, necessarie a detta fabbrica, avendole io proibite, non fa altro che farsi amici quelli che io m'ò fatti nimici. Credo che la sarà una lega nuova. Le promesse, le mancie, e' presenti corrompon la iustizia. Però vi prego da qui innanzi, con quella autorità che ò io dal Papa, non accettiate cosa nessuna che non sia al proposito, se ben la venissi dal Cielo; acciò che non paia, come non sono, parziale.

Vostro Michelagniolo. [556]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (10 di gennaio 1560).

 

CDXCII.

(A Pier Filippo Vandini a Casteldurante).

 

Magnifico messer Pier Filippo 504)– Per risposta della vostra lettera delli X del presente, vi dico che ancora io ò parere da' dottori, che essendo vero che la casa non per fondo dotale, ma per estimo di 500 fiorini sia stata consegnata alla Cornelia, 505)ella non è obligata a repigliarse la casa; ma può avere li danari s'ella vuole. Ma perchè mi pare di conoscere, che la Cornelia vorrebbe stare in casa et avere li 500 fiorini et pigliarsi forse le migliore terre che possedono costì cotesti poveri pupilli; essendo in questo, al parere mio, poco amorevole madre; mi pare che doviamo per debito nostro operare di modo, che le robbe delli pupilli non siano delapidate: et però forse sarebbe bene di vedere se la casa si potesse vendere 500 fiorini, et se fosse possibile 800, come intendo che vale, et in effetto quel maggior prezzo che si possesse; considerando che, avendosi alienare beni stabili, sia molto meglio per li pupilli alienare la casa che li campi, che pigliare li denari del Monte, che tuttavia guadagnano et aumentano, atteso massime che li pupilli per tre o quattro scudi l'anno averanno a pigione una buona casa, et non verranno alienare le cose più fruttifere: et forse la Cornelia, come intenderà che volete vendere la casa, muterà fantasia et si risolverà a pigliare la casa, non le riuscendo quei disegni et pensieri che ella à fatto. Et questo è il mio parere, rimettendomi sempre alla prudenza et amorevolezza vostra, che siete in fatto, possete molto meglio giudicare et consigliarvi che io non posso fare io: e mi sarìa anco caro se vi paresse che avanti si inovasse altro, voi, come cortesemente mi offerite, [557] veniste a Roma, et ci abbocassimo insieme, perchè meglio ci intenderemo, meglio ci risolveremo, et meglio darimo forma alle cose di cotesti poveri orfanelli. Vi prego dunque con tutto il cuore, che quanto prima vi tornerà bene, noi facciamo questo abbocamento. Et con tutto il cuore mi racomando a voi et alli pupilli. Di Roma il dì... 506)[558]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, 13 di settembre 1560.

 

CDXCIII. 507)

All'Illustrissimo e Reverendissimo Signore et Padrone

Colendissimo il signor Cardinale di Carpi.

 

Illustrissimo et Reverendissimo Signore et Padrone mio colendissimo. – Messer Francesco Bandini 508)mi à detto ieri che vostra Signoria Illustrissima et Reverendissima gli disse che la fabbrica di San Pietro non poteva andar peggio di quello che andava: cosa che mi è molto veramente doluta, sì perchè ella non è stata informata del vero, come ancora che io, come io debbo, desidero più di tutti gli altri uomini che la vadi bene. Et credo, s'io non mi gabbo, poterla con verità assicurare, che, per quanto in essa ora si lavora, la non potrebbe meglio passare. Ma perciochè forse il proprio interesse et la vechieza mi possono facilmente ingannare, et così contra l'intenzione mia far danno o pregiudizio alla prefata fabbrica; io intendo, come prima potrò, domandare licenza alla Santità di nostro Signore: anzi, per avanzar tempo, voglio supricare, come fo, vostra Signoria Illustrissima et Reverendissima, che sia contenta liberarmi da questa molestia, nella quale per li comandamenti de' Papi, come ella sa, volentieri so' stato gratis già 17 anni. Nel qual tempo si può manifestamente veder quanto per opra mia sia stato fatto nella suddetta fabbrica. Tornandola efficacemente a pregare di darmi licenza, che per una volta non mi potrebbe far la più singulare grazia. Et con ogni reverenza, umilmente bascio la mano a vostra Signoria Illustrissima et Reverendissima.

Di Casa, in Roma il dì 13 di settembre nel LX.

Di vostra Signoria Illustrissima et Reverendissima.

Umile servo [559]

 

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Archivio Buonarroti.  Di Roma, (del novembre 1561).

 

CDXCIV. 509)

(Ai Deputati della Fabbrica di San Pietro).

 

Signori Deputati. – Essendo io vechio et vedendo che Cesare 510)è tanto occupato nello offizio suo per le cose della fabbrica, perchè gli uomini restano spesse volte senza capo; però m'è paruto necessario dare a detto Cesare, Pierluigi 511)per suo compagno, quale conosco persona d'utile et onore per la fabbrica; perchè ancora era solito della fabbrica e perchè stando in casa mia, mi potrà ragguagliare la sera quello si farà il giorno. Al quale le Signorie vostre li faranno ordinare il suo mandato della sua provisione cominciata il primo di questo mese, della quantità di quella di Cesare: altrimenti io la pagarò del mio: perchè io son resoluto, conoscendo il bisogno e utile della fabbrica, che vi stia. E a vostre Signorie mi racomando. [560]

 

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Museo Britannico.  Di Firenze, 7 di gennaio 1524.

 

Aggiunta.

 

CDXCV.

(A Giovanni Spina).

 

Giovanni. – L'aportatore di questa sarà Antonio di Bernardo Mini che sta meco, al quale pagerete ducati quindici d'oro per conto de' modegli delle sepolture della sagrestia di San Lorenzo, che io fo per papa Clemente.

A dì sette di gennaio mille cinque cento ventitre.

Ricievuto detto dì.

Vostro Michelagniolo scultore in Firenze.

 

Fine delle lettere a diversi.

 

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276) Trovasi nella Filza 68, a c. 316, del Carteggio privato de' Medici innanzi il principato.  

277) Pubblicata la prima volta da Michelangelo Gualandi nelle Memorie originali di Belle Arti, Serie terza, pag. 112, e di nuovo nella Nuova Raccolta di lettere pittoriche, vol. I, pag. 18, e ripubblicata nel Prospetto cronologico della Vita di Michelangelo nell'edizione del Vasari fatta dal Le Monnier, vol. XII, pag. 339, e finalmente nella edizione delle Rime e Lettere di Michelangelo Buonarroti fatta da Enrico Guglielmo Saltini in Firenze nel 1858, coi tipi del Barbèra, in-24º.  

278) Raffaello Riario. Vedi quel che è stato detto intorno a lui, ed a' lavori commessi a Michelangelo, nella nota a pag. 3 di questa Raccolta.  

279) Paolo di Pandolfo fiorentino, morto nel 1509.  

280) Baldassarre del Milanese che aveva venduto al cardinale di San Giorgio il Cupido dormiente di Michelangelo per cosa antica, e del prezzo cavatone truffato lo scultore. Vedi quel che di questo fatto parlano il Condivi ed il Vasari. Il Cupido passò poi nelle mani del duca Valentino, e poi in quelle della marchesa Isabella Gonzaga di Mantova. Oggi non si sa dove sia andato.  

281) Mercante fiorentino nel banco di Iacopo Gallo romano, ed amicissimo del Buonarroti.  

282) La lettera apparisce di fuori essere indirizzata al pittore Alessandro Botticelli, ma veramente è scritta a Lorenzo di Pier Francesco de' Medici. Poteva essere allora di un qualche pericolo il mostrare di scrivere apertamente ad uomo che apparteneva ad una famiglia, della quale era Piero, figliuolo di Lorenzo il Magnifico, stato da poco tempo cacciato da Firenze.  

283) Lettera importantissima, perchè aggiunge qualche altro particolare intorno al fatto della fuga di Michelangelo da Roma, narrato più o meno largamente da tutti i suoi Biografi.  

284) Gli azzurri richiesti da Michelangelo a frate Iacopo, è certo che dovevano servire per la pittura della vôlta della Sistina, e perciò la lettera deve essere del maggio 1508. Essa fu pubblicata per la prima volta da Gio. Batt. Uccelli nella sua operetta: Il Convento di San Giusto alle Mura e i Gesuati. Firenze, 1865. E qui parmi opportuno di avvertire che la massima parte delle lettere scritte da Michelangelo a varii, mancano, per essere in bozza, di qualunque indicazione di data; e quella che io ho cercato di assegnare a loro, è stata per lo più desunta dalle lettere indirizzate al Buonarroti, o da' riscontri de' fatti accennati in quelle.  

285) Credo che questo Baldassarre sia figliuolo di Giampaolo di Cagione, e fratello di Bartolommeo detto il Mancino da Torano, il quale aveva venduto il 18 di novembre 1516 a Michelangelo in Carrara varii pezzi di marmo bianco della cava del Polvaccio. E di questa vendita e del prezzo pagato al detto Bartolommeo esiste nell'Archivio Buonarroti di mano di Michelangelo un contratto del 18 di novembre 1516, fatto alla presenza di maestro Domenico Fancelli, scultore fiorentino, e di Stefano di Gio. Batt. Guerrazzi suo discepolo. Mancando ogni indicazione di tempo o di luogo, è assai difficile il determinare la data di questa lettera. È per mera congettura che le si è assegnato l'anno 1512, sapendosi che Michelangelo, finita la pittura della vôlta della Sistina, riprese a lavorare nella sepoltura di papa Giulio, per la quale dovevano certamente servire i marmi che maestro Baldassarre di Cagione aveva promesso di condurgli a Roma.  

286) Il modello della facciata di San Lorenzo che Michelangelo aveva dato a fare a Baccio d'Agnolo.  

287) Cioè, Francesco di Gio., scarpellino da Settignano, detto La Grassa.  

288) Questa compagnia fu fatta con contratto del 12 di febbraio 1517 tra Michelangelo, e i carraresi Lionardo di Cagione e Giandomenico di Marchiò, per cavare insieme i marmi in un'antica cava posseduta dal suddetto Lionardo: la qual compagnia doveva durare tanto tempo, che esso Michelangelo si fosse fornito de' marmi che aveva di bisogno per l'opera della facciata di S. Lorenzo. E la nuova compagnia fu fatta co' medesimi a' 14 di marzo del detto anno.  

289) Si diceva per proverbio di chi nel condurre una faccenda pigliasse sopra di sè la fatica e la spesa, che egli faceva come maestro Pier Fantini, medico, il quale nella cura de' suoi malati vi rimetteva, oltre l'arte sua, ancora l'unguento e le pezze.  

290) La sepoltura di papa Giulio; e le sollecitazioni venivano dal cardinale Aginense. 

291) Scritta da Firenze nel marzo del 1518.  

292) Gli Operai di Santa Maria del Fiore.  

293) Proventi.  

294) Francesco da Corbignano, scarpellino.  

294a) Luca Signorelli.  

294b) Silvio Falcone da Magliano nella Sabina.  

294c) Doveva essere una delle figure dette dei prigioni che andavano nella sepoltura di papa Giulio.  

295) La lettera è stracciata da un lato.  

296) Avevalo comprato a' 14 di luglio del detto anno.  

297) È in risposta ad una lettera di Pietro Urbano del 3 settembre 1518.  

298) Michele di Pietro detto Battaglino, scarpellino da Settignano, già ricordato altra volta.  

299) Lionardo di Compagno, fiorentino, era di mestiere sellaio e amicissimo di Michelangelo, e stava in Roma nella bottega o banco de' Borgherini. Di lui sono nel Carteggio del Buonarroti molte lettere.  

300) Pietro Urbano.  

301) Benti.  

302) Il Cristo risorto allogato a Michelangelo per 200 ducati da messer Metello Varj, romano, con contratto del 14 di giugno 1514.  

303) Lionardo Grosso Della Rovere, detto il Cardinale Aginense, nipote di papa Giulio II, il quale aveva allogato a Michelangelo la sepoltura dello zio, come uno de' suoi esecutori testamentarii.  

304) Del Piombo.  

305) È un'altra bozza della medesima lettera precedente.  

306) Questa lettera, dove tra l'altre cose si parla della colonna che si ruppe, è mancante per tutta la metà della lunghezza del foglio. A questa rispose Pietro Urbano con una sua del 6 (forse 26) d'aprile del detto anno. Le stesse cose suppergiù dice Michelangelo nella precedente.  

307) Il contratto è del 13 d'aprile 1519, e fu rogato da Ser Giovanni del fu Paolo della Badessa. In esso Iacopo di Tomeo detto Pollina abitante in Torano villa di Carrara, Antonio detto Leone d'Iacopo Puliga da Puliga, e Francesco detto Bello di Iacopo Vannelli da Torano, si obbligarono di cavare dalla cava appartenente al detto Leone dodici pezzi di marmo di più grandezze.  

308) Stampata la prima volta nei Monumenti del Giardino Puccini a pag. 579 (Pistoia, tipografia Cino, 1846, in-8º gr. fig.); e poi nel Prospetto cronologico della Vita e delle Opere di Michelangelo Buonarroti posto in fine alla Vita sua scritta dal Vasari, nell'edizione Le Monnier, vol. XII, pag. 354.  

309) Pietro Urbano si trovava da qualche giorno in Pistoia, per rimettersi in sanità, dopo la grave malattia che lo aveva assalito a Carrara, dove era andato di commissione di Michelangelo per pagare gli scarpellini, che cavavano colà i marmi per conto delle statue della facciata di San Lorenzo. Michelangelo appena ebbe nuove del male di Pietro, si partì di Firenze in poste, e fu a Carrara, e trovato il suo garzone molto grave, lo fece levare di là e portare sulle spalle degli uomini a Seravezza, e quivi lasciatolo al governo di Domenico detto Topolino, scarpellino, gli commise che, tostochè Pietro fosse alquanto migliorato, facesselo condurre a Pistoia. Dice Michelangelo in certi suoi ricordi, che per questa gita a Carrara, per il medico e le medicine, e per condurre Pietro da Carrara a Seravezza si trovò avere speso trentatre ducati e mezzo.  

310) È una variante della lettera antecedente.  

311) Sono state supplite di corsivo le parole che per essere lacero il foglio mancavano.  

312) Sebastiano del Piombo in un capitolo di una sua lettera a Michelangelo, scritta da Roma a' 3 di luglio 1520, dice così: «;Io portai quella (lettera) al Cardinale (Dovizi da Bibbiena), el qualle mi fece molte careze et offerte, ma di quello che io domandavo, lui mi disse che 'l Papa hauea dato la salla de' Pontiffici a li garzoni di Raphaello, et che costoro hauea facto una mostra de una figura a olio in muro, ch'era una bella cossa, de sorta che persona alcuna non guarderia le camere che ha facto Raphaello; che questa salla stupefaria ogni cossa, et che non sarà la più bella opera facta da li antichi in qua de pictura. Et da poi mi domandò, se io hauea lecta la vostra littera. Io li disse de nonne. Lui se ne rise molto; quasi che ne faceva beffe: et con bone parolle me partii. Da poi io ho inteso da Bacino de Michelagnolo (Bandinelli) che fa el Laoconte, che 'l Cardinale li ha mostrato la vostra littera, et àlla mostrata al Papa: che quasi non c'è altro sugieto che rasonar in Palazo, se non la vostra litera: et fa ridere ogn'omo.»  

313) Pubblicata dal Grimm, Op. cit., pag. 711.  

44) Mandollo a Roma per mezzo di Pietro Urbano nel dicembre del 1517, come abbiamo detto indietro. 

315) Il contratto tra papa Leone X e Michelangelo per il lavoro della facciata di San Lorenzo fu stipulato in Roma il 19 gennaio 1518. Michelangelo si obbligò di fare la detta facciata a tutte sue spese in tempo di otto anni, e per il prezzo di quaranta mila ducati d'oro in oro larghi.  

316) L'Opera di Santa Maria del Fiore.  

317)Pietro d'Urbano, il quale ne' primi giorni del marzo del 1521 s'era mosso da Firenze alla vòlta di Roma, per condurvi la figura del Cristo risorto, che doveva esser posta nella Minerva. Giunta la statua in Roma nell'aprile seguente, Pietro, avendo commissione di ritoccarla, la stroppiò in alcune parti, come nel piede destro e nella mano destra, onde Michelangelo pregò Federigo Frizzi, scultore fiorentino dimorante in Roma, che volesse rimediarvi; ed egli in questo si portò tanto bene, che in tutto soddisfece al Buonarroti.  

318) Giovanni di Baldassarre, bravo ed ingegnoso orafo fiorentino, detto il Piloto, fu amico di Michelangelo, e lo accompagnò fino a Venezia nella sua fuga da Firenze al tempo dell'assedio. Fu anche amico del Cellini, il quale parla di lui più volte nella sua Vita, come pure lo ricorda il Vasari. Morì di ferite nel 1536.  

319) Michelangelo fa il proprio nome e il cognome, schizzando un angelo, cioè testa e ali, e tre palle, due appaiate ed una che sta loro sopra.  

320) Fattucci, altre volte nominato.  

321) E qui disegna con la penna una macina.  

322) È questi il cardinale Domenico Grimani, veneziano, patriarca d'Aquileia e vescovo di Porto, al quale Michelangelo aveva promesso di dipingere un quadretto per tenere nel suo studio. La lettera del Cardinale al Buonarroti è dell'undici di luglio 1523.  

323) Fu già pubblicata per la prima volta nei Monumenti del Giardino Puccini: Pistoia, tip. Cino, 1845, in-8º, e poi nel Prospetto cronologico della Vita e delle opere di Michelangelo Buonarroti. Vedi Vasari, Le Monnier, vol. XII, pag. 361.  

324) Domenico di Giovanni di Bertino Fancelli, scarpellino da Settignano, nato nel 1464. Costui aveva fantasia di voler essere scultore, e qualche volta Michelangelo si pigliava spasso di lui, vedendolo lavorare.  

325) Il cardinale Giulio de' Medici, eletto papa col nome di Clemente VII il 19 di novembre 1523.  

326) Di questa lettera è un'altra bozza, di poco variata, nel detto Archivio Buonarroti.  

327) Stefano di Tommaso, il quale lasciata l'arte sua del miniare si era dato all'architettura; e Michelangelo si servì di lui nel muramento della Cappella de' sepolcri medicei, non senza averne ricevuto dispiaceri, come vedremo più innanzi. Morì il 10 dicembre del 1534.  

328) È noto che nell'anno 1503 Pietro Soderini, gonfaloniere perpetuo della Repubblica di Firenze, allogò a dipingere l'una metà della Sala del Consiglio nel palazzo della Signoria a Lionardo da Vinci, e l'altra a Michelangelo; e che per fare queste loro opere aveva il Buonarroti disegnato il famoso cartone con un episodio della guerra di Pisa, e il Vinci dipinto il suo, dove era un gruppo di cavalieri che combattevano per l'acquisto d'una bandiera. Una delle cose più notabili in questo racconto è il dirsi che Giulio II mandò un uomo apposta a Firenze a richiedere Michelangelo, e condurlo a Roma. Il che non si legge in nessuno de' suoi biografi.  

329) Allogati a Michelangelo con deliberazione de' 24 di aprile 1503. Ma di queste dodici figure che dovevano andare in Santa Maria del Fiore in luogo delle antiche pitture degli Apostoli fatte da Bicci di Lorenzo, è noto che Michelangelo non ne cominciò che una sola, la quale è il San Matteo, oggi conservata, appena abbozzata, nell'Accademia delle Belle Arti di Firenze.  

330) Atalante, figliuolo naturale di Manetto Migliorotti fiorentino, nacque nel 1466 e fu scolare di Lionardo da Vinci nel sonare il liuto. Giovanetto di circa sedici anni fu condotto dal Vinci a Milano, allorchè egli andò alla corte di Lodovico il Moro. Atalante fino dal 1513 era uno de' soprastanti alla fabbrica di San Pietro, nel qual ufficio durava ancora nel 1516. Le sue memorie non vanno oltre il 1535.  

331) Il contratto è dell'8 di luglio 1516, e fu stipulato tra Lionardo Grosso, detto il Cardinale Aginensis, nipote di papa Giulio, e Lorenzo Pucci, cardinale del titolo de' Santi Quattro, esecutori testamentari di papa Giulio, da una parte, e Michelangelo dall'altra; il quale si obbligò di fare la detta sepoltura secondo un nuovo disegno e modello, dentro il termine di nove anni e per il prezzo di sedici mila cinquecento ducati, compresi i 3500 già ricevuti.  

332) Pubblicata dal Grimm, Op. cit., pag. 708. Altra bozza della precedente.  

333) Vedi quello che intorno a maestro Bernardino è stato detto a pag. 75, nota 2, di questa Raccolta.  

334) Stefano miniatore, andato a Carrara per conto dei marmi delle sepolture medicee.  

335) Questa bozza di lettera è scritta dietro una di Lionardo sellaio, del 28 dicembre 1523.  

336) Si chiamava per proprio nome Andrea di Cristofano, e fu famigliare, commensale e calzaiuolo di papa Leone, colla provvisione di sei ducati al mese, accresciuta poi fino a otto e mezzo.  

337) È scritta dietro il disegno di numero 112.  

338) Stefano miniatore.  

339) Di questa lettera, il cui originale è tra gli altri preziosi manoscritti posseduti da Lord Ashburnham, io debbo la copia alla molta cortesia del detto nobilissimo signore, al quale per tanta liberalità non posso fare a meno di rendere qui quelle pubbliche grazie e maggiori che io so.  

340) Della sepoltura di papa Giulio.  

341) Il Rettore dell'Arte de' Giudici e Notai.  

342) Cioè, crediti di Monte.  

343) A questa rispose il Fattucci con una del 21 di luglio del detto anno dove parla del mandare a Carrara pe' marmi e delle sepolture de' Papi.  

344) Scritto con matita rossa a grandi lettere.  

345) Frammento di lettera pubblicato dal Duppa in fac-simile nella Vita di Michelangelo: Londra, 1807, e ristampato da Domenico Campanari nella sua Illustrazione del ritratto di Vittoria Colonna. 

346) Della sepoltura di papa Giulio.  

347) In testa di questa lettera si legge di mano di Michelangelo: «A dì 24 dicembre. Copia d'una mandata a ser Giovan Francesco, a Roma nel 1524.» 

348) Salviati.  

349) Intendi: della sepoltura di papa Giulio.  

350) Di questo contratto non si trova lo strumento nell'Archivio Buonarroti, nè altrove, che io sappia.  

351) Credo il ritratto di esso Anton Francesco, stupenda opera, che oggi si crede perduta; se forse non è quello dipinto da Bastiano, che si vede a' Pitti nella camera della Giustizia sotto il num. 409.  

352) Di cognome Dini, morto nel sacco di Roma.  

353) Forse il già detto ritratto dell'Albizzi.  

354) Copia di mano d'Antonio Mini.  

355) Dei papi Pio II e Pio III, le quali allora erano in San Pietro, ed oggi si vedono in Sant'Andrea della Valle.  

356) Di questa lettera è nell'Archivio Buonarroti una bozza della mano di Michelangelo.  

357) Questa strana idea era veramente venuta in mente al Papa, il quale ne scrisse a Michelangelo e ne fece scrivere dal Fattucci. Ma poi non se ne fece altro.  

358) Intendi: la porta a San Gallo.  

359) Era fantasia di Michelangelo, e in questo il Papa s'accordava volentieri, di fare nella Cappella di San Lorenzo sei sepolture: due de' Magnifici, ossia di Lorenzo vecchio e di Giuliano suo fratello; due de' Duchi, Lorenzo d'Urbino e Giuliano di Nemours; e due dei papi, Leone e Clemente. Ma perchè il luogo non pareva tanto capace, e perchè Michelangelo fu dipoi in altri lavori occupato, egli fece solamente le sepolture de' Duchi colle figure sopra i cassoni; e delle tre statue che dovevano andare sull'altare della detta Cappella, abbozzò appena quella della Nostra Donna, e le altre due de' Santi Cosimo e Damiano fece condurre di marmo, secondo il suo disegno, dal Montorsoli. Oltre le figure che dovevano ornare i cassoni per le dette sei sepolture, aveva pensato Michelangelo di porre in terra quelle di quattro Fiumi. Ed un modelletto di terra di uno di questi Fiumi io credo, senza nessun dubbio, che sia quello posseduto dal chiarissimo cav. Emilio Santarelli, scultore fiorentino.  

360) Pare che in questa lettera si parli del gruppo di Sansone che abbatte un Filisteo, tre anni dopo allogato a Michelangelo, cioè nel luglio del 1528; e che egli non fece. Ebbelo poi a fare il Bandinelli: ed è il gruppo d'Ercole e Cacco, che si vede ancora presso le scale del Palazzo Vecchio.  

31) In testa della presente lettera è scritto dalla medesima mano di Michelangelo: «Copia d'una mandata a Giovanni Spina, a dì dieci novembre del 1526.»  

362) È la risposta di Michelangelo alla lettera di ser Marcantonio, che è sotto.  

363) Questa lettera è importantissima sotto ogni rispetto, conoscendosi chiaramente per essa e dalla bocca medesima di Michelangelo, che egli fuggì di fatto da Firenze, non perchè gli mancasse l'animo a durare nella difesa della patria; ma perchè temè di capitar male per opera de' suoi nemici di dentro.  

364) Michelangelo il Giovane ha scritto dietro la lettera: «Dettemela non mi ricordo chi: credo il canonico Nori.»  

365) Pubblicata dal Gaye. Carteggio inedito d'Artisti, ec., tomo III, pag. 373.  

366) Quando, fuggito da Firenze, fu sul finire del settembre 1529 a Venezia.  

367) È tolta dal codice autografo delle Poesie di Michelangelo conservato nell'Archivio Buonarroti, ed è scritta sotto il madrigale che comincia: Se 'l fuoco alla bellezza fusse equale.  

368) A questa lettera Sebastiano rispose a' 25 di marzo del 1532.  

369) Intendi per conto della sepoltura di papa Giulio, avendone Michelangelo fatta in Roma nuova convenzione cogli agenti del Duca d'Urbino mediante strumento del 29 d'aprile 1532.  

370) Altra bozza della lettera precedente.  

371) Forse intende di dire che sarebbe lecito di chiamare amico colui, al quale si è donata la propria amicizia.  

372) Altra bozza della medesima lettera.  

373) Francesco di Bernardo Galluzzi fino dal 1525 teneva a pigione una casa in via Ghibellina, che fu già abitazione di Michelangelo, e ne pagava 22 fiorini larghi d'oro in oro l'anno.  

374) Delle sepolture medicee.  

375) Questa bozza di lettera pare che sia del 28 luglio 1533, leggendosi in una di Sebastiano del 25 luglio che i detti Madrigali erano stati musicati da Costanzo Festa e dal Concilion, eccellentissimi maestri di quei tempi, e cantori della Cappella papale: de' quali Madrigali aveva Sebastiano dato due copie a messer Tommaso de' Cavalieri.  

376) Altro principio della precedente lettera.  

377) Se queste lettere fossero veramente, come appariscono, indirizzate al Cavalieri, noi non sapremmo spiegare certe espressioni usate da Michelangelo; come: Luce del secol nostro unica al mondo: che non ha pari nè simile a sè; anzi rispetto al Cavalieri, giovane ancora, e sebbene non senza qualche ingegno, pure di troppo minore di quelle lodi, esse ci parrebbero non che eccessive, ma ancora strane. Solamente, tenendo che in realtà le lettere, o almeno il loro contenuto, dovessero per mezzo di messer Tommaso essere comunicate alla Vittoria Colonna, quelle espressioni si spiegano. Certo Michelangelo non poteva con verità dire di essere molto inferiore al Cavalieri, come benissimo poteva e con ragione riconoscersi tale appetto alla Colonna. Pure sarà sempre in qualche modo oscuro, come Michelangelo per far conoscere l'affetto suo, che egli non dubita di chiamare grandissimo, anzi smisurato amore, verso quella nobilissima e virtuosa donna, stimasse migliore espediente, almeno in su i principii di quello, di significarlo per lettere scritte ad altri, piuttostochè indirizzate a lei. La quale non si può credere che non accogliesse volentieri le dichiarazioni d'amicizia di Michelangelo; perchè alla Colonna più che le lodi del mondo dovevano fare più dolce forza, e meglio contentare il suo cuore di donna e di letterata, quelle sincere e spontanee del grande artista, al quale avevano portato e portavano altissima reverenza ed amore fino i Papi ed i Monarchi.  

378) La lettera è stracciata da una parte. A questa rispose l'Angiolini con una sua de' 18 ottobre.  

379) Sotto Michelangelo stesso vi ha aggiunto: «Copia d'una lettera al Figiovanni il sopradetto dì.»  

380) Turini da Pescia. 

381) Partì per Roma sul fine di quel mese.  

382) È stampata nel libro I a pag. 287 della Nuova scelta di Lettere di diversi nobilissimi ingegni, ec., fatta da messer Bernardino Pino: Venezia, 1574, in-8º. Fu poi ristampata nel vol. II delle Pittoriche: ed è in risposta ad una dell'Aretino del 13 di settembre del detto anno, dove vorrebbe che Michelangelo seguisse un suo concetto circa al modo di rappresentare in pittura il Giudizio.  

383) È in risposta ad una del Martelli, e si trova copiata nel Libro de' Capitoli dell'Accademia degli Umidi: manoscritto originale nella Nazionale di Firenze, classe VII, codice IV, 2. Si legge ancora tra le Pittoriche, vol. VI, pag. 98 (Edizione del Silvestri): ma oltre essere un po' rammodernata, manca dell'anno e del luogo. Nella stampa la lettera dal Martelli diretta a Michelangelo è del 4 dicembre 1540. Perciò o è sbagliata la data di questa, o di quella di Michelangelo.  

384) Intendi: Madrigale.  

385) Giannotti.  

386) nel codice autografo delle Poesie di Michelangelo sotto il madrigale: Per c'al superchio ardore.  

387) Parla della ratificazione del contratto stipulato coll'oratore del Duca d'Urbino a' 20 d'agosto 1542 per conto della sepoltura di papa Giulio II.  

388) Nel Codice detto, sotto il madrigale: Non è senza periglio Il tuo volto divino.  

389) Nel Codice detto, sotto la poesia: Spargendo il senso il troppo ardor cocente.  

390) Arcadelt o Arcadente, musico eccellente fiammingo, il quale, al pari del Festa e del Concilion, aveva messo in musica alcuni madrigali di Michelangelo.  

391) Da Montauto.  

392) Bracci.  

393) Con contratto del 16 di maggio 1542 il Buonarroti aveva allogato a maestro Giovanni de' Marchesi da Saltri, scarpellino abitante in Roma, ed a Francesco d'Amadore detto l'Urbino, suo servitore, il resto del lavoro del quadro della sepoltura di papa Giulio che doveva andare in San Pietro in Vincoli. Ma essendo nata differenza fra maestro Giovanni e Francesco, ed avendo essi di comune consenso ceduto a Michelangelo la detta opera; egli di nuovo la riallogò a loro nel giugno di detto anno, con altri patti e convenzioni. E perchè la differenza che era tra loro consisteva più che in altro nella quantità del lavoro che ciascuno pretendeva di avere fatto in quell'opera, furono chiamati a stimarlo tre maestri, i quali dettero il loro lodo agli otto di luglio seguente. Ma siccome di questo lodo pare che non fossero in tutto rimasti contenti Giovanni e l'Urbino, restando sempre qualche cagione di lite tra loro; così Michelangelo vi mise di mezzo Luigi del Riccio, perchè vedesse modo di accordarli. Il secondo contratto e il lodo sono riferiti dal Gaye nel vol. II del Carteggio inedito, ec., pag. 293 e seg.  

394) Questo spazio è nell'originale.  

395) Il foglio è lacero.  

396) È scritta di mano di Luigi del Riccio, e trovasi nel codice 303 della classe XXXVII della Biblioteca Nazionale di Firenze. Fu pubblicata dal Gaye nel vol. II del Carteggio inedito, ec., pag. 297.  

397) Nell'occhietto: «1542. Copia d'una scritta data messer Michelagnolo Buonarroti a messer Piergiovanni, guardaroba di Nostro Signore, a dì 20 di luglio 1542.»  

398) Aliotti, guardaroba del Papa, e vescovo di Forlì.  

399) Questa lettera, nella quale Michelangelo dà un minuto ragguaglio delle cose che gli accaddero per conto della sepoltura di papa Giulio II, si trova in copia, forse di mano di Luigi del Riccio, nel cod. 1401 della cl. VIII della Biblioteca Nazionale di Firenze. Essa fu pubblicata per la prima volta da Sebastiano Ciampi (Firenze, Passigli, 1834, in-8º), e poi ristampata nel Commentario alla Vita di Michelangelo Buonarroti, vol. XII, pag. 312, dell'Opera del Vasari, edita in Firenze dal Le Monnier. Il Ciampi, mancando la lettera di data, argomentò che fosse stata scritta tra il 1535 e il 1536; ma è chiaro per certissimi riscontri che essa è dell'ottobre 1542. Quanto al Monsignore, al quale pare che sia indirizzata, fu congetturato che fosse Marco Vigerio, vescovo di Sinigaglia, stato mediatore tra Michelangelo e il Duca d'Urbino, perchè questi si risolvesse a mandare la desiderata ratificazione del contratto stipulato in Roma a' 20 d'agosto 1542, per la sepoltura suddetta. Forse potrebbe essere il cardinale Ascanio Parisani, il quale per commissione del Papa aveva scritto al Duca, perchè désse qualche assetto alla faccenda di Michelangelo. Ma forse questa lettera fu scritta ad uno de' tanti prelati che erano nella Corte di Paolo III; forse fu data allo stesso Del Riccio, perchè poi la leggesse al Papa. Non è poi dubbio che essa non fosse veramente dettata da Michelangelo, apparendovi manifesta la forma che egli soleva dare a' suoi pensieri; e che solamente al copiatore, cioè al Del Riccio, si possono attribuire certe dichiarazioni oziose ed inutili, le quali misero in sospetto il Gaye della sua autenticità.  

400) È quello del 29 d'aprile 1532.  

401) Giovanmaria Della Porta, che ebbe parte principale nella stipulazione di quel contratto.  

402) Francesco Maria Della Rovere.  

403) Girolamo Tiranno.  

404) Creato vescovo di Corsica nel dicembre del 1520.  

405) Manca nel codice questo in necessario.  

406) Cioè, il contratto del 20 d'agosto 1542.  

407) Di questi tre Brevi non si conosce che quello degli 8 luglio 1506, col quale Michelangelo è invitato a ritornare a Roma, assicurandolo che non sarebbegli dato molestia.  

408) Copia di Luigi del Riccio.  

409) Forse Tommaso Cortesi da Prato.  

410) Federigo Cesi, poi cardinale di San Pancrazio.  

411) Copia di mano di Luigi del Riccio.  

412) Montemelini, perugino.  

413) In questa lettera si parla della fortificazione di Borgo ordinata da papa Paolo III, per la quale fu richiesto il consiglio di molti uomini intendenti della materia, tra i quali Michelangelo. Il capitano Montemelini era d'un parere, e d'un altro Iacopo Castriotto. Michelangelo, per quanto apparisce, si accostava all'opinione di quest'ultimo, che fu poi seguitata dal Papa.  

414) Questa lettera, che certamente è scritta a papa Paolo, sebbene manchi d'indirizzo, parla del cornicione del Palazzo Farnese, per il quale fu disputa tra Michelangelo e il Sangallo, architetto di quello. È noto che al Papa piacque sopra gli altri il modello fatto dal Buonarroti, secondo il quale fu poi costruito il detto cornicione. Che questa lettera sia veramente scritta dalla mano di Michelangelo, non ci pare da mettere in dubbio; solamente dubitiamo che non sia stata composta da lui, parendoci d'una forma spesso non solo diversa da quella di Michelangelo, ma ancora dalla toscana.  

415) Era stato gravemente ammalato in casa degli Strozzi, e già era corsa voce che egli fosse morto.  

416) Rontini, medico.  

417) Mercanti fiorentini nel Banco degli Strozzi in Roma.  

418) Questa stessa fu pubblicata dal Gaye, Carteggio inedito, ec., vol. II, da una copia di mano di messer Luigi del Riccio, che è tra i manoscritti della Biblioteca Nazionale di Firenze.  

419) Dall'autografo delle Poesie, sotto il madrigale: S'è ver come che dopo il corpo viva.  

420) Giannotti, il quale fece tre sonetti in morte di Cecchino Bracci, che sono stampati nella edizione delle sue Opere politiche e letterarie, fatta in Firenze da L. F. Polidori, coi tipi del Le Monnier nel 1850. De' tre, quello che a Michelangelo pareva il più bello, come pare anche a noi, è il sonetto che comincia: Messer Luigi mio, di noi che fia.  

421) Pubblicata anche questa dal Gaye, Op. cit., traendola da una copia di mano di Luigi del Riccio, che è tra i manoscritti della Biblioteca Nazionale di Firenze.  

422) Dall'autografo delle Poesie, sotto il madrigale che comincia: Non può per morte già chi qui mi serra. Questo madrigale o epitaffio fu fatto con molti altri dal Buonarroti per Cecchino di Zanobi Bracci, fiorentino, giovanetto bellissimo, grandemente amato dal Del Riccio suo parente e da Michelangelo, e morto di sedici anni in Roma l'otto di gennaio 1545. Volle il Del Riccio fargli un deposito di marmo, e Michelangelo a sua preghiera ne diede il disegno. I madrigali in lode del Bracci si leggono nella bellissima edizione di tutte le Poesie del Buonarroti, fatta, secondo gli autografi, in Firenze nel 1863, dal mio carissimo amico e collega cav. Cesare Guasti. In questa lettera il Buonarroti spiega il concetto del madrigale suddetto.  

423) Sotto la poesia: Dal Ciel fu la beltà mia diva e 'ntera.  

424) Lunghezza chiamavasi una villa posseduta dagli Strozzi nelle vicinanze di Roma.  

425) Sotto la poesia: Nella memoria delle cose belle; nel detto codice delle Poesie.  

426) Nel detto codice autografo delle Poesie, sotto il madrigale: Non sempre al mondo è sì pregiato e caro.  

427) Giuliano de' Medici, fratello di Lorenzino, uccisore del duca Alessandro, e Roberto degli Strozzi, fratello di Pietro e di Leone.  

428) Della sepoltura di papa Giulio.  

429) È copia di mano di Luigi del Riccio. Fu pubblicata dal Gaye, Op. cit., vol. II, pag. 305.  

430) La Cappella Paolina.  

431) Dal detto codice delle Poesie, sotto il sonetto: Per esser manco almen, Signora, indegno.  

432) Pubblicata nelle Lettere pittoriche, vol. I, pag. 9; ma quivi è indirizzata a un signor Marchese. Nell'Archivio Buonarroti è una copia tratta dal codice Vaticano delle Poesie, secondo la quale si dà la presente.  

433) Il Condivi e il Vasari parlano del disegno di un Crocifisso fatto da Michelangelo per la Colonna, che si dice conservarsi ora nella Galleria di Oxford. E da una lettera della stessa Colonna, apparirebbe che Michelangelo, oltre il disegno, le dipingesse ancora un quadro col medesimo soggetto.  

434) Cavalieri.  

435) Veramente lo perdè un anno dopo. Vedi a questo proposito quel che è stato detto nella nota alla lettera CLXXIX di questa Raccolta.  

436) Bracci. Esso fu sepolto in Santa Maria in Aracœli con questo epitaffio: Francisco Braccio · Florentino · nobili adolescenti · immatura morte · prærepto · anno agenti XVI · die VIII · Januarii · MDXLV.  

437) A proposito delle possessioni de' Corboli offerte in compera a Michelangelo, vedi le sue lettere al nipote Lionardo sotto i numeri CLXI, CLXIII e CLXIV di questa Raccolta.  

438) È in risposta ad una di Francesco I, re di Francia, dell'otto di febbraio 1546, stata più volte pubblicata, cioè: nel 1823 a Roma dal De Romanis nell'opuscolo per le nozze Cardinali-Bovi, intitolato: Alcune Memorie di Michelangelo Buonarroti da' Manoscritti. Poi dal barone Alfredo Reumont nell'operetta: Ein Beitrag zum Leben Michelangelo Buonaroti's: Stuttgart, 1834; quindi in fac-simile dall'Artaud, nell'opera: Machiavel, son génie et ses erreurs: Paris, 1835, vol. II, pag. 252. In terzo luogo nel Catalogue du Musée Wicar à Lille, stampato nel 1856; nel qual Museo se ne conserva l'originale. E finalmente da Eugenio Piot, insieme con molte altre lettere, nel Cabinet de l'Amateur: Année 1861 et 1862, pag. 151. Ma il re Francesco non ebbe tempo di veder soddisfatto questo suo desiderio, perchè si morì l'anno seguente, nè forse Michelangelo avrebbe potuto attenere le sue promesse, essendo stato creato poco dopo Architetto di San Pietro.  

439) Parlasi in questa lettera della stampa d'una pittura di Michelangelo. Forse è il Giudizio della Sistina intagliato da Enea Vico, forse è una delle stampe di Giulio Bonasone.  

440) Il presente ordine di pagamento si trova nell'Archivio di Santa Maria Nuova di Firenze: Eredità Galli-Tassi: Carte degli Ulivieri.  

441) Sotto la lettera è scritto: «Noi Bartolomeo Bettini e compagni abiamo ricevuto da Benvenuto Ulivieri e compagni scudi sesanta sei d'oro in oro, e' quali ci pagono per messer Michelagnolo Buonaroti Simoni, e sono per la paga di gennaro e febraro e marzo prossimi passati del suo Notariato di Romagnia: auti contanti questo dì 26 d'aprile 1549 a messer Piero Nannucci .... scudi 66 d'oro in oro. »E addì xiii di giugno, scudi quaranta quatro di giuli X per ducato auti contanti per le paghe d'aprile e maggio .... sc. 44. »E addì xj di dicembre, scudi quaranta quatro di giuli auti contanti per le paghe di giugno e luglio .... sc. 44.»  

442) È copia del tempo, e Michelangelo il Giovane scrisse dietro: «Dettemela il cav. Pierantonio di Giulio de' Nobili.» Questa lettera, oltre la stampa fattane in Firenze dal Varchi nel 1549 e poi in Venezia nel 1564 dall'Aldo, si legge ancora nelle Pittoriche, vol. I, pag. 9.  

443) Risponde alla questione sorta allora quale delle due arti, la Scultura e la Pittura, fosse più nobile. Il Varchi, avuto il parere di varii artisti, stampò il Libretto intitolato: Due lezioni di messer Benedetto Varchi: nella prima delle quali si dichiara un Sonetto di messer Michelagnolo Buonarroti; nella seconda si disputa quale sia più nobile arte, la Scultura o la Pittura: con una lettera d'esso Michelagnolo, et più altri eccellentissimi pittori et scultori sopra la questione sopradetta. - In Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino, impressor ducale. MDXLIX, in-8º.  

444) Stampata nelle Pittoriche, vol. V, pag. 48.  

445) Il Libretto di Benedetto Varchi, già citato, col Commento sopra il sonetto di Michelangelo: Non ha l'ottimo artista alcun concetto.  

446) Fu pubblicata dal Gaye, Opera citata, vol. II, pag. 426, e dal Gualandi nel vol. I, pag. 21, della Nuova Raccolta di Lettere sulla pittura, scultura ed architettura. Bologna, 1844, in-8º.  

447) Intendi: le sue Poesie.  

448) Seconda minuta della precedente.  

449) Cioè, le sue Poesie.  

450) Terza minuta della medesima lettera.  

451) Intendi: il detto Commento al suo sonetto.  

452) Dal codice citato delle Poesie.  

453) Cioè, Poesie.  

454) Le lettere di Michelangiolo a Giorgio Vasari sono riferite nella Vita del Buonarroti, scritta dal Biografo aretino, e nelle Pittoriche. Noi le ristampiamo più corrette ed intere, servendoci di una copia che a' nostri giorni era in mano del cav. Bustelli, stata già fatta da Michelangelo il Giovane sugli originali di esse lettere, possedute allora dal cav. Giorgio Vasari il Giovane.  

455) Papa Giulio III si era vòlto a fare in San Pietro a Montorio una cappella di marmo con due sepolture: l'una per il cardinale Antonio Del Monte suo zio, e l'altra per Fabiano suo avolo. Il Vasari ne aveva fatti disegni e modelli, e l'opera delle sepolture era stata allogata all'Ammannato, contentandosene Michelangelo, al quale era data la cura del tutto.  

456) Cioè, della cappella e sepolture in San Pietro a Montorio che lavorava l'Ammannati.  

457) Ammannato.  

458) Così chiamava Michelangelo il vescovo Aliotti.  

459) Frammento di lettera che si legge riportato da Benvenuto Cellini nella propria Vita; che poi di nuovo fu pubblicato nel Giornale Arcadico di Roma, tomo LVII, pag. 301, e ultimamente dal Moreni nell'Illustrazione storico-critica d'una rarissima Medaglia rappresentante Bindo Altoviti: opera di Michelangelo Buonarroti. Stampata in Firenze, per il Magheri, 1824, in-8º.  

460) Di questo ritratto bellissimo di bronzo parla il Cellini nella detta sua Vita. Al tempo del Moreni era ancora nelle case degli Altoviti a piè di Ponte Sant'Angelo di Roma.  

461) Il primo figliuolo nato a Lionardo suo nipote.  

462) Colla lettera era il sonetto che comincia: Giunto è già il corso della vita mia.  

463) La pubblicò molto inesattamente per il primo il Bottari, ed è nel vol. VI delle Pittoriche, pag. 40. Egli disse di averla tratta dall'originale presso gli eredi di Michelangelo, senza potere scoprire a chi fosse indirizzata. Ma che sia l'Ammannato non si può dubitare.  

464) Questo che segue manca in tutte le stampe.  

465) Delle lettere di Michelangelo al Vasari questa è pubblicata ora per la prima volta. Si trova copiata ancora nel codicetto intitolato: Copia di Poesie di Michelagnolo.  

466) Anche questa era inedita.  

467) Marinozzi da Ancona.  

468) Con le parole che seguono, principia il Vasari un'altra lettera di Michelangelo a lui.  

469) Morì a' 3 di dicembre 1555. Vedi la lettera CCLXXXIV di questa Raccolta.  

470) Quel che segue non è nello stampato.  

471) Cellini.  

472) Anche questa è inedita.  

473) Peruzzi, architetto del Papa.  

474) La tavola commessa al Vasari da papa Giulio III per una cappella del Vaticano. La qual tavola, perchè non gli era stata pagata, fu poi per ordine di Pio IV fatta restituire al Vasari, e da lui mandata ad Arezzo e messa nella Pieve.  

475) Il libretto mandato da Cosimo Bartoli a Michelangelo ha questo titolo: Difesa della lingua fiorentina e di Dante, con le regole di far bella e numerosa la prosa: Firenze, 1566, in-4º. È opera di Carlo Lenzoni, ma avendola per morte lasciata imperfetta, fu terminata dal Giambullari: morto il quale, pervenne alle mani del Bartoli, che la mise in stampa, dedicandola al duca Cosimo.  

476) Michelangelo discorre di questa sua fermata nelle montagne di Spoleto, essendo in cammino per Loreto, in una lettera al nipote Lionardo del 31 d'ottobre 1556. Pare che dimorasse colà circa 40 giorni.  

477) Si legge nel vol. I, pag. 13, delle Pittoriche.  

478) Figlioccio di Michelangelo.  

479) È inedita nel Carteggio del duca Cosimo, Filza 460; ed è in risposta ad una del Duca dell'otto di maggio 1557, che si legge nel vol. II, pag. 418, del Carteggio inedito d'Artisti, ec., del Gaye.  

480) Malenotti.  

481) Questo modello di legname è nell'Archivio della Fabbrica di San Pietro.  

482) Il cardinale Rodolfo Pio da Carpi.  

483) È in risposta ad una del Vasari dell'otto di maggio, che si legge nelle Pittoriche, vol. I, pag. 6, ripetuta nel vol. VIII, pag. 45.  

484) Quel che segue non si legge nelle stampe passate.  

485) Realdo Colombo, medico celebre.  

486) Papa Clemente morì a' 25 di settembre 1534. Michelangelo dunque giunse in Roma a' 23 del detto mese. Ma certamente questa sua andata colà fu per pochi giorni, e anticipò di tre mesi l'ultima, la quale fu sul finire del dicembre di quell'anno medesimo, come per altri riscontri si può conoscere.  

487) Crede Michelangelo il Giovane che qui manchi una parola, forse scusa; ma pare che, anche senza questa, il discorso torni. 

488) Qui manca qualcosa, forse: non si doveva mai pigliare, o c'è di più la parola ma.  

489) Le parole che seguono non sono negli stampati.  

490) Quel che segue non è nelle stampe.  

491) Stampata nelle Pittoriche, vol. I, pag. 4. Ma quivi la data è sbagliata, come nel Vasari.  

492) Quel che segue manca nelle stampe. Traggo questa aggiunta, come alcune correzioni nel corpo della lettera, da una copia contemporanea che è presso il cav. Giuseppe Palagi.  

493) Nonostante le spiegazioni da Michelangelo date al Vasari, ed il modelletto di terra mandato all'Ammannato, pure bisogna dire che la scala della Libreria di San Lorenzo, come oggi si vede, riuscì cosa alquanto lontana dal concetto e dalla intenzione del Buonarroti.  

494) Da una copia già presso il cav. Bustelli.  

495) Pare che fino dal 1549 Michelangelo fosse stato richiesto circa la forma della scala della Libreria. In una lettera di Lelio Torelli a Pier Francesco Riccio, maggiordomo del duca Cosimo, scritta di Firenze il 20 gennaio 1549 (1550), si dice: Io mando alla Signoria vostra una lettera di Michelangelo, ch'io m'havea proposto di ragionarli sopra la scala della Libreria di San Lorenzo; che havendo inteso che era così bella et nuova inventione, et che quella che hora si disegnava non riusciva, pensandomi che la Signoria vostra potesse cavar qualche costrutto di questa consideratione, mi feci dar questa lettera da ser Giovanfrancesco (Fattucci): la qual, come harà vostra Signoria operato, li piacerà rimandarmi; et della cosa farà quanto le piacerà. So che non propongo cosa ch'Ella non sappia, ma quando morì l'Ansuino (Andrea Sansovino) in quelle stanze era il modello di detta scala, et intendo ch'erano lavorate tutte le pietre, excetto il primo scaglione. (Archivio di Stato in Firenze, Carteggio di Pier Francesco Riccio, Filza 7ª).  

496) Sta nel vol. I, pag. 10, delle Pittoriche, e fu ripubblicata dal Gaye, Op. cit., vol. III, pag. 18, secondo l'originale che è nel Carteggio del duca Cosimo de' Medici, Filza 482, carte 2.  

497) De' cinque che ne fece, mandò quello scelto da' Deputati al Duca in Firenze, per mezzo di Tiberio Calcagni. Ma la chiesa de' Fiorentini fu poi fatta col disegno di altri.  

498) Pubblicata dal Gaye, Op. cit., vol. III, pag. 25. L'originale sottoscritto solamente dalla mano di Michelangelo si trova nella Filza 483, carte 797, del Carteggio del duca Cosimo.  

499) Si trova nella Filza 484 del detto Carteggio del duca Cosimo: è scritta da altra mano, forse da Daniello Ricciarelli, e sottoscritta da Michelangelo. Fu pubblicata dal Gaye, Op. cit., vol. III, pag. 25.  

500) Il Vasari dipinse la Genealogia degli Dei nelle stanze nuove del Palazzo Vecchio, che rispondono dalla Loggia del Grano.  

501) La Sala detta de' 500.  

502) Pubblicata nelle Pittoriche, vol. I, pag. 11; ma senza indicazione di data e coll'indirizzo al duca Cosimo. Circa la data, si congettura il 1560; potendo benissimo essere di qualche altro anno indietro: e circa alla persona, vedendo che è scritta ad un Monsignore, si può con ragione supporre che sia il cardinale Rodolfo Pio da Carpi, il quale si sa che fu uno de' deputati sopra il governo della Fabbrica di San Pietro. E questa lettera, o meglio spiegazione, pare che fosse dettata dal Buonarroti per risposta ad un qualche dubbio statogli mosso circa alcuna parte del suo lavoro.  

503) Questa lettera fa pubblicata dal Fea secondo l'originale, che egli non dice da chi posseduto, nell'operetta intitolata: Notizie intorno a Raffaele Sanzio da Urbino, ec. Roma, Poggioli, 1822, in-8º.  

504) Questo Pier Filippo fu per qualche tempo uno de' tutori di Michelangelo e di Francesco, figliuoli pupilli dell'Urbino.  

505) La vedova dell'Urbino, figliuola di Guido da Colonnello, la quale nell'anno dopo si rimaritò al dottor Giulio Brunelli da Gubbio.  

506) Questa bozza di lettera non è di mano di Michelangelo.  

507) È tra le Pittoriche, nel vol. VI, pag. 43; noi la ripubblichiamo secondo una copia contemporanea.  

508) A lui donò Michelangelo la Pietà che ruppe, che oggi è nel Duomo di Firenze.  

509) Non è di mano di Michelangelo, e trovasi scritta nel foglio bianco di una lettera del Vasari a Michelangelo, de' 4 di novembre 1561.  

510) Cesare da Castel Durante, uno de' soprastanti alla Fabbrica di San Pietro. A costui l'otto di agosto 1563, essendo a San Pietro, furono date tre pugnalate, per le quali in breve si morì.  

511) Pier Luigi Gaeta, che il Vasari dice giovane, ma sufficientissimo, al quale accadde, nel 1561 essendo mandato da Michelangelo a cambiare certi ducati d'oro vecchi, di esser preso e messo in prigione per sospetto che avesse avuto mano nel furto di un gran tesoro trovato in que' giorni nella vigna di Orazio Muti.