BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Silvio Pellico

1789 - 1854

 

Le mie prigioni

 

1832

 

______________________________________________________________________________

 

 

[205]

Capo LX.

 

―――――

 

A SERA venne il soprintendente, accompagnato da Schiller, da un altro caporale e da due soldati, per fare una perquisizione.

Tre perquisizioni quotidiane erano prescritte: una a mattina, una a sera, una a mezzanotte. Visitavano ogni angolo della prigione, ogni minuzia; indi gl'inferiori uscivano, ed il soprintendente (che mattina e sera non mancava mai) si fermava a conversare alquanto con me.

La prima volta che vidi quel drappello, uno strano pensiero mi venne. Ignaro ancora di quei molesti usi, e delirante dalla febbre, immaginai che mi movessero contro per trucidarmi, e afferrai la lunga catena che mi stava vicino, per rompere la faccia al primo che mi s'appressasse.

– Che fa ella? disse il soprintendente. Non veniamo per farle alcun male. Questa è una visita di formalità a tutte le carceri, a fine di assi­curarci che nulla siavi d'irregolare.

Io esitava; ma quando vidi Schiller avanzarsi [206] verso me e tender­mi amicamente la mano, il suo aspetto paterno m'ispirò fiducia: lasciai andare la catena, e presi quella mano fra le mie.

– Oh come arde! diss'egli al soprintendente. Si potesse almeno dargli un pagliericcio! –

Pronunciò queste parole con espressione di sì vero, affettuoso cordo­glio, che ne fui intenerito.

Il soprintendente mi tastò il polso, mi compianse: era uomo di gentili maniere, ma non osava prendersi alcun arbitrio.

– Qui tutto è rigore anche per me, diss'egli. Se non eseguisco alla lettera ciò ch'è prescritto, rischio d'essere sbalzato dal mio impiego. –

Schiller allungava le labbra, ed avrei scommesso, ch'ei pensava tra sé: – S'io fossi soprintendente, non porterei la paura fino a quel grado; né il prendersi un arbitrio così giustificato dal bisogno, e così innocuo alla monarchia, potrebbe mai riputarsi gran fallo.

Quando fui solo, il mio cuore, da qualche tempo incapace di profondo sentimento religioso, s'intenerì e pregò. Era una preghiera di benedizioni sul capo di Schiller; ed io soggiungeva a Dio: – Fa ch'io discerna pure negli altri qualche dote che loro m'affezioni; io accetto [207] tutti i tormenti del carcere, ma deh, ch'io ami! deh, liberami dal tormento d'odiare i miei simili!.

A mezzanotte udii molti passi nel corridoio. Le chiavi stridono, la porta s'apre. È il caporale con due guardie, per la visita.

– Dov'è il mio vecchio Schiller? diss'io con desiderio. Ei s'era fermato nel corridoio.

– Son qua, son qua, rispose. –

E venuto presso al tavolaccio, tornò a tastarmi il polso, chinandosi inquieto a guardarmi, come un padre sul letto del figliuolo infermo.

– Ed or che me ne ricordo, dimani è giovedì! borbottava egli; pur troppo giovedì!

– E che volete dire con ciò?

– Che il medico non suol venire, se non le mattina del lunedì, del mercoledì e del venerdì, e che dimani pur troppo non verrà.

– Non v'inquietate per ciò.

– Ch'io non m'inquieti, ch'io non m'inquieti! In tutta la città non si parla d'altro che dell'arrivo di lor signori: il medico non può ignorarlo. Perché diavolo non ha fatto lo sforzo straordinario di venire una volta di più?

– Chi sa che non venga dimani, sebben sia giovedì? – [208]

Il vecchio non disse altro; ma mi serrò la mano con forza bestiale, e quasi da storpiarmi. Benchè mi facesse male, n'ebbi piacere. Simile al piacere che prova un innamorato, se avviene che la sua diletta, ballando, gli pesti un piede: griderebbe quasi dal dolore, ma, invece, le sorride, e s'estima beato.