BIBLIOTHECA AUGUSTANA

 

Il Novellino

ca. 1290

 

Il Novellino

 

71 – 80

Beni perduti, avidità delusa

 

_________________________________________________________

 

 

 

LXXI

Qui conta come Seneca consolò una donna

a cui era morto uno suo figliuolo.

 

Volendo Seneca consolare una donna a cui era morto un suo figliuolo, sì come si legge in libro «Di Consolazione», disse cotali parole:

«Se tu fossi femina sì come l'altre, io non ti parlerei co m'io farò; ma però che tu·sse' femina et hai intelletto d'uomo, sì ti dirò così. Due donne furo in Roma: a ciascuna morì il figliuolo: l'uno era d'i cari figliuoli del mondo, e l'altro era vie più caro. L'una si diede a ricevere consolazione, e piacquele essere consolata; e l'altra si mise in uno canto della casa, e rifiutò ogni consolazione, e diessi tutta in pianto. Quale di queste due è il meglio? Se tu dirai quella che voll'essere consolata, dirai il vero. Dunque, perché piangi? Se mi di': «Piango il figliuolo mio perché la sua bontà mi facea onore», dico che non piangi lui ma piangi lo tuo danno e, piangendo lo tuo danno, piangi te medesima: et assai è laida cosa piangere altri se stesso. E se tu vuoli dire: «Il cuor mio piange perché tanto l'amava», non è vero che meno l'ami tu morto che quando era vivo. E se per amore fosse tuo pianto: perché nol piangevi tu quand'era vivo, sappiendo che dovea morire? Onde non ti scusare: to'·ti dal pianto! Se 'l tuo figliuolo è morto, altro non può essere. Morto è secondo natura, dunque per convenevole modo: lo quale è di necessitade a tutti».

E così consoloe colei.

Ancora si legge di Seneca ch'essendo maestro di Nerone sì·llo batteo quand'era giovane, come suo scolaio; e, quando Nerone fu fatto imperadore, ricordossi di Seneca, delle battiture che·lli avea date: sì·llo fece pigliare e giudicollo a morte. Ma cotanto li fece di grazia, che li disse:

«Aleggiti di che morte vogli morire»; e Seneca chiese di farsi aprire tutte le vene in un bagno caldo.

E la moglie sì 'l piangea e dicea:

«Deh, signor mio, che doglia m'è che tu muori sanza colpa!».

E Seneca rispuose:

«Meglio m'è ch'io moia sanza colpa che con colpa: così sarebbe dunque scusato colui che m'uccide a torto».

 

 

LXXII

Qui conta come Cato si lamentava

contra alla Ventura.

 

Cato filosofo, uomo grandissimo di Roma, stando in pregione e in povertade, parlava con la Ventura e doleasi molto e dicea:

«Perché m'hai tanto tolto?».

E poi si rispondea in luogo della Ventura e dicea così:

«Figliuolo mio, quanto dilicatamente t'hoe allevato e nodrito! E tutto ciò che m'hai chesto t'ho dato: la signoria di Roma t'ho data; signore t'ho fatto di molte dilizie, di gran palazzi, di molto oro, gran cavalli, molti arnesi. O figliuolo mio, perché ti ramarichi tue perch'io mi parta da te?».

E Cato rispondea:

«Sì ramarico».

E la Ventura parlava:

«Figliuolo mio, tu se' molto savio: or non pensi tu ch'i' ho figliuoli piccolini, li quali mi conviene nodricare? Vo' tu che io li abandoni? Non sarebbe ragione! Oi, quanti piccioli figliuoli ho a notricare! Figliuol mio, non posso star più teco. Non ti ramaricare, ch'io non t'ho tolto neente: ché ciò che tu hai perduto non era tuo: però che ciò che si può perdere non è propio, e ciò che non è propio non è tuo».

 

 

LXXIII

Come il Soldano, avendo mestiere di moneta,

volle cogliere cagione a un giudeo.

 

Il Soldano, avendo mestiere di moneta, fo consigliato che cogliesse cagione ad uno ricco giudeo ch'era in sua terra, e poi gli togliesse il mobile suo, ch'era grande oltra numero. Il Soldano mandò per questo giudeo e domandollo qual fosse la migliore fede, pensando:

«S'elli dirà la giudea, io dirò ch'elli pecca contra la mia; e se dirà la saracina, et io dirò: «Dunque, perché tieni la giudea?».

E'l Giudeo, udendo la domanda del signore, rispuose così:

«Messere, elli fu un padre ch'avea tre figliuoli et avea un suo anello con una pietra preziosa, la migliore del mondo. Questi figliuoli, ciascuno pregava il padre ch'alla sua fine li lasciasse questo anello; e il padre, vedendo che catuno il volea, mandò per un fino orafo e disse:

»Maestro, fammi due anella così a punto come questo, e metti in ciascuno una pietra che asomigli aquesta«.

Lo maestro fece l'anella così a punto, che niuno conoscea il fine, altro che 'l padre. Mandò per li figliuoli ad uno ad uno, et a catuno diede il suo in secreto, e catuno si credette avere il fine: e niuno ne sapea il vero, altri che 'l padre loro. E così è delle fedi, messere: le fedi sono tre: il Padre che·lle diede sa la migliore, e li figliuoli (ciò siamo noi), ciascuno la si crede avere buona».

Allora il Soldano, udendo costui così riscuotersi, non seppe che si dire di coglierli cagioni: sì lo lasciò andare.

 

 

LXXIV

Qui conta una novella d'uno

segnore c'avea un fedele.

 

Uno fedele d'uno signore, che tenea sua terra, essendo a una stagione i fichi novelli, il signore, passando per la contrada, vidde in su la cima d'un fico un bello fico maturo.

Fecelsi cogliere. Il fedele si pensò:

«Da che li piacciono, io li guarderò per lui».

Sì·ssi pensò d'imprunarlo e di guardarli. Quando furono maturi, sì gliene portoe una soma, credendo venire in sua grazia. Ma, quando li recò, la stagione era passata, che n'erano tanti, che quasi si davano a' porci.

Il segnore, vedendo questi fichi, sì·ssi tenne bene scornato, e comandò a' fanti suoi che 'l legassero e togliessero que' fichi e tutti li gittassero a uno a uno entro il volto.

E quando il fico li venia presso all'occhio, e quelli gridava:

«Domine, te lodo».

I fanti, per la nuova cosa, l'andaro a dire al signore, et egli il domandoe e disse:

«Perché di' tu così quando il fico ci viene presso a l'occhio?».

E quelli rispose:

«Messere, perch'io fui incorato di recare pesche: che s'io l'avesse recate, io sarei ora cieco».

Allora il signore incominciò a ridere e fecelo sciogliere, e vestire di nuovo, e donolli, per la nuova cosa ch'avea detta.

 

 

LXXV

Qui conta come Domenedio s'acompagnò

con uno giullare.

 

Domenedio s'acompagnò una volta con un giullare. Or venne un die che' si bandìe una corte di nozze, e' bandìsi uno ricco uomo ch'era morto. Disse il giullare:

«Io andrò alle nozze, e tu al morto».

Domenedio andò al morto e suscitollo, e guadagnò cento bisanti; il giullare andò alle nozze e satollossi. Redìo a casa, e trovò il compagno suo c'avea guadagnato. Feceli onore.

Quelli era digiuno; il giullare si fe' dare danari e comperò un grasso cavretto et arostillo, et arostendolo sì ne trasse li ernioni e mangiolli.

Quando il compagno l'ebbe innanzi, domandoe delli ernioni. Il giullare rispuose:

«E' non hanno ernioni, quelli di questo paese».

Or venne un'altra volta che anche si bandìo uno paio di nozze e un altro ricco uomo ch'era morto. E Iddio disse:

«Io voglio ora andare alle nozze, e tu vae al morto, et io t'insegnarò come tu il risusciterai: segnera'lo e comandera'li che si levi, ed elli si leverà; ma fatti fare l'impromessione dinanzi».

Disse il giullare:

«Be·llo farò».

Andò, e promise di suscitarlo. E' non si levò per suo segnare.

Il morto era figliuolo di gran signore; il padre s'adiroe veggendo che questi facea beffe; mandollo ad impendere per la gola.

Domenedio li si parò dinanzi e disse:

«Non temere, ch'io lo risusciterò. Ma dimmi in tua fe': chi mangiò li ernioni del cavretto?».

Il giullare rispuose:

«Per quel santo secolo dov'io debbo andare, compagno mio, ch'io non li mangiai!».

Domenedio, veggendo che non lile potea fare dire, increbbeli di lui. Andò e suscitò il morto; e questi fu delibero, ed ebbe la promessione che·lli era fatta. Tornaro a casa. Disse Domenedio:

«Compagno mio, io mi voglio partire da te, perché io non t'ho trovato leale com'io credeva».

Quelli, vedendo ch'altro non poteva essere, disse:

«Piacemi. Dividete, et io piglierò».

Domenedio fece tre parti d'i danari. Il giullare disse:

«Che fai? Noi non semo se non due».

Disse Domenedio:

«Ben è vero; ma quest'una parte sia di colui che mangiò li ernioni e, l'altre due, sia l'una tua e l'altra mia».

Allora disse il giullare:

«Per mia fede, da che tu di' così, ben ti dico che io li mangiai io: ché io sono di tanto tempo, ch'io non debbo ormai dir bugia».

E così si pruovano tali cose per danari, le quali dice l'uomo che non le direbbe per iscampare da morte a vita.

 

 

LXXVI

Qui conta della grande uccisione

che fece il re Ricciardo.

 

Il buono re Ricciardo d'Inghilterra passò una volta oltre mare con baroni, conti e cavalieri prodi e valenti; e passaro in nave, sanza cavalli; et arrivoe nelle terre del Soldano. E così a piè ordinò sua battaglia: e fece d'i Saracini sì grande uccisione, che le balie de' fanciulli dicono, quand'elli piangono: «Ecco il re Ricciardo», acciò che come la morte fu temuto.

Dice che Saladino, veggendo fuggire la gente sua, domandò:

«Quanti cavalieri sono quelli che fanno questa uccisione?».

Fugli risposto:

«Messere, è solamente il re Ricciardo con sua gente, e sono tutti a piede».

Allora rispuose il Soldano e disse:

«Non voglia il mio Iddio che così valentre uomo sia a piede, come il re Ricciardo d'Inghilterra».

Sì prese uno nobile distriere e disse a uno messaggio: «Me.naglile».

Il messaggio il menò e disse:

«Messere, il Soldano vi manda questo acciò che voi non siate a piede».

Lo re fu savio: fecevi montare sù uno suo scudiere acciò che 'l provasse. Il fante così fece. Il cavallo era nodrito: il fante non potendolo tenere neente, sì·ssi adirizzò verso il padiglione del Soldano a sua gran forza. Il Soldano aspettava il re Ricciardo, ma non li venne fatto.

E così nelli amichevoli modi de' nemici non si dee l'uomo fidare.

 

 

LXXVII

Qui conta di messere

Rinieri da Montenero.

 

Messere Rinieri da Montenero, cavaliere di corte, sì passò in Sardigna, e stette col donno d'Alborea; et innamorovvi d'una sarda ch'era molto bella. Giacque con lei. Il marito li trovò. Non li offese, ma andossene dinanzi al donno e lamentossi forte.

Il signore amava questo sardo; mandò per messere Rinieri; disseli molte parole di gran minacce. E messere Rinieri, scusandosi, disse che mandasse per la donna e domandassela se ciò che fece fu altro che per amore.

Le gabbe non piacquero al signore: comandolli ch'elli sgombrasse il paese sotto pena della persona. Non avendolo ancora meritato di suo stallo, messere Rinieri disse:

«Messere, piacciavi di mandare in Pisa al siniscalco vostro che mi proveggia».

Il donno disse:

«Cotesto farò io bene»: feceli una lettera e dieglile.

Or giunse in Pisa e fu al detto siniscalco et, essendo con la nobile gente a tavola, contò il fatto com'era stato; poi die' questa lettera al siniscalco, la quale avea recata; e quelli la lesse, e trovò che·lli dovesse donare un paio di calze line a staffetta, cioè sanza peduli, e non altro. E, innanzi a tutti i cavalieri che v'erano, sì·lle volle. Avendole, ebbevi gran risa e sollazzo. Di ciò non s'adirò punto, perciò ch'era molto gentile cavaliere.

Or avenne ch'entrò in una barca con un suo cavallo e con un suo fante, e tornò in Sardigna. Un giorno, andando il donno a sollazzo con altri cavalieri (e messere Rinieri era grande della persona et avea le gambe lunghe et era su uno magro ronzino, et avea queste calze line in gamba), il donno il conobbe e con adiroso animo il fe' venire dinanzi da·ssé e disse:

«Che è ciò, messer Rinieri, che voi non siete partito di Sardigna?»

«Certo» disse messere Rinieri, «sì sono; ma io sono tornato per li scappini delle calze».

Stese le gambe, mostrò i piedi.

Allora il donno si rallegrò e rise e perdonolli, e donolli la roba ch'avea indosso e disse:

«Messere Rinieri bene hai saputo più che io non ti insegnai».

E que' disse:

«Messere, elli è al vostro onore».

 

 

LXXVIII

Qui conta d'uno filosofo il qual era molto

cortese di volgarizzare la scienzia.

 

Fue uno filosofo, lo quale era molto cortese di volgarizzare la scienzia a' signori, per cortesia, e ad altre genti. Una notte li venne in visione che li parea vedere le dee della scienzia a guisa di belle donne: e stavano al bordello e davansi a chi le volea. Et elli vedendo questo si maravigliò molto e disse:

«Che è questo? Non siete voi le dee della scienzia?»

Et elle rispuosero:

«Certo sì».

«Com'è ciò? Voi siete al bordello?»

Et elle rispuosero:

«Ben è vero: perché tu se' quelli che vi ci fai stare!»

Isvegliossi, e pensossi che volgarizzare la scienzia si era menomare la deitade. Ritràsesine e pentési fortemente. E sappiate che tutte le cose non sono licite a ogni persona.

 

 

LXXIX

Qui conta come un giulare

adorava un signore.

 

E' fue un signore ch'avea un giullare in sua corte, e questo giullare l'adorava sì come un suo iddio, e chiamavalo Dio. Un altro giullare, vedendo questo, sì liene disse male, e disse:

«Or cui chiami tu Iddio? Elli non n'è no ma' un».

E quelli, a baldanza del signore, sì 'l batteo villanamente; e quelli così tristo, non potendosi difendere, andossene a richiamare al signore e disseli tutto il fatto. Il signor se ne fece gabbo. Quelli si partì, e stava molto tristo intra ' poveri, però che non ardiva di stare intra buone persone: sì l'avea quelli concio.

Or avenne che 'l signore fu di ciò molto ripreso, sì ch'elli propuose di dare commiato a questo suo giullare a modo di confini. Et avea cotale uso in sua corte: che, cui elli presentasse, sì·ssi intendea d'avere commiato da·llui e di partirsi fuori di sua corte. Or tolse il signor molti danari d'oro, e feceli mettere in una torta; e, quand'ella li venne dinanzi, sì·lla presentò a questo suo giullare e disse in fra sé:

«Da poi che li mi convien donare commiato, io voglio che sia ricco uomo».

Quando questo giullare vide la torta fu tristo. Pensossi e disse:

«I' ho mangiato: serberolla e darolla all'oste mia».

Andandone con essa all'albergo, trovò colui, cui elli avea così battuto, misero e cattivo. Presegline pietade: andò inverso lui e dielli quella torta. Quelli la prese: andossene con essa: ben fu ristorato di quello ch'ebbe da lui.

E tornando al signore per iscommiatarsi da lui, il signor disse:

«Or se' tu ancor qui? non avestu la torta?».

«Messer, sì ebbi».

«Or che ne facesti?»

«Messere, io avea allora mangiato: diedila a un povero giullare che mi diceva male perch'io vi chiamava mio Iddio».

Allora disse il signore:

«Va' con la mala ventura: ché bene è miglior il suo Iddio che 'l tuo»: e disseli il fatto della torta.

Questo giullare si tenne morto: non sapea che si fare. Partissi dal signore e non ebbe nulla da·llui, et andò caendo colui a cui l'avea data. Non fu vero che mai lo trovasse.

 

 

LXXX

Qui conta una novella che disse messer

Migliore delli Abati di Firenze.

 

Messere Migliore delli Abati di Firenze siando in Cicilia al re Carlo per impetrare grazia che sue case non fossero disfatte (il cavaliere era molto bene costumato, e ben seppe cantare, e seppe il provenzale oltre misura bene proferere), cavalieri leggiadri di Cicilia fecero per amor di lui un grande corredo; et egli vi fue.

Or venne che furono levate le tavole; menarolo a donneare; mostrarli loro gioelli e loro camere e loro diletti, intra ' quali li mostrarono palle di rame stampate, nelle quali ardeano aloe et ambra; e del fumo che n'uscia oloravano le camere loro. In questo parlò messere Migliore e domandò:

«Questo che diletto vi rende? Ditelmi, per cortesia».

Fugli risposto:

«In quelle palle ardiamo ambra et aloe, onde le nostre donne e le camere sono odorifere».

Allora parlò messer Migliore e disse:

«Signori, male avete fatto: questo non è diletto».

Li cavalieri li fecero cerchio intorno domandando il perché; e, quand'elli li vide affisati a udire, e que' disse:

«Signori, ogni cosa tratta della sua natura, ma' tutta è perduta».

E que' domandaro come; ed elli disse che il fumo dell'aloe e dell'ambra dà loro perduto il buon odore naturale: ché la femina non vale neente, se di lei non viene come di luccio passato.

Allora i cavalieri di ciò cominciaro a fare gran sollazzo e gran festa, del parlare di messer Migliore.